Caselli: La toga e le altre tappe della mia vita

 Si pubblica qui un articolo proveniente da “La Repubblica” riguardo l’intervista fatta a Gian Carlo Caselli, in cui racconta i suoi anni con la toga, le indagini prima sulle Br e poi sulla mafia. Ma anche il mestiere di piazzista all’Olivetti quando era uno studente lavoratore. E poi l’amicizia con don Ciotti, gli insegnamenti dei salesiani. E la scelta di continuare anche in pensione a occuparsi di frodi.

Intervista a cura di Francesca Bolino.

Di Gian Carlo Caselli sappiamo tutto della sua vita pubblica, molto meno di come ha vissuto intimamente le scelte che hanno determinato un impegno di quarant’anni: dalle inchieste sul terrorismo, a quelle sulla mafia e i rapporti con la politica, fino ai massimi gradi. Caselli è giustamente geloso di quell’intimità famigliare che gli ha consentito scelte difficili, ma ricevendoci nella sua casa insieme alla signora Laura, ci permette di comprendere qualcosa in più.

Dottor Caselli, partiamo dall’inizio.

«Sono nato ad Alessandria ma ho frequentato la prima e la seconda elementare a Vignale Monferrato, dove la mia famiglia si era stabilita per lavoro durante la guerra. E nel 1946 siamo tornati a Torino».

Dove siete andati ad abitare?

«In via Vigone in un alloggio all’interno della fabbrica dove lavoravano i miei genitori. In seguito ci siamo trasferiti in via Borgone presso la sede principale della fabbrica».

Di cosa si occupava suo padre?

«Era l’autista personale del padrone».

Dove ha proseguito le scuole?

«All’istituto Cesare Battisti. Poi è cominciata la mia lunga esperienza presso le scuole salesiane, dove frequentato la quarta e la quinta elementare. E poi ho continuato a studiare a Valsalice. Dai salesiani ho imparato molte cose e hanno contribuito notevolmente alla formazione della mia identità. La celebre frase di don Bosco “l’educazione salesiana deve tendere a formare bravi cristiani e onesti cittadini” è stata ed è ancora per me un principio fondamentale».

Dunque ha un grande debito di riconoscenza verso i salesiani?

«Certo. E non solo etico e religioso. Poiché la mia famiglia era economicamente modesta, mi hanno consentito di proseguire gli studi e di frequentare il liceo, accettandomi a mezza retta. Forse il mio destino sarebbe stato diverso: avrei studiato in una scuola tecnica per poi entrare in Fiat, per esempio come operaio specializzato».

È mai vacillata la sua fede in quegli anni?

«È accaduto, sì. Ho attraversato un momento di crisi, quando avevo diciotto anni. Durante la messa solenne di Pasqua, in chiesa, tutti gli alunni si alzavano per fare la comunione. Mentre o e altri due siamo rimasti fermi, immobili, seduti sulla panca. Pensavamo che saremmo stati puniti».

E invece?

«Nessuno ci ha detto nulla. La grande capacità pedagogica dei salesiani consisteva nel fatto che ciascuno potesse maturare le sue convinzioni liberamente. Senza costrizione alcuna…».

Ricorda qualche compagno di scuola?

«Certamente. Il grande teologo Ermis Segatti».

Si è poi laureato in Giurisprudenza…

«Sì, nel 1958. Con un po’ di ritardo perché ho fatto, per un breve periodo, lo studente- lavoratore per non gravare sulla mia famiglia».

E dove ha lavorato?

«All’Olivetti come produttore. Vendevo macchine per scrivere, calcolatrici e mobili da ufficio. E devo ammettere, vendevo molto bene…».

Dopo la laurea cosa è accaduto?

«Aspetti. Ho conosciuto l’amore…”.

Ah! Chi, dove?

«Era il 1963. Nell’atrio del cinema Lux dove proiettavano “Che fine ha fatto BabyJane?” con Bett Davis e Joan Crawford, allora considerato un grande film dell’orrore, ho incontrato Laura. Mi è stata presentata da amici comuni».

E cosa l’ha colpita?

«Beh, era una donna bellissima e intelligente. Si avvertivano in lei grande calma e serenità, qualità che sarebbero servite poi nel futuro, nel corso della nostra vita, complicata…».

E quando vi siete sposati?

