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Casa don Bosco resta aperta on line come museo virtuale

Si riporta la notizia pubblicata dall’Avvenire sull’iniziativa del museoCasa di don Bosco‘ che decide di aprire le sue porte virtuali per essere visitato Online.

Di seguito il testo completo della notizia pubblicata il 14 novembre su Avvenire, edizione cartacea e Online.

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Articolo di Marina Lomunno

«Benvenuti a Valdocco, culla del carisma salesiano. Qui don Bosco e sua mamma Margherita hanno accolto i primi ragazzi di strada, i primi orfani. Qui siamo nati noi, salesiani di don Bosco. Sono sicuro che questa casa ti racconterà il grande dono che è don Bosco per i giovani e per la famiglia salesiana di tutto il mondo». Sono le parole di don Ángel Fernández Artime, rettor maggiore e decimo successore del santo dei giovani che accolgono i visitatori del nuovo Museo aperto al pubblico nella Casa Madre dei salesiani, con accesso dal cortile interno della Basilica di Maria Ausiliatrice, lo scorso 4 ottobre ma momentaneamente chiuso a causa dell’emergenza Covid.

A tagliare il nastro con le autorità (lo spazio espositivo ha il patrocinio della Regione Piemonte e della città di Torino) è stato il rettor maggiore stesso che ha sottolineato come già il nome dato al Museo “Casa don Bosco” indichi lo spirito con cui si è pensato. E cioè, in 4mila metri quadrati, tre piani e 27 spazi espositivi, si vuole condurre il visitatore dai luoghi della prima comunità dell’oratorio inventato da don Bosco, spazi poveri e semplici come il refettorio dove mangiavano i primi ragazzi, alle camerette del santo, al lungo corridoio dove passeggiava confessando i suoi giovani, fino alle testimonianze provenienti da tutto il mondo dell’avventura educativa che oggi ha raggiunto i ragazzi “discoli e pericolanti” in 133 nazioni dei 5 continenti, come ha sottolineato don Cristian Besso museologo di Casa don Bosco. «Ciò che desideriamo trasmettere a chi entra nel Museo – evidenzia don Guido Errico, rettore della Basilica di Maria Ausiliatrice – è il senso della comunità che ha creato attorno a sè don Bosco, con un piccolo nucleo di ragazzi poveri e orfani che vivevano qui giorno e notte, di una famiglia che oggi è diventata una “multinazionale educativa” con 14mila salesiani sparsi per il mondo, 30 santi e venerabili che perpetuano il sistema preventivo casa-scuola- mestiere ed educazione alla fede ma che non ha perso il senso delle origini: pastorale giovanile per i giovani più bisognosi, pastorale missionaria, devozione a Maria, pilastro del carisma salesiano».

Mamma e insegnante, una laurea in Storia dell’arte e una specializzazione in Museologia, Stefania De Vita è la direttrice del Museo che ha coordinato l’allestimento durato due anni catalogando migliaia di pezzi, «dagli oggetti personali di don Bosco a un affresco del ’300, ai paramenti dei primi collaboratori del santo, uno per tutti Michele Rua, dalle pietre che i ragazzi raccoglievano nei fiumi cittadini, il Po e la Dora, e portavano a Valdocco per costruire l’oratorio: il materiale espositivo è talmente ricco che ci sono due archivi a disposizione e i “pezzi” che non sono ancora visibili, nonostante l’ampiezza della superfice a disposizione, ruoteranno periodicamente nelle teche delle sezioni del Museo». Insomma La Casa don Bosco non si può raccontare bisogna viverla perché qui si respira il miracolo della vita di un santo contadino che, partito con la mamma dalle colline alla porte di Torino, ha saputo realizzare un sogno: dare speranza alla gioventù derelitta della Torino dell’Ottocento, conclude don Leonardo Mancini, ispettore dei salesiani del Piemonte e della Valle d’Aosta: «Riscoprire le nostre origini percorrendo queste sale dove è nata la famiglia salesiana ci fa riscoprire l’idea di famiglia che ha spinto don Bosco a fondare la congregazione per dare di più ai ragazzi che hanno avuto di meno. Questi muri ci ammoniscono che questa continua ad essere la nostra missione». «Purtroppo a causa della recrudescenza dell’epidemia che con l’ultimo Dpcm ha decretato il Piemonte Zona rossa da venerdì 6 novembre il Museo è chiuso – conclude don Errico – ma in un mese di apertura abbiamo staccato ben 1.600 biglietti e avevamo già molte altre prenotazioni. Speriamo che la Pandemia si affievolisca e che nel periodo natalizio “Casa don Bosco” possa riaprire».

Per il momento sul sito www.museocasadonbosco.it si può entrare nel Museo virtualmente: quando sarà possibile la visita, gratuita e se si desidera guidata dai volontari, occorrerà prenotarsi alla mail: info@museocasadonbosco.

Casa don Bosco resta aperta on line come museo virtuale

Pubblichiamo l’articolo di Marina Lomunno, uscito su Avvenire, sull’apertura online del museo Casa Don Bosco di Valdocco, inaugurato il 14 ottobre ma momentaneamente chiuso al pubblico per l’emergenza sanitaria.

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«Benvenuti a Valdocco, culla del carisma salesiano. Qui don Bosco e sua mamma Margherita hanno accolto i primi ragazzi di strada, i primi orfani. Qui siamo nati noi, salesiani di don Bosco. Sono sicuro che questa casa ti racconterà il grande dono che è don Bosco per i giovani e per la famiglia salesiana di tutto il mondo».

Sono le parole di don Ángel Fernández Artime, rettor maggiore e decimo successore del santo dei giovani che accolgono i visitatori del nuovo Museo aperto al pubblico nella Casa Madre dei salesiani, con accesso dal cortile interno della Basilica di Maria Ausiliatrice, lo scorso 4 ottobre ma momentaneamente chiuso a causa dell’emergenza Covid.

A tagliare il nastro con le autorità (lo spazio espositivo ha il patrocinio della Regione Piemonte e della città di Torino) è stato il rettor maggiore stesso che ha sottolineato come già il nome dato al Museo “Casa don Bosco” indichi lo spirito con cui si è pensato. E cioè, in 4mila metri quadrati, tre piani e 27 spazi espositivi, si vuole condurre il visitatore dai luoghi della prima comunità dell’oratorio inventato da don Bosco, spazi poveri e semplici come il refettorio dove mangiavano i primi ragazzi, alle camerette del santo, al lungo corridoio dove passeggiava confessando i suoi giovani, fino alle testimonianze provenienti da tutto il mondo dell’avventura educativa che oggi ha raggiunto i ragazzi “discoli e pericolanti” in 133 nazioni dei 5 continenti, come ha sottolineato don Cristian Besso museologo di Casa don Bosco.

«Ciò che desideriamo trasmettere a chi entra nel Museo – evidenzia don Guido Errico, rettore della Basilica di Maria Ausiliatrice – è il senso della comunità che ha creato attorno a sè don Bosco, con un piccolo nucleo di ragazzi poveri e orfani che vivevano qui giorno e notte, di una famiglia che oggi è diventata una “multinazionale educativa” con 14mila salesiani sparsi per il mondo, 30 santi e venerabili che perpetuano il sistema preventivo casa-scuola- mestiere ed educazione alla fede ma che non ha perso il senso delle origini: pastorale giovanile per i giovani più bisognosi, pastorale missionaria, devozione a Maria, pilastro del carisma salesiano».

