Si riporta di seguito l’articolo apparso su La Stampa.
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Il parroco dell’oratorio Valdocco alla festa per San Giovanni Bosco: “Sosteniamo le famiglie, ma serve di più”.
“Ti racconto una storia, ma non citare il nome del ragazzo: mi ha chiesto di non dirlo”.
È quella di un 17enne che, dopo anni di vita in oratorio, ha l’occasione di partire con i suoi amici per una gita comunitaria a Napoli:
“È uno dei nostri animatori. Il giorno della partenza si avvicina a me con le lacrime agli occhi e mi confessa: grazie, io non ho mai visto il mare”.
La storia è simile a quella di tanti ragazzi del quartiere Aurora che frequentano l’oratorio Valdocco, “la casa di Don Bosco”, che
“Non hanno mai messo piede fuori da Torino”.
Jimmy Muhaturukundo, parroco di 37 anni, “Don Jimmy” per tutti quelli che lo salutano – e non ce n’è uno, su quaranta bambini che lo hanno fermato durante la passeggiata, di cui non sappia il nome, la storia, i volti dei genitori – ha scelto di dedicare la sua vita ai giovani del quartiere.
Lo fa come responsabile dell’oratorio che ogni giorno si apre alle famiglie della zona, offrendo servizi che mancano o che nessuno avrebbe i soldi per ottenere: doposcuola, lezioni di italiano, corsi di basket, anche una semplice cena.
“Vuoi fare un favore all’umanità? Educa. Lo predicava anche Don Bosco”
racconta, concedendosi l’unico riferimento strettamente ecclesiastico della passeggiata. È sul Santo che ieri ha attirato oltre seicento giovani da tutto il Nord Ovest nella chiesa Maria Ausiliatrice per la messa in occasione della festa a lui dedicata.
Il resto delle due ore passate insieme, invece, è una lezione di “misericordia, solidarietà“. La Chiesa è “solo” lo strumento: uno degli unici presenti nel quartiere.
Parroco, l’oratorio è sempre così pieno di bambini?
“Oggi c’è la festa di Don Bosco, ma ogni pomeriggio qui è così. Le famiglie del quartiere si affidano a noi, non sapendo dove altro andare, per accudire i propri figli”.
Troppa povertà?
Sì, anche educativa. Noi la sfidiamo con due scuole, la Media e il Centro di Formazione Professionale, oltre ai tanti corsi qui in oratorio: dal basket ai rudimenti di italiano, cerchiamo di aiutare. Ma non basta”.
Siete soli? Le istituzioni non aiutano?
“Col Comune abbiamo avviato il progetto “Cam”: i centri sociali ci affidano nuclei familiari in forte difficoltà e noi portiamo i loro giovani in un contesto dove possano interagire, insegnando loro qualcosa. Grazie alla nostra rete di donatori, poi, portiamo i ragazzi fuori Torino, dalla gita all’acquario di Genova alle settimane comunitarie. Da poco, poi, abbiamo avviato il progetto Spera, ispirati sempre da uno dei nostri giovani che ci ha chiesto aiuto per il suo percorso di studi. Paghiamo l’Università a chi sogna un futuro diverso ma non se lo può permettere. Ma ripeto: non basta”.
Cosa serve?
“Fare rete, anche con la politica, certo. Ma in generale, con la città. Noi cerchiamo di essere una risorsa e un’ispirazione. Poi certo, servono anche più volontari“.
Sembra avere un bel gruppo di giovani che la aiutano.
“Ce ne sono quaranta, ma sa a quanti bambini offriamo il servizio di doposcuola? Centoventi, e altri 40 sono in lista di attesa. Perché i volontari gestiscono anche i corsi di basket, pallavolo, le lezioni di italiano, le attività ludiche in oratorio. Centinaia di bambini ogni giorno. Ci sono famiglie che non riuscirebbero a pagare neanche 50 euro all’anno per servizi che, fuori da qui, costerebbero 50 euro al giorno”.
Va anche a casa loro?
“È capitato. E ci sono famiglie di ogni tipo: c’è chi ha perso il posto e chi lavora ma è soffocato dalle spese. C’è chi è appena arrivato da Paesi lontani, come me che nel 1994 sono scappato insieme a don Giuseppe Minghetti, scomparso due anni fa, dal genocidio in Ruanda. Ma sono tante anche le famiglie italiane. In questo quartiere multietnico la povertà ha investito sempre più persone, nel corso degli anni”.
Dove porta i ragazzi, alla prossima gita?
“Ora a messa (sorride, ndr). Ma presto faremo un pomeriggio al cinema: in tanti non sono mai stati neanche lì…”