«Nel 1967 a Valsalice. Siamo andati ad abitare in via Domodossola. Lei insegnava matematica. Pensi, all’inizio della nostra vita matrimoniale (avevo vinto il concorso per la magistratura nel dicembre del 1967) il mio stipendio era nettamente inferiore a quello di Laura che faceva l’insegnante. Poi le cose sono cambiate…».

Perché mi racconta questo aneddoto?

«C’è un motivo. Devo fare un passo indietro. Prima di sposarmi, ho fatto il servizio militare a Lecce. Era per me impossibile tornare a Torino in licenza. La distanza e il poco tempo a disposizione non mi consentivano di incontrare Laura. Così lei, insieme a sua madre, hanno deciso di venirmi a trovare durante le vacanze estive a Santa Maria di Leuca. Scherzando le dico spesso (ma lei si arrabbia ancora e non gradisce l’ironia) che l’ho sposata per riconoscenza».

Quando sono arrivati i figli?

«Paolo nel 1970 e Stefano nel 1975. Anni, come sappiamo, molto delicati. I miei figli sono cresciuti in mezzo ai mitra e al filo spinato. Ho la scorta dal 1974 ed è in quegli anni che sono esplose le BR. Sono diventato uno dei giudici delle Br e di Prima Linea un po’ per caso. Mentre il mio incarico a Palermo… è stata una scelta».

Perché un po’ per caso?

«Mi erano stati assegnati il sequestro del sindacalista Bruno Labate e quello di Ettore Amelio, quest’ultimo un dirigente della Fiat. Quando affermo per caso, intendo dire che il sequestro a Genova del magistrato Mario Sossi nel 1974 è finito sul mio tavolo, per connessione. Mi spiego meglio: proprio perché stavo seguendo i due casi di cui parlavo prima. Nessuno allora poteva pensare che le Br potessero diventare un fenomeno criminale di portata nazionale».

E invece quel fenomeno è durato quindici anni…

«Sì, fino al 1983. Ecco, i miei figli sono cresciuti in questo clima. Vedevano il loro papà accompagnato dalla scorta che è stata efficiente e spietata. Un ossimoro. Ma sono loro che ci hanno aiutato andare avanti in mezzo, superando le innumerevoli difficoltà».

Arriviamo al 1992, l’anno terribile delle stragi di mafia, vengono uccisi Falcone e Borsellino. È vero che in quel momento lei ha detto “Ora tocca a me”?

«Non so se ho detto proprio questa frase, ma l’ho pensata sicuramente. Devo tornare indietro però. Quando è finita la fase dell’antiterrorismo, dal 1986 al 1990 sono stato al Consiglio Superiore della Magistratura. Ed è in quel periodo che ho iniziato a conoscere Palermo, in quanto ci occupavamo continuamente di casi gravissimi. Quando si è conclusa quell’esperienza, nel 1991 sono tornato a Torino e per alcuni mesi ho lavorato all’ufficio studi del Gruppo Abele. Il punto è che lì, don Ciotti ospitava in semi libertà Susanna Ronconi e Sergio Segio, due big di Prima Linea che avevo contribuito a processare per gli omicidi dei due magistrati Galli e Alessandrini».

E allora?

«Don Ciotti è riuscito a fare il miracolo di farci trovare tutti nella stessa sede».

Cosa può fare la fede…

«Certo, ma anche il carisma di Don Ciotti. In seguito sono stato nominato magistrato di Cassazione e poi sono diventato presidente della prima sezione della Corte di Assise di Torino».

Ritorniamo al giorno in cui è stato ucciso Borsellino…

«Uno dei miei figli ha chiamato mia moglie e le ha detto: “Mamma, davvero hanno ucciso anche Borsellino? E ora che succede? Papà andrà a Palermo?”. In effetti, io pensavo di fare domanda…».

Ma?

«Questa questione è stata ampiamente discussa in famiglia, con gli amici e con Don Ciotti, generando preoccupazione».

Cosa le hanno suggerito i suoi figli?

«Uno dei due, dopo varie discussioni, forse anche esausto, mi ha detto: “Papà, in Italia siamo tutti bravi a dire cosa si deve fare, ma non altrettanto bravi a farlo davvero. Vuoi andare a Palermo? Vai”. Questa coerenza tra il dire e il fare, in bocca a mio figlio, ha certamente pesato insieme a molti ad altri fattori».