Mamma e insegnante, una laurea in Storia dell’arte e una specializzazione in Museologia, Stefania De Vita è la direttrice del Museo che ha coordinato l’allestimento durato due anni catalogando migliaia di pezzi, «dagli oggetti personali di don Bosco a un affresco del ’300, ai paramenti dei primi collaboratori del santo, uno per tutti Michele Rua, dalle pietre che i ragazzi raccoglievano nei fiumi cittadini, il Po e la Dora, e portavano a Valdocco per costruire l’oratorio: il materiale espositivo è talmente ricco che ci sono due archivi a disposizione e i “pezzi” che non sono ancora visibili, nonostante l’ampiezza della superfice a disposizione, ruoteranno periodicamente nelle teche delle sezioni del Museo».

Insomma La Casa don Bosco non si può raccontare bisogna viverlaperché qui si respira il miracolo della vita di un santo contadino che, partito con la mamma dalle colline alla porte di Torino, ha saputo realizzare un sogno: dare speranza alla gioventù derelitta della Torino dell’Ottocento, conclude don Leonardo Mancini, ispettore dei salesiani del Piemonte e della Valle d’Aosta: «Riscoprire le nostre origini percorrendo queste sale dove è nata la famiglia salesiana ci fa riscoprire l’idea di famiglia che ha spinto don Bosco a fondare la congregazione per dare di più ai ragazzi che hanno avuto di meno. Questi muri ci ammoniscono che questa continua ad essere la nostra missione».

«Purtroppo a causa della recrudescenza dell’epidemia che con l’ultimo Dpcm ha decretato il Piemonte Zona rossa da venerdì 6 novembre il Museo è chiuso – conclude don Errico – ma in un mese di apertura abbiamo staccato ben 1.600 biglietti e avevamo già molte altre prenotazioni. Speriamo che la Pandemia si affievolisca e che nel periodo natalizio “Casa don Bosco” possa riaprire». Per il momento sul sito www.museocasadonbosco.it si può entrare nel Museo virtualmente: quando sarà possibile la visita, gratuita e se si desidera guidata dai volontari, occorrerà prenotarsi alla mail: info@museocasadonbosco.

FCA riceve un riconoscimento dall’UNHCR per l’inserimento lavorativo dei rifugiati formati al CFP Agnelli

Pubblichiamo un articolo uscito su Avvenire dove si riporta la notizia del riconoscimento ottenuto da Fiat-Chrysler “Welcome Working for refugee integration per l’impegno nell’inserimento lavorativo dei rifugiati. Questi ragazzi, prima di lavorare per FCA, sono stati formati dal Cnos Fap dell’istituto Agnelli.

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L’UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees) ha conferito oggi a Fiat-Chrysler il prestigioso logo Welcome Working for refugee integration per l’anno 2019, per l’impegno dimostrato nella promozione di interventi specifici per l’inserimento lavorativo dei rifugiati. Il riconoscimento è stato assegnato grazie alla partecipazione di Fca al progetto MOI, “Migranti, un’Opportunità d’Inclusione”, nato da un’intesa tra il Comune di Torino, la Regione Piemonte, la Città Metropolitana di Torino, la Prefettura, la Diocesi di Torino e la Fondazione Compagnia di San Paolo. L’obiettivo è di contribuire alla risoluzione della condizione dell’ex-MOI di Torino (Mercato Ortofrutticolo all’Ingrosso, divenuto villaggio olimpico per l’Olimpiade invernale Torino 2006) dove quattro stabili erano occupati (fino a luglio 2019) da diverse centinaia di persone immigrate, in condizione di degrado e disagio, alle quali il progetto ha offerto percorsi di accompagnamento individualizzato per l’autonomia abitativa e lavorativa e concrete opportunità di inclusione sociale.

L’impegno di FCA nel progetto, grazie ad una collaborazione con la Fondazione Compagnia di San Paolo, è consistito nell’organizzazione e nell’erogazione di un percorso formativo rivolto a 15 persone del MOI (gli stati di provenienza erano Sudan, Nigeria, Somalia, Burkina Faso, Ghana, Mali, Togo), con la finalità di prepararli al mondo del lavoro. Il percorso formativo si è focalizzato sulle competenze richieste dal processo produttivo:
– Formazione generale (200 ore, inclusa lingua italiana e conoscenze tecniche di base): realizzata dal Centro Nazionale Opere Salesiane – Formazione e Aggiornamento Professionale (CNOS FAP) con il contributo di FCA e della Fondazione Compagnia di San Paolo
– Formazione specialistica (160 ore, conoscenze World Class Manufacturing): realizzata direttamente da docenti FCA
– Patentino da carrellista (40 ore)

Al termine del percorso formativo le persone sono state introdotte al mercato del lavoro italiano, grazie anche al coinvolgimento da parte di Fca di alcune Agenzie per il Lavoro e, quattro di loro, John (Nigeria), Mare (Burkina Faso), Adam e Amir, entrambi del Sudan, sono stati impiegati, ad ottobre 2019, nello stabilimento Sevel di Atessa (Chieti), con contratto di somministrazione annuale. “L’inserimento lavorativo dei quattro rifugiati è stato un successo sotto il profilo professionale, con il rinnovo contrattuale appena arrivato per gli aspetti di inclusione sociale, con il team Sevel e la comunità locale per temi più personali come la possibilità di supportare in modo continuativo la famiglia rimasta nel paese di origine e di considerare il ricongiungimento familiare”, sottolineano fonti aziendali.

 

 

 

Nuovo messale, intervista a suor Elena Massimi che ha curato la parte musicale

Pubblichiamo un articolo nel quale suor Elena Massimi, FMA, spiega la parte musicale del nuovo Messale, che lei ha curato.

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Qualcuno potrà stupirsi quando, aprendo la nuova edizione in italiano del Messale Romano, si troverà davanti il pentagramma che accompagna le parole pronunciate dal sacerdote o dai fedeli. Non in tutte le parti del rinnovato libro liturgico lo si incontra, ma in più punti sì. Ad esempio nel saluto iniziale. Uno spartito indica la melodia che il celebrante può intonare allargando le braccia: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi»; e un’altra battuta segnala come l’assemblea possa rispondere cantando: «E con il tuo spirito». È ben più “musicale” il nuovo Messale che sta per arrivare nelle parrocchie della Penisola. Perché, come si legge nella Presentazione della Cei, «il canto non è un mero elemento ornamentale ma parte necessaria e integrante della liturgia solenne». Per la prima volta le partiture entrano a pieno titolo nel corpo del testo e non finiscono in appendice come era accaduto nel Messale ancora in uso, quello datato 1983. Non solo. Aumentano i brani proposti. E si torna a privilegiare le formule ispirate al gregoriano evitando che il libro dell’Eucaristia diventi un luogo di sperimentazione. «Il canto apre al mistero e contribuisce alla manifestazione del Signore. Per questo è stato particolarmente valorizzato in questa nuova edizione», spiega suor Elena Massimi, che ha coordinato e curato il lavoro relativo alle melodie del Messale.

