A 700 anni dalla morte di Dante Alighieri, il suo capolavoro della Divina Commedia viene ormai utilizzato come spunto privilegiato di pittori e artisti per la realizzazione di celebri dipinti e affreschi. Don Natale Maffioli scrive un articolo su Dante e l’arte pubblicato su “La Voce e il Tempo” domenica 16 maggio. Di seguito la notizia.
Su una parete della navata sinistra (guardando l’altare) della cattedrale di Firenze, Santa Maria del Fiore, è stato realizzato un affresco che risulta essere emblematico per la città stessa e per uno dei suoi fi gli più illustri, si tratta del ritratto di Dante Alighieri e di una sintesi pittorica dell’opera sua, la «Divina Commedia». Il lavoro è del 1456 ed è opera di Domenico di Michelino (1417-1491) su un disegno di Alesso Baldovinetti (1425-1499), entrambi pittori affermati nella Firenze del XV secolo. Dante è ritto al centro della pittura, con l’abbigliamento consacrato da una tradizione secolare: un robone rosso, tipico dei giudici e dei notai, il copricapo dello stesso colore, coronato con un serto di alloro, segno dell’incoronazione a poeta (onore proposto per lui dal bolognese Giovanni del Virgilio, ma Dante non sopravvisse tanto da riceverlo). Con la sinistra squaderna un libro fermato alla pagina dell’incipit del suo capolavoro letterario, la «Commedia».
L’ambientazione non è casuale, sulla sinistra dell’affresco difatti si dispiega il contenuto delle cantiche: il luogo della pena, il luogo dell’espiazione e il luogo della gloria, quest’ultimo è collocato su nel cielo, quasi invisibile, indeterminato ma è quanto il poeta ha descritto. A destra è rappresentata, in modo mirabile, la città di Firenze, la città degli uomini, il luogo della gloria degli uomini, ed è rappresentata nei minimi dettagli: si intravvede una porta tra le mura della città (probabilmente si tratta di porta San Gallo), l’abside ella cattedrale con la cupola del Brunelleschi, il campanile di Giotto, la torre del Palazzo Vecchio, quella del Bargello e il campanile della Badia. Il poeta indica con la destra le realtà ultraterrene, ma il suo sguardo è rivolto alla città da lui tanto amata.
Il pittore, di certo su indicazione dei committenti, ha dato ampio spazio alla descrizione di Firenze, e non a caso. In contrapposizione all’Inferno è delineato il ‘Paradiso’ terreno; le due porte si fronteggiano, quasi a significare che se da una parte si va all’eterno dolore, «lasciate ogni speranza voi ch’entrate», dall’altra, per una riconoscibile porta cittadina quasi a manifestare che Firenze è già un luogo, anche se laico, dove risiede l’umana perfezione e la felicità. L’esaltazione è quindi rivolta alla ‘gloria terrestre’ secondo una tendenza tipicamente rinascimentale. Alla base della pittura una scritta:
«Qui caelum cecinit, tribunale mediumque imumque, Lustra vitque animo cuncta poeta suo, Doctusa dest Dantes, sua quem Florentia saepesensit consilii sacpietate patrem. Nilpotuit tanto morssavanocere poeta Quem vivum virtus, carmen, imago facit» (Che cantava del cielo e delle due regioni, a metà strada e nell’abisso, dove le anime sono giudicate, sorvegliando tutto nello spirito, lui è qui, Dante, il nostro maestro poeta. Firenze ritrovata spesso in lui un padre, saggio e forte. Nella sua devozione la morte non poteva causare danni aun tale bardo. Per lui la vera vita ha guadagnato il suo valore, i suoi versi e questa la sua effige).
L’arte tra le arti
Un’opera d’arte, vuoi letteraria che figurativa, non nasce dal niente, come un fungo dopo un temporale, ma ha dei precedenti e dei postumi, e anche se questi non sono immediatamente districabili, sono pur sempre rintracciabili. Questo accade anche per un’opera determinante per la storia della letteratura e per l’arte come la «Divina Commedia», e per il suo autore, la prima porta con sé non solo la memoria degli studi del suo autore ma pure di quanto ha visto, delle le sue visioni e in ultima analisi, di quanto ha sperimentato di persona. Allora è necessario, in un lavoro che voglia celebrare il settimo centenario della dipartita del poeta, esplorare, ancora una volta, quanto lo ha anticipato e quanto il poeta ha conosciuto sia della letteratura che delle arti figurative dell’epoca sua. Celebrare la «Commedia» significa ricordare il testo di Bonvesin de la Riva (Milano 1250- 1313), il Libro delle tre Scritture.
L’opera del poeta milanese costituisce un antecedente (anche se di valore marginale) dell’opera dantesca, sono infatti numerosi gli elementi comuni: la ripartizione dei tre regni ultraterreni, e la distribuzione delle pene e delle glorie, non è presente nel lavoro di Bonvesin la descrizione del Purgatorio. La lingua italiana, nel milanese è spuria mentre in Dante è altissima.