Intende dire etici? Morali? Ha considerato il suo lavoro come una missione?

«Certo, sono diventato magistrato per cercare di fare qualcosa di utile. E poi mi ricollego alla frase di don Bosco: per essere un buon cristiano e un buon cittadino… per difendere la nostra democrazia… Il mio impegno dipende dalla convinzione che ci si deve sporcare le mani, ci si deve mettere in gioco. Aggiungo un dettaglio…».

Quale?

«Antonino Caponnetto (il magistrato che aveva guidato a Palermo il Pool antimafia, dal 1984 al 1990, ndr) quando è stato ucciso Borsellino, aveva detto ad un cronista: “È tutto finito, non c’è più nulla da fare.” Questa frase tragica, dettata dallo sconforto del momento, mi ha lavorato dentro… Pensavo che invece bisognasse darsi da fare e l’ho vissuta come una chiamata».

Che ha comportato una separazione dalla famiglia: lei è andato a Palermo e loro sono rimasti a Torino. Come ha vissuto questa scelta?

«Scelta giusta o sbagliata di lasciare la famiglia a Torino? Non so. In quel momento abbiamo preso quella decisione. A distanza di tempo, però posso affermare che certamente per loro è stata più dura. Hanno sofferto la distanza, vissuto nell’angoscia e nella preoccupazione».

E lei come l’ha vissuta?

«Gli accadimenti drammatici, terribili, angosciosi, se uno c’è dentro, li metabolizza. È stato per me un sacrificio necessario. Non soffrivo nella misura in cui ero convinto di fare una cosa utile e giusta. Ma certamente non ero più un uomo libero».

Non aveva paura?

«Pensavo spesso a una frase che aveva detto Borsellino: “Certo che ho paura quando si contrasta la mafia che uccide. L’importante è avere un po’ più di coraggio rispetto alla paura”. E questo coraggio l’ho avuto anche grazie alla scorta».

Ogni quanto riusciva a tornare a Torino?

«Due fine settimana al mese. Mia moglie, malignamente, diceva che tornavo a casa solo in coincidenza delle partire del Toro. (Sorride). Comunque Laura mi riforniva di prelibatezze».

Menu sabaudo?

«. Il cuore, rognone, carpione e il brasato. Il bollito misto è il mio piatto preferito, ma anche la bourguignonne: merito di mia moglie, un’ottima cuoca».

E parlando di cibo, arriviamo a uno dei suoi recenti impegni. È presidente del comitato scientifico dell’Osservatorio sulla Criminalità nell’Agricoltura e sul Sistema Agroalimentare di Coldiretti. Qual è il cibo sicuro?

«Aspetti. Devo raccontarle un aneddoto. Sono andato in pensione nel 2012. Gli amici di Libera Piemonte hanno deciso di farmi una festa. Mi hanno fatto due regali. Il primo è una pettorina con tanto di paletta segnaletica da vigile urbano, poiché una delle leggende metropolitane vuole che i pensionati vadano davanti alle scuole a regolare il traffico. Il secondo: una cartina di Torino con tante crocette ciascuna delle quali corrisponde a un cantiere… La proprietà intellettuale è riconducibile alla fonte specificata in testa alla pagina. Il ritaglio stampa è da intendersi per uso privato E anche qui si dice che i pensionati vadano a controllare l’avanzamento dei lavori».

Ma lei non si sentiva ancora pronto per fare il vigile…

«(Ride). Infatti. Insomma, Coldiretti (e c’entra sempre Don Ciotti) mi ha offerto quell’opportunità. E ho accettato anche perché era un modo di continuare l’impegno che ho assunto per tutta la mia vita».

Certo. E dunque quale è il cibo sicuro per lei?

«Un’etichetta narrante che ci informa e ci dice l’origine, la trasformazione, gli ingredienti, le qualità organolettiche e anche la data di scadenza. E, diciamo, se il cibo costa un po’ di più, è una garanzia».

E il suo piatto preferito?

«Il bollito senza dubbio. Ma anche la bourguignonne poiché Laura prepara tutte le salse. Qualche giorno fa, ne ha fatte quattordici diverse in occasione di un pranzo organizzato per riunire tutta la famiglia, nipoti compresi… Ah, queste salsine sono la fine del mondo».