Figlia di Maria Ausiliatrice, un passato da musicista, collaboratrice dell’Ufficio liturgico nazionale, è docente di teologia sacramentaria alla Pontificia Facoltà di scienze dell’educazione “Auxilium” di Roma. C’era anche lei lo scorso 28 agosto all’udienza in Vaticano durante la quale la prima copia del Messale è stata consegnata a papa Francesco da una delegazione della Cei guidata dal cardinale Gualtiero Bassetti. Per due anni la religiosa è stata alle prese con gli spartiti che poi sono entrati nel volume. Affiancata da un’équipe di dieci esperti: sacerdoti e laici, monaci e consacrate, studiosi e compositori.

Nel nuovo Messale sono state inserite le melodie per il segno della croce, per il saluto, per i primi prefazi dei diversi Tempi e solennità (Avvento, Natale, Epifania, Quaresima, Pasqua, Ascensione e domeniche del Tempo ordinario). Ancora. Troviamo musicati i testi dell’anamnesi (“Annunziamo la tua morte Signore…”), della dossologia finale della Preghiera eucaristica (“Per Cristo, con Cristo, in Cristo…”), del Padre Nostro, dell’acclamazione “Tuo è il regno…”, della pace (“Scambiatevi il dono della pace”), del saluto finale, della benedizione e del congedo (“Andate in pace”; “Rendiamo grazie a Dio”). «Così viene evidenziata l’importanza del canto, a cominciare da quello del sacerdote che negli anni è stato trascurato – afferma la liturgista –. Intendiamo ridare ad alcune sezioni della Messa la dignità che è loro più propria, ossia quella di essere cantate. Pensiamo ai prefazi: è un testo lirico, poetico; se non viene cantato si attenua la sua forza».

Le melodie presenti fra le pagine del volume sono quelle dal «tono semplice d’ispirazione gregoriana: il tono di Do per i riti d’introduzione e di conclusione; il tono di Re per la liturgia eucaristica», chiarisce la docente. E aggiunge: «Erano già presenti nel Messale del 1983 ma venivano proposte come seconda opzione, mentre la prima era quella di nuova composizione». Quest’ultime, però, non hanno attecchito. Come ha mostrato l’analisi della prassi liturgica che è stata utilizzata per scegliere quali musiche privilegiare, quali salvare e quali accantonare. «Negli ultimi quarant’anni la Chiesa italiana ha recepito soprattutto le melodie di stampo gregoriano che sono ormai entrate nella mente e nell’orecchio di presbiteri e fedeli e che vengono intonate senza difficoltà durante i riti», riferisce la docente. Partiture che sono state, quindi, riprese e riadattate ai nuovi testi. Com’è il caso del Padre Nostro che cambia con l’aggiunta di un “anche” («come anche noi li rimettiamo») e con la nuova espressione «non abbandonarci alla tentazione». Racconta suor Massimi: «Fra le mani abbiamo avuto diversi adattamenti della melodia alla preghiera rivista. Alla fine ne abbiamo scelti tre e li abbiamo testati in alcune parrocchie, case di spiritualità, Seminari del Nord, del Centro e del Sud Italia. La versione confluita nel Messale è quella risultata più “naturale” alle assemblee».

Il pentagramma va a braccetto anche con alcuni testi del Triduo pasquale o di altre celebrazioni di particolare significato, come la Messa del Crisma o la Pentecoste.

La musica accompagna, ad esempio, il prefazio del Giovedì Santo oppure il prefazio e il congedo della Veglia e della Domenica di Pasqua. «Tutto ciò per ribadire la centralità del Triduo all’interno dell’Anno liturgico», dice suor Elena. Il Messale si conclude con un’appendice musicale più ampia rispetto all’edizione precedente dove sono state spostate le nuove composizioni del 1983 che sono convalidate dall’esperienza di questi decenni e dove, fra l’altro, sono state inserite anche le melodie in tono solenne per alcune parti della Messa.

Però, all’appello mancano altri “elementi” della celebrazione che la musica ha sempre scandito ma di cui il nuovo Messale non prevede melodie ad hoc: il Kyrie; il Gloria; il Santo. «È stata una scelta deliberata – nota la docente –. Nella Penisola le parrocchie conoscono una rilevante diversificazione musicale fra Nord e Sud. Pertanto non abbiamo inteso indicare melodie standard ma desideriamo lasciare le comunità libere di trarle dal repertorio locale». E per i canti d’ingresso, d’offertorio e di comunione? «Vale il Repertorio nazionale varato dalla Cei nel 2007», suggerisce la religiosa.

Certo, lo stesso Messale ricorda che i brani devono essere «adatti al momento e al carattere del giorno o del Tempo», che devono essere adeguati «alle capacità dell’assemblea», che va privilegiato l’organo a canne anche se il vescovo può consentire l’impiego di altri strumenti adeguati «all’uso sacro». Insomma si sentirà più canto a Messa? «Il Messale – conclude suor Massimi – offre una vasta gamma di possibilità. Faccio fatica a immaginare un’intera liturgia feriale cantata. Tuttavia, sarebbe bene che nelle Messe festive venisse cantato almeno il “Mistero della fede” o la dossologia. E a Natale il prefazio, anche per sottolineare lo specifico rilievo della celebrazione».

 

Avvenire – Sussidio pastorale per la scuola. La Cei: studiare, per cercare un senso nella vita

Il nuovo documento della Commissione CEI per l’educazione cattolica, nel giorno di riapertura delle scuole, incoraggia tutti a “testimoniare, discernere e servire”. Di seguito l’articolo pubblicato da Avvenire a cura di Enrico Lenzi.

Da «una pastorale “della” scuola» a «una pastorale “per” la scuola». Sta tutto in questo cambio di preposizione il senso del nuovo sussidio che lunedì 14 settembre, nel giorno di riapertura ufficiale delle scuole in Italia, viene pubblicato dalla Commissione episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università. Si tratta di un documento che in qualche modo si pone al termine del decennio che la Chiesa italiana ha voluto dedicare al tema dell’educazione (gli Orientamenti pastorali 2010/2020 sull’Educare alla vita buona del Vangelo), ma che al tempo stesso intende rivolgere il proprio sguardo al futuro, come sottolinea nella sua presentazione il vescovo Mariano Crociata presidente della stessa Commissione Cei.

Del resto, ribadisce il sussidio – intitolato significativamente «Educare, infinito presente» -, per «la Chiesa la scuola è una realtà da amare in cui stare con passione e competenza, contribuendo alla costruzione del progetto scolastico».

Ma se la presenza e l’attenzione della comunità cristiana al tema della scuola ha radici lontane, quello che deve cambiare secondo il documento della Commissione episcopale, è la modalità di approccio e lo stile di presenza. Un cambio al quale sono chiamati tutti: dai docenti ai genitori, dagli studenti al personale, fino alle realtà educative e alle stesse parrocchie. Insomma «l’attenzione alla scuola deve diventare una responsabilità di tutta la comunità». Proprio per questo, riflettono i vescovi della Commissione, non si può continuare a procedere «a compartimenti stagni», cioè con pastorali che prendano in considerazione solo un unico aspetto senza mettersi a confronto con altre che hanno come destinatari gli stessi ragazzi e giovani.