Certamente la «Commedia» ha offerto spunti ideologici anche ai pittori, a coloro che l’hanno intesa come un ‘prontuario’ per le loro opere per la cosiddetta ‘Biblia Pauperum’, per coloro che hanno tratto spunto, oppure hanno descritto, se non puntualmente ma per gli stessi motivi di Dante, le pene e le gioie delle realtà dei ‘Novissimi’. Faccio riferimento, ad esempio, al «Giudizio Finale», un truce affresco di Taddeo di Bartolo (1263-1422), un pittore senese, che l’ha dipinto nel 1393 sulla controfacciata della Collegiata di San Gimignano. Oppure agli affreschi di Andrea Orcagna per Santa Croce a Firenze della metà del Trecento. Ma anche al «Giudizio Finale» della padovana Cappella degli Scrovegni, realizzati da Giotto tra il 1303 e il 1306, certamente contemporaneo e, a quanto si dice, amico del poeta, si tenga però presente che numerose sono le incongruenze per collegare i due artisti, visto che la cantica dell’Inferno fu pubblicata nel 1325. Ben più aderente al testo dantesco, anche se tarda, è l’opera di Sandro Botticelli (1445-1510). I cento disegni (realizzati tra il 1480 e il 1495), distribuiti tra Berlino (il nucleo più consistente) e la Biblioteca Apostolica Vaticana, rappresentano, in modo sorprendente, su pergamena colorata a tempera, la grande voragine dell’Inferno. Il pittore si è servito di espedienti i più diversi per realizzare il capolavoro: ha tracciato i contorni con lo stilo d’argento che poi ha ripassato a penna utilizzando l’ocra, l’oro o il nero. Non sono molti i disegni ultimati, l’unico completo è la descrizione del grande imbuto infernale, è una suggestiva raffigurazione dell’insieme dove spiccano le figure miniaturizzate dei dannati e dei due viaggiatori in una persistente narrazione con la presenza di gli elementi naturalistici come il fiume che circonda la città di Dite o la grande scarpata. Si tratta infine, di un viaggio tra il letterario, il didattico, il morale e il filosofico.
La ritrattistica dantesca
A questo punto viene spontaneo attardarci nel valutare i ritratti di Dante, dai realistici agli idealizzati, dai più antichi ai recenti, tutti realizzati da artisti anche di grande levatura; abbiamo già visto il tardo ritratto dipinto da Domenico di Michelino nel duomo di Firenze, ma andiamo per ordine: tra i primi figura quello nel ciclo del palazzo dell’arte dei Giudici e dei Notai di autore ahimè ignoto e decisamente ammalorato. Il ciclo pittorico di cui fa parte ritrae i più antichi poeti fiorentini, e tra questi figurano Dante e Boccaccio (anche se il Boccaccio non era fiorentino di nascita ma di Certando), il volto del nostro poeta è leggermente diverso da come siamo avvezzi a ricordarlo, aveva sì un naso prominente ma non troppo aquilino, la rappresentazione è verosimile perché è di pochi anni precedente quello della cappella del palazzo Podestà meglio conosciuto come palazzo del Bargello. Questo raccolto ambiente sacro (dove i condannati a morte trascorrevano la loro ultima notte) era stato affrescato, tra il 1330 e il 1337, da pittori della bottega di Giotto, e raffiguravale storie di Maria Maddalena e il Giudizio Finale il ciclo è frammentario, ma tra i lacerti del Giudizio, nel novero dei Beati, si trova anche il ritratto di Dante, l’attribuzione è plausibile perché la data della fine dei lavori di affresco coincide con quella di morte del poeta.
Altri artisti si sono cimentati, per motivi diversi, con la figura del poeta. È di un’epoca tra 1448 e il 1451 il ritratto di Dante realizzato da Andrea del Castagno; fu dipinto su una loggia della Villa Carducci Pandolfini, nell’attuale quartiere fiorentino di Legnaia in compagnia di altri personaggi significativi della storia fiorentina, oltre al nostro, poeti come Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio. Verso la metà dell’Ottocento furono strappati e collocati nel Museo del Bargello, per finire poi nel «Cenacolo di Sant’Apollonia» assieme a ben noti lavori di Andrea del Castagno. Dopo la tragica alluvione del 1966 il ritratto di Dante fu esposto agli Uffizi, dove si trova attualmente.
Dante è stato raffigurato con il viso severo, la tradizionale guarnacca di colore rosso e il copricapo guarnito con pelliccia, con la sinistra da segno di voler intervenire su un argomento che gli sta a cuore e con la mano destra regge un libro, sintesi della sua produzione letteraria. Un singolare ritratto del ‘Divino Poeta’ lo troviamo nel transetto della cattedrale di Orvieto nella cappella di San Brizio. Alla base degli affreschi, grandiosi, entro una complessa cornice di grottesche, il pittore Luca Signorelli ha realizzato un’immagine del poeta. Luca ha narrato, sulle ampie pareti della cappella, le vicende terminali della storia umana. La stesura dell’affresco era iniziata nel 1447 con l’intervento del Beato Angelico e Benozzo Gozzoli, dopo un lungo tergiversare l’affresco era stato terminato dal Signorelli nel 1502. Il ciclo caro all’epoca narra «La predica e i fatti dell’Anticristo», il «Finimondo», la «Risurrezione della carne», la «Salita al Paradiso e la chiamata all’Inferno» i «Dannati all’Inferno», e i «Beati in Paradiso». La serie comprende tematiche più ampie desunte anche dalla «Legenda aurea» di Jacopo da Varagine, ma la monumentalità delle figure che le rende quasi una rassegna di corpi poderosi rimanda al michelangiolesco «Giudizio Universale» (realizzato tra il 1536 e il 1541) dove, grazie alla passione del pittore per la «Commedia» presenta particolari degni per grandiosità del testo letterario.