Quanti nipoti ha?

«Giulia che ha 24 anni. È nata nel 1995 quando io ero a Palermo. È stata una grande sofferenza perché non sono riuscito a godermela. Poi c’è Emma nata nel 2001 e Leonardo nel 2015».

Dunque è ad Emma che è stata dedicata la ninna nanna scritta nel 2011 da Gianmaria Testa?

«Esatto. Eravamo molto amici. Quando è nata Emma ci ha fatto un regalo meraviglioso: ha composto questa splendida canzone e poi l’editore Gallucci ne ha fatto un libro».

Quali valori trasmette ai suoi nipoti?

«Le stesse cose cui mi sono ispirato io: rispetto per gli altri, coerenza, coraggio, senso del dovere e cercare di fare qualcosa di utile. O almeno provarci…».

Da oltre un secolo con i giovani come famiglia

Si pubblica un articolo proveniente dal “settimanale della diocesi di Novara“, a cura di Andrea Gilardoni, riguardo ai cento anni di presenza della casa Salesiana sul territorio novarese:

La città che si trasforma, la società che muta e i giovani stessi, con le loro famiglie, che cambiano volto, fraglità, bisogni. Un secolo è un arco di tempo lungo per tracciare un bilancio di una presenza su un territorio, ma per la famiglia salesiana (che quest’anno festeggia proprio i cento anni di una delle sue scuole a Novara, l’Istituto di Maria Ausiliatrice), quello che emerge è ciò che non è mutato nel tempo: la forza, alimentata dal carisma trasmesso dal fondatore, nell’essere accanto alla nuove generazioni, accompagnandole a diventare adulti e dando loro gli strumenti per prendere in mano la propria vita. all’indomani della prima guerra mondiale, così come oggi, al tempo dei nativi digitali e della società liquida.

“Quando aprì la scuola era in viale Roma: si pensava ad un’altra presenza, dopo quella dell’Istituto Immacolata in centro – spiega la direttrice, suor Daniela Rei delle Figlie di Maria Ausiliatrice -. C’era il giardino di infanzia, corsi di cucito per le ragazze e poi l’attività di catechesi”. Negli anni ’50 la scuola si sposta in via Battistini, dove si trova oggi: nuova sede, nuove strutture – che oggi accolgono circa 470 alunni tra materna ed elementari -, ma con lo stesso stile. “Famiglia” e “casa” salesiane. Sono questi i termini che usiamo sin dalla nostra fondazione. E non a caso: l’idea è quella di esser come una seconda famiglia per i ragazzi e bambini – prosegue suor Daniela -. E’ un servizio ai genitori, ma è anche la nostra vocazione di attenzione ai giovani. La qualità della proposta formativa “curricolare” della Maria Ausiliatrice e di tutte le nostre scuole, non può prescindere da questo stile di relazione con i piccoli e con le famiglie.

Un servizio vissuto non come un’organizzazione sperata e chiusa, ma in stretta collaborazione con la comunità cristiana:

Collaboriamo al catechismo nella parrocchia del Sacro Cuore e siamo nel consiglio pastorale.

Ed è questo il secondo filo rosso che cuce la storia dei salesiani a Novara. Anche per l’istituto maschile, che ha appena terminato di festeggiare, nel 2018, il 125° della fondazione.

Il percorso insieme alla pastorale giovanile diocesana, ma anche con l’UPM Novara Sud. E poi il lavoro con Sant’Egidio per i giovani migranti e la collaborazione con le parrocchie della città e dei paesi vicini per dare risposte ad alcuni casi di bisogno. Non sono elementi residuali o marginali del nostro lavoro, ma un impegno costante,

spiega il direttore del San Lorenzo don Giorgio Degiori. In istituto che sin dalla fondazione e dalla scelta del nome – quello del santo, terzo vescovo della diocesi – dice di un stretto legame con Novara. E di una pervicacia e testardo coraggio evangelico, anch’essi ereditati dal fondatore:

Don Bosco venne a Novara nel 1865, per parlare con il Vescovo di allora su possibili sviluppi della Congregazione in questa Diocesi. Fu don Rua a decidere di fondare, nel 1893, la nostra casa. Il primo salesiano a giungere qui fu don Giovanni Ferrando. Arrivò da Torino: aveva 29 anni, 50 centesimi in tasca e chiese ospitalità agli oblati di San Marco,

racconta don Giorgio. Anni da pionieri, che oggi proseguono con un impegno su più fronti:

Oggi la nostra casa si sviluppa su quattro settori:

  • la scuola media ed il liceo scientifico;
  • l’oratorio;
  • il convitto universitario;
  • il Santuario di Maria Ausiliatrice.