Il documento della Cei (nella versione integrale) – che si suddivide in tre parti più una quarta che riporta testi, interventi, discorsi sul tema della scuola e dell’educazione – offre una analisi e una osservazione sull’esistente, a cominciare «dalla difficile esperienza vissuta nei primi mesi del 2020 con l’improvvisa e prolungata chiusura delle sedi scolastiche a causa della pandemia». E se il ricordo alla didattica a distanza «ha permesso di limitare le conseguenze sulla crescita e l’apprendimento degli alunni», ha anche «fatto affiorare interrogativi di fondo sul ruolo della scuola nella società, sul valore insostituibile della relazione educativa, sull’apporto integrativo delle tecnologie nella didattica». Secondo il sussidio Cei, infatti, alla base di qualsiasi intervento nella scuola, «non può dimenticare che la relazione educativa è il suo cuore», in un «patto di corresponsabilità che lega in primo luogo insegnanti e alunni, ma si estende anche all’interno del corpo docente, alle famiglie e alle forze vive del territorio in un dialogo che riconosce a ciascuno le proprie responsabilità specifiche e pone tutti in rapporto di rispettosa collaborazione». Proprio la collaborazione è l’approccio auspicato da quel cambio di preposizione – “per” – che il documento propone. Il tutto per «ridare senso alla routine dello studio, perché lo studio serve a porsi domande, a non farsi anestetizzare dalla banalità, a cercare senso nella vita».

Un obiettivo proposto alla scuola e a tutte le sue componenti (a cui il testo riserva singoli spazi), richiamando tutti e ciascuno ai valori della «testimonianza, del discernimento e del servizio». Ovviamente i vescovi italiani indicano questo cammino in primo luogo alle comunità cristiane (parrocchie, associazioni, gruppi professionali e altro), pur ribadendo che nella crescita completa di una persona «non può mancare la dimensione religiosa», che la Chiesa offre con la presenza dell’insegnamento della religione cattolica (Irc) anche nella scuola statale.

Questo coinvolgimento di tutti vuole portare al superamento «della frammentazione all’integrazione dell’azione pastorale», che vuol dire «realizzare un modo di pensare e un agire pastorale davvero unitario e centrato sulla persona. I giovani hanno bisogno di essere aiutati a unificare la vita» e la «pastorale per la scuola può essere un prezioso banco di prova per sviluppare un agire più integrato e aperto a diverse presenze». Anche per questo il sussidio ribadisce l’importanza di un Ufficio nazionale della scuola e quello dell’Irc, il Centro studi della scuola cattolica e il Consiglio nazionale della scuola cattolica. E un capitolo è dedicato proprio alla scuola cattolica e ai corsi di formazione professionale di area cattolica che «hanno un ruolo primario di promozione e di riferimento nella pastorale per la scuola».

Il sussidio Cei offre a tutta la scuola – cattolica e paritaria – anche alcuni esempi progettuali da mettere in campo: da momenti religiosi offerti alla scuola alla Settimana dell’educazione che diverse diocesi realizzano da qualche anno; dal sostegno allo studio all’attenzione vero l’orientamento, per citarne alcuni.

Don Domenico Rosso: un maestro che ha segnato tante vite

I quotidiani Avvenire e IlSussidiaro.net dedicano un articolo al salesiano don Domenico Rosso, mancato martedì 2 giugno all’età di 86 anni, della Comunità di Torino Rebaudengo. Si riportano di seguito l’articolo pubblicato su “Avvenire” a cura di Marian Lomunno, l’articolo pubblicato su “Il Sussidiario” a cura di Monica Mondo, l’articolo di domenica 14 giugno su “La Voce e il Tempo” a cura di Alberto Chiara.

Don Rosso formatore e prete amico dei giovani

Martedì scorso è mancato a 86 anni, stroncato da un infarto presso l’infermeria di Valdocco nella casa- madre dei figli di don Bosco, don Domenico Rosso, prete poliedrico e amatissimo da generazioni di giovani e famiglie. «Un salesiano a tutto tondo – ricorda il confratello don Mario Pertile, incaricato dell’infermeria che lo ha seguito fino all’ultimo –. È stato il mio maestro spirituale dalla seconda media: è a lui, come molti altri miei confratelli, che devo la vocazione. A don Domenico si deve anche la fondazione e la direzione negli anni ’70 di “Radio Proposta Incontri” l’emittente diocesana che fu palestra di decine di giornalisti cattolici alcuni dei quali importanti firme di Famiglia Cristiana, Rai, Avvenire. E poi l’impegno assiduo per i giovani, le famiglie, il laicato e gli universitari cattolici con l’invenzione, 40 anni fa, dell’esperienza estiva per ragazzi e famiglie presso il Forte di Santa Chiara in Val di Susa, centro di spiritualità salesiana punto di riferimento per migliaia di giovani». Tra gli altri incarichi ricoperti nella Famiglia salesiana don Rosso è stato l’ultimo superiore dell’Ispettoria centrale Ice e per molti anni ha svolto il servizio di direttore in diverse Case della circoscrizione Piemonte e Valle d’Aosta. Il Rosario in suffragio di don Rosso è fissato per questa sera alle 20.45 nella parrocchia San Giuseppe Lavoratore a Rebaudengo, la sua ultima comunità dove aveva sede Radio Proposta, e la Messa funebre domani alle 10 nella Basilica di Maria Ausiliatrice. Sarà tumulato nella tomba di famiglia a Foglizzo (To).

Marina Lomunno

DON DOMENICO ROSSO/ Giornalismo e fede: un maestro che ha segnato tante vite

Il torinese don Domenico Rosso, per gli amici Rouge o Mingus, salesiano di testa e di cuore, è un pezzo di storia della comunicazione che se ne va

Lo chiamavano Rouge, storpiando con eleganza il cognome, o alla sudamericana, Mingus. Don Domenico Rosso, torinese, salesiano di testa e di cuore, è un pezzo di storia della comunicazione che se ne va, un pezzo della comunicazione cattolica, che è stata pioniera, per l’apertura di orizzonti, l’originalità delle proposte, la fermezza e l’audacia di non vergognarsi di Gesù Cristo, quando veniva via via allontanato dai media.

Don Rosso, rettore della seconda casa madre salesiana dopo il Valdocco, Colle don Bosco, è stato dal 1979 direttore di Radio Incontri, poi Radio Proposta, subito identificata con la radio della diocesi di Torino, anche se nasceva dalla fantasia dei salesiani, e la sua location era una torretta di uno dei suoi centri più vivaci nella periferia torinese, Rebaudengo. Dalle finestrelle appollaiate si vedevano i ragazzini giocare a pallone nel cortile e le signore col velo entrare in chiesa per le funzioni.Don Domenico, occhialetto sul naso, sorriso sornione, era un maestro, di vita e di giornalismo: intelligente, capace, acchiappò da subito l’opportunità della libera radiofonia per lanciare un gruppo di ragazzi nell’etere, armati solo di registratori a batterie e passione, oltre a quella faccia tosta – chiamiamola baldanza giovanile – che permetteva di incontrare e chiamare ai microfoni le personalità più importanti del mondo della politica, della cultura. Nessuna improvvisazione ingenua: gli studi della radio erano insonorizzati, attrezzati al meglio con la tecnologia più moderna, e i giovani cooptati non proprio degli sprovveduti: in quelle stanze si è formata una generazione di giornalisti, che oggi lavorano nelle più diverse testate. Lo scopo era netto, come sempre con i figli di don Bosco:

“Promuovere la conoscenza, l’incontro e la circolazione di idee e di esperienze tra le realtà giovanili cattoliche, per la realizzazione di una proposta cristiana della vita”.

