Pubblichiamo un articolo de La Stampa, a firma di Alessandra Iannello, sul progetto Pathways: per 22 donne vittime di tratta delle schiave l’opportunità di riscatto è rappresentata dai corsi di formazione nel settore alberghiero e ristorativo organizzati dalla CRI, in collaborazione con il Centro Nazionale delle Opere Salesiane – Formazione e Aggiornamento Professionale.
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Le donne devono stare in cucina. Quella che può sembrare un’offesa sessista, in realtà è stata presa alla lettera per riscattare vite che, lontane dai fornelli, avrebbero avuto poche possibilità di emergere.
Pasticcere e pastaie a Torino
Come è successo a Siddhi, 42 nigeriana, arrivata in Italia poco più che bambina e costretta a una vita da incubo. La sua rivincita è arrivata grazie alla Croce Rossa e al progetto europeo Pathways che coinvolge anche Grecia e Gran Bretagna. Per 22 donne vittime di tratta delle schiave l’opportunità di riscatto è rappresentata dai corsi di formazione nel settore alberghiero e ristorativo organizzati dalla CRI, in collaborazione con il Centro Nazionale delle Opere Salesiane – Formazione e Aggiornamento Professionale. Dopo un mese di lezioni teoriche e laboratori di cucina, pasticceria e pulizie nel centro salesiano di San Benigno (Torino), le ragazze hanno potuto svolgere uno stage di 60 ore e, successivamente, un tirocinio finalizzato all’inserimento lavorativo di sei mesi. «A montare gli albumi a neve ci pensa Cindy – dice Daniela Gilardo, la docente del corso che tutte chiamano maestra – perché non solo realizza un prodotto perfetto ma lo fa cantando e ballando». Il buon umore si diffonde in tutta la cucina del centro di San Benigno, dove, a fine corso, si ripassano le ricette e si memorizzano i nomi più difficili degli ingredienti. La maestra riscrive alla lavagna le dosi per gli impasti, le ragazze prendono appunti, memorizzano e si esercitano ai fornelli. «È impossibile dimenticare quello che ho passato – confida Ritha, mamma di un bambino di sei anni, anche lei nigeriana e anche lei arrivata in Italia quando era ancora una ragazzina – ma impegnarmi in questo corso è una distrazione e allo stesso tempo una speranza. Nonostante tutto il dolore, la vita continua e avere delle persone accanto a me che mi dicono “Ce la puoi fare” mi dà la forza».
L’etichetta delle Cuoche Combattenti Marmellate contro la violenza a Palermo
«Mai più paura, mai più in silenzio, non siamo vittime ma combattenti». Questo il motto delle Cuoche Combattenti, un gruppo di donne vittime di violenza che hanno aperto a Palermo un laboratorio di trasformazione e produzione alimentare. «Il progetto – ricorda la titolare Nicoletta Cosentino – nasce nel 2017, dopo aver frequentato una borsa lavoro proposta dal centro antiviolenza Le Onde Onlus, presso un laboratorio di trasformazione alimentare. In seguito ho avuto accesso al progetto VITAE (Violenza verso le donne: Iniziative Territoriali per l’Autonomia e l’Empowerment). Dopo un anno di presentazioni del progetto e ricerca di finanziamenti attraverso eventi di crowdfunding, ho presentato richiesta di un finanziamento di Microcredito presso la Banca Popolare Etica, a cui si aggiunge il supporto economico della rete Nazionale D.i.Re (Donne in Rete contro La violenza) che mi ha assegnato una Dote di libertà prevista a sostegno delle donne seguite dai centri antiviolenza aderenti alla rete». Apre così, il 27 settembre 2019, il laboratorio artigianale Cuoche Combattenti nato dall’idea di sviluppare autonomia e indipendenza economica per donne che escono da relazioni violente e che intraprendono un percorso di rinascita personale e professionale. Il catalogo delle cuoche palermitane comprende conserve, confetture extra di frutta di stagione, pesti di ortaggi, prodotti da forno e altre bontà di frutta secca. Le materie prime provengono tutte dal territorio siciliano, innescando così un circolo virtuoso che sostiene lo sviluppo dell’economia del territorio. I prodotti delle «Cuoche Combattenti», acquistabili online nell’e-commerce del sito, si caratterizzano per l’Etichetta Antiviolenza, che veicola messaggi per combattere la violenza sulle donne, smontare stereotipi e ruoli relazionali che autorizzano abusi, smascherare la violenza psicologica e rinforzare l’autostima e la libertà personale. Al frantoio L’olio rosa della Toscana Cassa integrazione, smart working, licenziamenti.
Gli incubi legati al Covid 19 passano anche per il mantenimento del proprio posto di lavoro. A questo deve aver pensato in quest’ultimo periodo Judyta Tyszkiewicz – polacca di nascita, ma toscana d’adozione – che ha lasciato il lavoro di assistente dentista e nel 2012 ha fondato la Ranocchiaia, a San Casciano Val di Pesa (Firenze) insieme con il marito Gian Luca Grandis. Per dare una mano alle donne della sua comunità, ha riunito sette donne e ha realizzato un frantoio tutto in rosa. C’è Natalia (ristoratrice e mamma di un bimbo di 5 anni), Sofia (studentessa di Agraria), Emilia (due figli di 8 e 16 anni), Donatella (un figlio di 19 anni), Silvia (sorella di Gian Luca) e Nicole, l’aspirante attrice che ha ereditato dai nonni in Puglia la passione per l’olio extravergine d’oliva. Storie tutte diverse, ma in un momento così difficile per l’emergenza sanitaria ognuna di esse ha trovato nell’azienda agricola toscana una seconda opportunità. Infatti, a causa del Covid 19 alcune di loro sono state messe in cassa integrazione dalle aziende per cui lavoravano, altre invece arrivano al frantoio Grandis appena finito il turno di smart working a casa. «Sono orgogliosa della mia squadra – spiega Judyta – perché insieme, grazie a un po’ di flessibilità e cercando di venire incontro alle necessità di ognuna, riusciamo a produrre un olio Evo di alta qualità».