C’è poi una grande attività sportiva pomeridiana. E oltre che con Sant’Egidio, abbiamo iniziato due progetti: uno con la comunità islamica della città ed uno con i giovani ucraini, la cui presenza è davvero significativa nella nostra città.

I salesiani e l’invenzione del contratto di apprendistato

Si evidenzia l’articolo pubblicato dal “Corriere della Sera” che spiega, attraverso le parole del libro di Fabio GedaIl Demonio ha paura della gente allegra”, come don Bosco fosse stato da sempre un innovatore dal lato della Formazione Professionale e di come fosse già quasi arrivato all’idea del contratto di apprendistato:

Capita di sentire il bisogno di mettere ordine. Capire come si è arrivati a essere ciò che si è. Capita, ciclicamente. Negli ultimi dieci anni, da quando ho iniziato a dedicare sempre più tempo alla scrittura, mi è successo con una certa frequenza di affidare pezzi di me alle parole. Dovessi, tra le mie arruffate identità, tratteggiarne una cui sono particolarmente legato, e dovessi farne un ritratto per accumulo di gesti, luoghi e situazioni, il risultato potrebbe essere: educare, crescere, basket, prendere posizione, domande, dialogo tra le generazioni, periferia, cortile, strada, camminare in montagna, radicalità, bici, deserto, contemplazione, trascendenza e immanenza, panchine, minori stranieri, fare lavatrici di notte (questa è lunga, ve la spiego in un altro momento), Torino, ascolto, scoutismo, Slovenia negli anni Novanta, servizio, Valdocco, treni, sacco a pelo, fare del proprio meglio. Caffè. Tanto. E potrei andare avanti. Da questo caleidoscopio prende le mosse una cosa che ho scritto e che Solferino pubblica col titolo «Il demonio ha paura della gente allegra». Un viaggio lungo alcune strade che mi è capitato di abitare, soprattutto quelle dell’impegno civile e di una certa idea di mondo. Le strade percorse da un santo sociale dalla personalità fibrillante, San Giovanni Bosco. Quelle lungo cui continua a camminare chi è investito dal suo carisma. E altre. Strade all’ombra di alberi di jacaranda ed eucalipti, come a Catania, o faggi e ippocastani, come a Torino. Strade piene di voci squillanti di bambini e adolescenti, di giovani in cerca di un’alleanza con chi sta costruendo o smantellando il mondo che abiteranno.

Una vita negli ambienti salesiani

Durante la mia vita, fin da piccolo, ho incrociato spesso gli ambienti salesiani. Sono ex-allievo della scuola media Edoardo Agnelli di Torino, quartiere di Mirafiori, proprio accanto alla fabbrica. Di quegli anni ricordo soprattutto il cortile preso d’assalto durante la pausa pranzo, l’armadio dei palloni su cui ci avventavamo per scegliere quello meno usurato, e il professore di lettere, don Saddi, cui credo di dovere parte del mio amore per la lettura. Una volta al mese entrava in classe con un carrello da mensa, in fòrmica e acciaio, carico di libri, e ci invitava a sceglierne uno di pancia, lasciandoci attrarre dalla copertina, dal titolo o dalla sinossi. Una volta letto dovevamo presentarlo ai compagni dicendo se ci era piaciuto o no, e perché. Ho poi trascorso innumerevoli pomeriggi in diversi oratori della mia città. Con i salesiani ho prestato servizio come obiettore di coscienza. Da loro ho ricevuto il mio primo stipendio da educatore negli anni intensissimi del San Luigi, il secondo oratorio fondato da don Bosco dopo quello di Valdocco, a San Salvario, quartiere storico dell’immigrazione torinese tra il Po e la stazione di Porta Nuova. Lì ho chiuso il XX secolo inventandomi un mestiere per cui non avevo studiato, l’educatore, che mi ha poi accompagnato a essere lo scrittore che sono.