Questo si traduceva nel cercare e dare notizie, con un punto di vista cristiano, sì, ma mai bigotto, mai nascondendo, mai annacquando, mai trasformando la fede in ideologia, o facendone una bandiera identitaria per rivendicazioni che, anche allora, avrebbero avuto qualche motivo: eravamo isolati e sbeffeggiati nelle università, il Movimento e le sue propaggini che già avevano segnato con la violenza la vita sociale e politica non vedevano di buon occhio ragazzi che volevano cambiare il mondo, sì, ma con la passione e la voglia di pace, di incontro.

In quegli studi il radiogiornale e lo sport, tanta musica e intrattenimento mai banale, mai alla rincorsa compiacente della moda. E ciascuno imparava e trovava la sua strada, dai giornali alla televisione, dalle agenzie alla vita di convento. La genialità di una truppa tra i 18 e i 30 anni al massimo era la sua composizione, oculatamente scelta in modo da riunire tutte le anime della Chiesa, che spesso si guardavano in cagnesco: chi veniva dalle Acli e chi da Cl, chi dalla sua parrocchia e chi dai Focolarini.

Abbiamo imparato che la Chiesa è una, è grande, ha mille volti e tanti carismi, e tutti concorrono al bene, alla libertà di giudizio, all’amicizia più vera, per cui dopo il lavoro non si smetteva mai di pensare al giorno dopo e di suonare la chitarra, di preparare un sugo per gli spaghetti o parlare di quel che più conta, le grandi domande che a vent’anni tieni ancora deste, e poi ti stanchi di far tumultuare.

Ci vuole sempre un maestro, e questo prete minuto è stato attento e partecipe, mai invadente, mai imponente. Lasciava creare, lasciava crescere, vigilando e accudendo, le idee e la preghiera, qualche ritiro. Accogliendo, con discrezione e tenerezza, qualche persona fragile che tra le mura di quella radio ha trovato la forza di vivere e una vocazione, professionale e umana.

Quando te ne vai a 87 anni, e hai vissuto così, ti ricordano gli amici più cari. Invece la storia delle radio e delle televisioni cattoliche in Italia, il loro ruolo, la loro forma, meriterebbe memoria più attenta e ispirazione per il presente. Meriterebbe un grazie, per una presenza che si è attrezzata ai cambiamenti del tempo, senza mai essere succube o troppo timida, senza presunzione, ma con la certezza di un incontro, appunto, che può dare significato a tutta la vita.

Monica Mondo

DIRETTORE DI RADIO PROPOSTA
Don Rosso, prete fino in fondo

L’ultima intervista la concesse un anno fa, a Valdocco. Si avvicinava il quarantesimo anniversario di Santa Chiara, un forte militare nell’alta Val di Susa, sopra Giaglione, non lontano dal Moncenisio, diventato disarmata oasi dello Spirito, e lui, che quell’esperienza sognò e rese possibile, in ore e ore di colloquio consegnò un racconto ricco di storia e di cuore. Don Domenico Rosso, mancato il 2 giugno scorso all’età di 86 anni, è stato tante cose insieme: instancabile confessore, ricercato padre spirituale, fondatore di una diffusa rete di gruppi giovanili di preghiera, grande comunicatore, appassionato musicista. Ma soprattutto è stato prete fino in fondo. Innamorato di Dio. Punto e basta. In quel maggio 2019 non di rado s’interrompeva: il suo sguardo fiammeggiante fuggiva dalla finestra, lontana giusto un passo dalla sua sedia, alla sinistra della scrivania. Con gli occhi accarezzava la basilica di Maria Ausiliatrice e il Rocciamelone, sovrastato dalla Madonna che vigila materna quel lembo di Piemonte (forte di Santa Chiara incluso). «Il mio mondo, la mia vita», ripeteva.

Domenico Rosso è nato il 5 gennaio 1934, è entrato in noviziato nel 1944 ed ha emesso la prima professione religiosa il 16 agosto 1950. Il primo luglio 1960 è stato ordinato sacerdote. «Man mano che si avvicinava quel giorno cercai una grazia tutta speciale da chiedere al Signore… Gli chiesi il dono di voler bene ai giovani, sull’esempio del fondatore, don Giovanni Bosco. Mi sembra d’esser stato esaudito», confidò.

Preghiera, Parola di Dio ed esercizi spirituali sono stati una sorta di ‘firma’ personalizzata di don Rosso, non a caso amico fraterno di maestri della fede come padre Andrea Gasparino, don Domenico Machetta e, più di recente, l’eremita suor Paola Biacino. Questi ‘assoluti’ ne hanno segnato l’azione nelle varie case salesiane dov’è stato con responsabilità diverse (Rebaudengo, Ivrea, Colle Don Bosco, di nuovo Rebaudengo, Casellette, ispettore dell’Ispettoria Centale, di nuovo Colle Don Bosco, Avigliana, di nuovo Rebaudengo). E l’hanno accompagnato nelle due grandi ‘avventure’ alle quali ha legato la sua esistenza: l’impegno nel mondo radiofonico e l’esperienza spirituale di Santa Chiara.

«Nel 1978 divenni responsabile dell’emittente salesiana Radio Incontri, con l’obiettivo di moltiplicare le sinergie con l’altra emittente radiofonica cattolica che trasmetteva in quegli anni tra Torino e provincia, Radio Proposta. Unimmo presto le forze per dar vita ad un unico mezzo di comunicazione d’ispirazione cristiana».

Rimase direttore fi no al 1986. Coniugando un’eleganza d’altri tempi nel parlare e nel tratto umano con una non scontata apertura al nuovo, don Rosso arginò l’espulsione di Dio dall’etere, incise nella cultura torinese dell’epoca e formò decine di giornalisti, autori e registi approdati poi in testate nazionali (Rai, Mediaset, Tv2000, «la Repubblica», «La Stampa», il «Sole 24 ore», «Avvenire», il «Messaggero», il «Tempo», «Famiglia Cristiana»).

Santa Chiara, infine. Ricordava bene gli inizi, nell’agosto 1979, «la luce fioca che filtrava dalle feritoie, l’umidità di quei locali e quella strada terribile, perché sterrata e piene di buche, che bisognava soggiogare per arrivare lassù». Ma ricordava con piacere anche «la tranquillità che regnava incontrastata e il fascino di quella natura al tempo stesso aspra, indomita, eppure accogliente». L’esperienza esordì con tutti gli elementi che la caratterizzano ancora adesso: la centralità della Parola di Dio e dell’Eucaristia, la preghiera personale e comunitaria, un giorno di deserto. Tutto ciò senza soffocare l’allegria di chi s’affaccia alla vita, il che comportava e comporta gioco, gite, musica. Il forte pian piano s’addolcì. Smise il suo aspetto burbero, votato alla guerra. Dunque finestroni al posto delle feritoie, camerate (e refettorio) sempre più accoglienti, una chiesetta interna nuova di zecca. Per tacere della cucina, del sistema elettrico e del riscaldamento. Lavori a regola d’arte e spese in- genti, coperte tutte da generose donazioni, senza dimenticare l’apporto massiccio del volontariato. Ciò che non cambiò fu la passione di don Rosso, il suo voler portare Dio ai giovani e i giovani a Dio.

Un anno fa, Dondo (o Mingus o Rouge: affezionandosi a lui, generazioni di ragazze e ragazzi, cresciuti rimanendo amici, uniti anche nel suo nome, gli cucirono addosso una serie di nickname) volle finire l’intervista con parole che sanno di testamento:

«Sono un uomo felice e un prete realizzato. Con Georges Bernanos affermo, perché l’ho sperimentato un numero infinito di volte: davvero ‘tutto è grazia’».

Alberto Chiara

La risposta del direttore di “Avvenire” alla lettera della prof.ssa della Scuola Salesiana di Bra

In merito alla realtà che stanno vivendo le scuole paritarie, si riporta di seguito la risposta di Marco Tarquinio, direttore del quotidiano “Avvenire”, alla lettera delle prof.ssa Lorenza Fissore, docente di matematica e scienze e vicepreside della Scuola media salesiana di Bra.

Caro direttore,
#NONSIAMOINVISIBILI: questo slogan è stato condiviso da molti docenti della scuola pubblica paritaria in questi giorni, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla libertà di ogni lavoratore nella scelta del luogo di lavoro. Come le famiglie dovrebbero avere pari opportunità di scelta per la scuola dei propri figli, così noi docenti dovremmo avere gli stessi diritti dei colleghi delle scuole statali. I motivi di disparità sono in primo luogo ideologici. È diffusa l’opinione che un insegnante lavora nella scuola paritaria perché non ha avuto altre opportunità nella scuola statale; dunque il suo impiego è temporaneo, in attesa del famigerato “ruolo”. Ma non è così!
Se per qualcuno può essere solo un impiego di passaggio, per molti docenti della scuola paritaria, nel mio caso salesiana, il lavoro diventa una missione di vita.

Ritengo offensivo il pensiero che si rimanga a lavorare in un istituto paritario solo perché non ci sia posto in uno statale. Posso testimoniare che in molti anni di attività ho ricevuto tante convocazioni annuali e ho sempre esercitato il mio diritto di scelta nel rimanere all’interno della famiglia salesiana.

Un altro nodo importante è la mancanza di sicurezza per il futuro, che spinge molti docenti ad accettare, magari a metà della propria carriera lavorativa, un posto statale, perché temono che la loro scuola paritaria possa chiudere e quindi si troverebbero senza un lavoro. Devono così effettuare una scelta difficile, che non vorrebbero fare, ma che diventa necessaria per la loro stabilità futura. Senza contare che anche lo stipendio, purtroppo, non è lo stesso, perché spesso è sensibilmente minore e, oggi come ieri, l’aspetto economico non va sottovalutato.

Quello che auspichiamo è una parità di trattamento per tutti i docenti della “scuola pubblica”, sia essa statale o paritaria, che tenga in considerazione il lavoro di qualità portato avanti da molti istituti e la passione educativa dimostrata da molti docenti.

Lorenza Fissore
Bra (Cn)

La sua lettera è davvero bella e incalzante, cara professoressa Fissore. La ringrazio. E le dico, per quel che vale, che ne condivido totalmente senso e speranza. Credo che lei riesca a interpretare con efficacia i sentimenti di tantissimi insegnanti che lavorano – altro che «invisibili»! – nella scuola paritaria, e specialmente nella scuola paritaria cattolica. E lo fanno con dedizione e convinzione piene e quasi sempre, come lei ricorda, con ulteriore sacrificio rispetto ai colleghi delle scuole statali (quante volte ho scritto che va ricostruita anche la “reputazione” e la concreta condizione retributiva di coloro che lavorano nel più importante laboratorio di futuro di un Paese!).

Il vostro è un lavoro integralmente al servizio di ragazze e ragazzi in carne e ossa, e ispirato a una solida idea di istruzione come “bene pubblico”, alla quale dà anima laica e cristiana il lascito di straordinarie figure di educatori come san Giovanni Bosco. È un’idea che dà senso e forza a tutta la migliore scuola italiana che, purtroppo – come sappiamo bene e come la sfida della pandemia sottolinea –, conta più su una generosa rete di persone di qualità che su strutture ovunque e sempre all’altezza. Eppure qualcuno si ostina ancora a non capire che l’idea della “scuola di tutti” è profondamente cara ai cattolici, che negli anni della loro centralità politica – quando esisteva la Dc ed era il partito perno del nostro sistema democratico – l’hanno progettata, costruita e consolidata.

Eravamo ancora nella stagione che poi abbiamo chiamato della Prima Repubblica, e bisogna essere grati alle visioni riformatrici e alle capacità realizzative di personalità come Guido Gonella, Luigi Gui e Franca Falcucci. Il paradosso è che, nella complicata stagione successiva, quella della cosiddetta Seconda Repubblica, c’è voluto un laico di altrettanto grande intelligenza e determinazione come Luigi Berlinguer per finalmente introdurre per legge, all’alba del XXI secolo, l’idea di un sistema scolastico nazionale in cui questo essenziale servizio pubblico fosse garantito da scuole statali e scuole non statali paritarie. Una concezione, purtroppo, ancora lontana dall’essere attuata. E che rischia di sbriciolarsi sotto i colpi di maglio del Covid-19. Nonostante il primo soccorso d’emergenza da 150 milioni infine garantito dal governo Conte, molti istituti paritari rischiano di non di sopravvivere a questa durissima prova. Servono risposte tempestive.

Potrei ancora una volta citare eloquentissimi numeri, cifre, dati che dimostrano il valore pubblico della scuola paritaria accanto e insieme alla scuola statale.

L’abbiamo fatto un’infinità di volte. Preferisco invitare a rileggere le sue parole, cara professoressa, e la lezione di dignità, di professionalità e di «salesiana» passione civile che contengono. E che mi permetto di sintetizzare così: una limpida e libera volontà di insegnare nella scuola paritaria per far migliore la “scuola pubblica”. È la strada che la legge della Repubblica indica ormai da vent’anni. E lo hanno ben chiaro non solo le associazioni di settore e sindacati tradizionalmente consapevoli e attenti, ma anche uomini e donne di scuola liberi da pregiudizi.

Per questo è utile riflettere sull’intervista di Enrico Lenzi al leader della Flc-Cgil, Francesco Sinopoli (https://tinyurl.com/paritariecgil). La sorte degli istituti paritari e degli insegnanti che ci lavorano non è un affare privato, è un problema comune. E decide il presente e il futuro della “scuola di tutti”.

(Marco Tarquinio, Direttore di Avvenire – Sabato 30 maggio 2020)

Il cuore salesiano di Torino invoca la Vergine: insegnaci ad essere più solidali

Il racconto della Solennità di Maria Ausiliatrice, tenutasi a Valdocco domenica 24, grazie all’articolo di Marina Lomunno (pubblicato su Avvenire) ed alla foto gallery, gentilmente realizzata, dal salesiano Antonio Saglia.

>Leggi anche la notizia del 31 maggio su La Voce e il Tempo, a cura di Marina Lomunno

Ci sono “scatti” che resteranno fissi nella memoria e testimonieranno alle generazioni future cosa è stata la pandemia che stiamo vivendo: tra queste, sicuramente per i torinesi (e per i 132 Paesi dove sono presenti i salesiani, collegati domenica tramite la tv e i social con Valdocco) l’immagine della statua di Maria Ausiliatrice nella piazza antistante la Basilica vuota, con ai piedi l’arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, accompagnato dal Rettor Maggiore don Ángel Fernández Artime.

Causa coronavirus la tradizionale processione che chiude la festa liturgica di Maria Ausiliatrice, giunta alla 152a edizione e che raduna oltre 20mila persone, non si è snodata per le vie della Torino di don Bosco per poi confluire nella piazza gremita per la benedizione. Non era mai accaduto neppure in tempo di guerra che la statua dell’Ausiliatrice non uscisse per la processione: per questo l’arcivescovo, al termine del Rosario pregato in Basilica con un numero “contingentato” di fedeli in mascherina con le “decine” della corona affidate alle comunità salesiane sparse per il mondo e collegate via social ha rivolto una supplica alla Madonna perché liberi il mondo dal virus. «Ti chiediamo protezione e conforto – ha chiesto Nosiglia – conforta i malati, coloro che hanno perso un congiunto a causa del virus, sostieni i medici e gli operatori sanitari che hanno rischiato la vita per salvarne altre, guarda i giovani, rendili coraggiosi e forti, aiutali a sognare anche se siamo nella prova e fai in modo che da questa pandemia impariamo a costruire una società più solidale con chi soffre». La giornata è stata scandita fin dal primo mattino dalle Messe molto partecipate ma regolate da un rigoroso servizio d’ordine gestito dai volontari della Basilica col “numero chiuso” in chiesa ma la possibilità di prendere parte alle celebrazioni anche nell’ampio cortile. «Il desiderio era di vivere questa solennità e la novena che l’ha preceduta – ha detto don Enrico Stasi, ispettore dei salesiani di Piemonte e Valle d’Aosta – aprendo il cuore e confidando a Maria paure e speranze che animano questi giorni: solo così potremo sperimentare la dolcezza dell’essere protetti sotto il suo manto».

Tra i celebranti, Nosiglia (alle 11) e padre Carmine Arice, superiore generale della Piccola Casa della Divina Provvidenza, che ha evidenziato come sia una grazia ritornare a celebrare la Messa «in questo tempo di sofferenza e di forzato digiuno eucaristico» proprio nella domenica dell’Ascensione che quest’anno cade nella festa di Maria Ausiliatrice.

Nel pomeriggio l’Eucaristia con una rappresentanza del Movimento giovanile salesiano presieduta dal Rettor Maggiore, riconfermato alla guida della congregazione lo scorso marzo nel Capitolo celebrato a Valdocco e chiuso in anticipo per il Covid-19. «Oggi Gesù ci assicura che sarà con noi tutti i giorni fino alla fine del mondo – ha sottolineato Artime – carissimi giovani anche oggi in questo tempo in cui sperimentiamo la nostra fragilità, siete chiamati a testimoniare Gesù con la vostra vita, soprattutto verso i più poveri, scartati, sofferenti: i preferiti per il cuore salesiano, come ci insegna papa Francesco che abbiamo visto solo nella preghiera del 27 marzo in piazza San Pietro. Ma mai come in quel giorno è stato accompagnato da tutto il mondo non solo cristiano. Questi sono i segni della consolazione che cambiano il mondo».

MARINA LOMUNNO
Torino

Avvenire: Il lutto. Morta suor Giudici, mistica e poetessa. La sua vocazione nacque in bicicletta

Domenica 23 febbraio Avvenire dedica un articolo alla scomparsa di Suor Maria Pia Giudici, FMA e coordinatrice dell’Eremo di San Biagio a Subiaco, mancata all’età di 97 anni. Suor Maria Pia è stata nella sua lunga e feconda vita molte cose insieme: una suora salesiana, ma anche una scrittrice (scrivendo anche alcuni libri editi da Elledici), poetessa, insegnante, maestra spirituale e mistica.  Di seguito l’articolo pubblicato, a cura di Luigino Bruni.

Il lutto. Morta suor Giudici, mistica e poetessa. La sua vocazione nacque in bicicletta

Aveva 97 anni la coordinatrice dell’Eremo di San Biagio a Subiaco, una struttura gestita dalle Figlie di Maria Ausiliatrice che offre un luogo di preghiera e di accoglienza

È morta a 97 anni compiuti, suor Maria Pia Giudici, coordinatrice della Casa di preghiera Eremo di San Biagio a Subiaco, una struttura gestita dalle Figlie di Maria Ausiliatrice che offre un luogo di preghiera e di accoglienza. Suor Giudici era nata a Viggiù (in provincia di Varese) il 30 settembre 1922. Lì ha trascorso la fanciullezza per poi trasferirsi con genitori a Milano, dove studiò prima dalle Suore Orsoline di San Carlo e poi dalle Salesiane, Figlie di Maria Ausiliatrice. Negli anni dell’Università (studiò presso la Cattolica di Milano e conobbe il fondatore padre Agostino Gemelli) e della gioventù maturò la vocazione alla vita religiosa. Entrata nella Congregazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice, le superiore decisero di farle continuare gli studi. Si laureò in Lettere e potè così insegnare sia a Milano sia a Lecco. Molto legata alle sue studentesse, si dedicò progressivamente anche al campo della comunicazione, organizzando cineforum e incontri con il mondo del cinema. È stata autrice anche di diversi testi letterari offrendo una galleria di ritratti di donne dalla grande fede. Nel tempo è diventata una figura di riferimento dell’Eremo di San Biagio.

La vita di suor Maria Pia Giudici è stata una preziosa grammatica di una vocazione profetica. Leggendo la sua recente biografia “Vivere in pienezza” (a cura di Alessandra Pagliari), troviamo una bellissima descrizione della chiamata accaduta in un rallentamento di una sua corsa in bicicletta perché un altro vento la toccò cambiando decisamente il corso della sua vita. Quella corsa e quel nuovo corso giungono fino all’ultimo grande canto-preghiera che chiude e sigilla le pagine, ciò che emerge è la sequela creativa e fedele di una voce:

«Lodato sii, o mio Signore,

per la corsa veloce degli anni

trascorsi quassù:

è ‘l’elisir’ della pace vera;

e il ‘pane’ della Parola di Dio

spezzato per una vita semplice e sobria,

nuova oggi. E domani e sempre.

Lodato sii, o mio Signore,

per questa piccola e cara realtà di san Biagio,

dove tutto è all’insegna del ‘gratuito’

e quel che vive è tutto ciò che Dio ci ha regalato.

Lodato sii, o mio Signore,

per tutto il gran bene che ho ricevuto dalla tua Parola

accolta, in prolungati tempi a volte,

e pregata al mattino e lungo il giorno

nella consapevole povertà del mio cuore».

Suor Maria Pia è stata nella sua lunga e feconda vita molte cose insieme: una suora salesiana, ma anche una scrittrice, poetessa, insegnante, maestra spirituale, mistica, e chissà quante altre ancora. Ogni persona non è mai un essere a una sola dimensione, ma quando si ha a che fare con vocazioni profetiche, la vita diventa un processo di scoperta di nuove dimensioni della personalità che si aggiungono alle precedenti, a formare nel tempo un albero che continua a crescere fino alla fine. Come per i profeti biblici (che suor Maria Pia ha sempre frequentato, e che sono personaggi vivi nelle sue parole), una vocazione cresce e si sviluppa dentro una o più comunità, a partire dalla prima comunità famigliare. È incarnata nella terra e nella storia di un luogo e di un tempo. Le sue parole sono incastonate nel vissuto quotidiano della propria gente. Dentro la prima comunità familiare avviene la prima chiamata ‘in bicicletta‘.

È l’evento fondamentale e assolutamente intimo. E dopo la vocazione troviamo ancora la comunità. I profeti non sono dei solitari, anche quando vivono in un ‘eremo’. Non sono ammaestrati soltanto da Dio nel loro intimo, ma sono formati e plasmati dalle comunità concrete. Profeti si nasce, profeti si diventa, imparando nel tempo a essere ciò che si era già nel seno materno. Nella storia di suor Maria Pia troviamo parole di cielo e parole di terra. Lavoro, pubblicità, formicaio, sport, Einstein. Perché per imparare ad ascoltare il cielo e donare le sue parole agli uomini e alle donne, bisogna imparare a toccare la terra. È bellissimo scoprire nella vita di suor Maria Pia l’impasto di mistica ed economia, di spiritualità e boschi, a ricordarci che le sole parole che abbiamo per parlare di Dio (e per ascoltarlo) sono le nostre parole umane. La sua storia e il suo presente ci dicono che camminare nello spirito fa diventare più umani non più divini, più uomini e donne non più angeli. Un segno inequivocabile che stiamo camminando bene e nella direzione giusta è allora diventare sempre più appassionati di tutto ciò che è vivo, di ogni creatura, delle parole e delle opere degli uomini e delle donne. Ed è qui che ci si può incontrare davvero tra credenti e non credenti – come accade a San Biagio -. Si apprezza sempre più la bellezza ordinaria delle cose di tutti. Non si fugge dalla terra per cercare il cielo, ma si ringrazia il cielo per averci fatto scoprire e amare la terra. Si diventa ogni giorno più solidali con gli errori e i persino i peccati di tutti, e nulla di ciò che è vivo diventa forestiero e sconosciuto.

La vita dello spirito deve portare a benedire la vita, a girare per le strade ringraziando di essere circondati da cose che giorno dopo giorno abbiamo imparato a vedere come vive. A stimare e a ringraziare l’infinita bellezza vera che ci circonda, e provare un sincero dolore di doverla un giorno lasciare. Brutto e pessimo segno è invece quello di chi loda il cielo e maledice la terra, chi difende Dio e condanna gli uomini. Quando si parte seguendo una voce incontrata in una corsa diversa in un giorno diverso, si inizia in cielo e si finisce sulla terra – e se si resta in cielo occorre preoccuparsi molto. Ogni vocazione è una parola che si fa carne, un emigrante che lascia il cielo per la terra. Questo e molto altro ho imparato incontrando suor Maria Pia, incontrandola dentro l’ora et labora benedettino e salesiano, lasciandosi toccare e in-segnare dalle sue parole theofore, tutte cielo e tutte terra. San Biagio è l’eredità di suor Maria Pia: che non interrompa la sua corsa.

Avvenire: E i salesiani ripartono da Valdocco

Nella giornata di ieri, 23 febbraio, il quotidiano Avvenire ha dedicato un articolo al Capitolo Generale 28° dei Salesiani. Si riporta di seguito l’articolo pubblicato, a cura di Marina Lomunno.

E i salesiani ripartono da Valdocco
Aperto a Torino il 28° Capitolo. Don Artime: sintonizziamoci meglio con i giovani

S i è aperto ieri a Valdocco, nella Casa Madre della Famiglia salesiana, il 28° Capitolo generale della Società di san Francesco di Sales: dopo la solenne concelebrazione nella Basilica di Maria Ausiliatrice dove sono venerate le reliquie di don Bosco, il rettor maggiore, l’argentino don Ángel Fernández Artime ha pronunciato il discorso di apertura. Al termine, il regolatore del Capitolo, don Stefano Vanoli, ha dichiarato aperti i lavori incentrati sulla risposta alla domanda «Quali salesiani per i giovani d’oggi?» che indicherà il cammino del prossimo sessennio della congregazione. «Il tema – ha precisato il rettor maggiore – risponde all’urgenza che abbiamo di concentrare la nostra attenzione, in questo momento della nostra storia, sulla persona del salesiano che come uomo di Dio, consacrato e apostolo, deve essere capace di sintonizzarsi il meglio possibile con gli adolescenti e i giovani di oggi e con il loro mondo allo scopo di camminare con loro, nell’educazione e formazione alla fede, aiutandoli ad essere buoni credenti – considerando che molte volte professano altre religioni – e preparandoli per la vita, accompagnandoli nella ricerca di senso e all’incontro con Dio». Il Capitolo è stato preceduto da una “settimana propedeutica” dove il Consiglio generale ha presentato le relazioni sul sessennio appena concluso e ha introdotto i tre nuclei tematici: priorità della missione con i giovani, il profilo del salesiano di oggi, la missione condivisa con i laici. I lavori dureranno fino al 4 aprile e vi partecipano 242 padri capitolari da 66 nazioni in rappresentanza delle 7 Regioni nel- le quali è divisa la congregazione pre- sente in 132 Paesi dei 5 continenti. Il Capitolo, come ha ricordato don Artime, torna nella Casa Madre «culla del nostro carisma» dopo 62 anni:

«Il nostro padre don Bosco convocò il primo Capitolo generale il 5 settembre 1877 a Lanzo Torinese. I partecipanti furono 23 e durò tre giorni. All’apertura don Bosco disse ai nostri confratelli: “Il Divin Salvatore dice nel santo Vangelo che dove sono due o tre congregati nel suo nome, ivi si trova Egli stesso in mezzo a loro… Possiamo dunque essere certi che il Signore si troverà in mezzo a noi e condurrà Egli le cose in modo che tutte ridondino a sua maggior gloria”. Con la medesima convinzione e con lo stesso sguardo di fede vogliamo e dobbiamo affrontare l’importante compito che l’intera Congregazione ci affida in questo 28° Capitolo».

Saluti all’inizio dell’assemblea sono giunti dall’arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, e dal sindaco Chiara Appendino che ha partecipato alla Messa di apertura in rappresentanza della città che don Bosco ha reso famosa nel mondo accanto a madre Yvonne Reungoat, superiora generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice.

Suggestivo il colpo d’occhio nella Basilica di Maria Ausiliatrice con la navata centrale interamente occupata dai sacerdoti salesiani che hanno partecipato alla concelebrazione eucaristica presieduta dal cardinale João Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, accanto al rettor maggiore don Artime e al suo predecessore il messicano don Pascual Chávez Villanueva, ai cardinali salesiani Tarcisio Bertone, Riccardo Ezzati e Oscar Andres Rodriguez Maradiaga e 10 vescovi figli di don Bosco.