I ragazzini «randagi» delle periferie

Per scrivere «Il demonio ha paura della gente allegra» ho vagabondato tra ricordi personali e luoghi non ancora visitati, mettendomi in viaggio, alla ricerca di luoghi in cui la missione di don Bosco fosse, oggi più che mai, attuale. Mi ha catapultato in una Torino ottocentesca, malsana e maleodorante, dove i ragazzini migranti arrivavano dalla Savoia con speranze non dissimili da quelli che ho incontrato a Catania, in un centro di prima accoglienza gestito da cooperatori salesiani. Mi ha costretto a riprendere in mano la sua vita. Giovanni Bosco, nato in una frazione di Castelnuovo d’Asti nel 1815, arrivato a Torino nel 1841, a ventisei anni, e morto all’alba del 31 gennaio 1888 dopo aver attraversato da protagonista – pur non volendo esserlo e quindi in un modo tutto suo, personalissimo – gli anni del Risorgimento. Dopo aver fondato uno dei più importanti istituti religiosi maschili della Chiesa cattolica. E dopo aver contribuito a modificare il modo di porsi del clero nei confronti di quei ragazzini randagi che abitavano le periferie urbane. Di quel tempo. Di ogni tempo. Certo, non è lui il primo, a metà Ottocento, ad accorgersi di quei ragazzi con la pelle logorata dalle dermatiti e gli occhi infiammati, inconsapevoli di ogni cosa e alla mercé dei peggiori istinti, che ciondolavano per le strade dell’Europa. Erano sotto gli occhi di tutti. In Inghilterra ne scrive Charles Dickens, in Danimarca Hans Christian Andersen. E altri avevano già iniziato a occuparsi di loro in diversi modi, a Londra, a Parigi, a Roma. Ma il suo personale carisma lo pone in primo piano nell’azione educativa.

L’invenzione del contratto di apprendistato

Agli occhi dei ragazzi don Bosco sa incarnare tanto il lato materno quanto quello paterno della Chiesa. Si propone come serio, ma non serioso. Attento alla morale, ma anche capace di divertirsi. È il suo modo di porsi, la novità. Il catechismo con lui non è noioso perché il suo metodo è dialogico e narrativo: si discute, si recita, si racconta, si canta. Don Bosco è un comunicatore naturale, un buon affabulatore che sa di dover aggiustare il proprio linguaggio a seconda della persona cui sta parlando. Più che il desiderio di dimostrare di sapere, don Bosco nutre quello di farsi capire. Farà di tutto per animare e semplificare i discorsi in modo da coinvolgere anche l’ultimo dei ragazzi. E poi c’è il suo impegno nel campo della formazione professionale. In questo è davvero un innovatore. Tanto per dirne una: don Bosco è l’inventore di quello che oggi conosciamo come contratto di apprendistato. Il primo contratto di “apprendizzaggio” viene firmato in carta bollata da quaranta centesimi l’8 febbraio 1852 dal datore di lavoro, il signor Giuseppe Bertolino, dal suo apprendista, Giuseppe Odasso, dal padre del ragazzo e da don Bosco in persona. Una storia avvincente che mi riguarda personalmente. Che riguarda ciascuno di noi. E che ci pone di fronte a una provocazione: non indietreggiare davanti alla sfida educativa. Anzi, farcene carico con sempre maggiore intraprendenza e con ostinato coraggio. Alzarsi in piedi e camminare al fianco di chi sta crescendo è senza dubbio faticoso, ma da quella fatica non possiamo ritrarci. Accogliere può essere logorante, ma è un logorio che ha lo stesso valore delle rughe: testimonia l’aver vissuto. C’è una grande alleanza tra le generazioni che attende che noi si scenda in campo, ecco cosa. Un grande alleanza tra le generazioni. Di questo, in qualche modo, ho voluto parlare.

 

Intervista a Sandro Mazzola – Frequentava l’oratorio Salesiano

Si riporta qui di seguito l’intervista a Sandro Mazzola, proveniente da “La Repubblica” fatta per i cent’anni dalla nascita di suo padre: Valentino Mazzola. Intervista a cura di Fabrizio Turco.

Sandro Mazzola, si sarà anche lei oggi al Filadelfia alla cerimonia per i cent’anni dalla nascita di suo papà Valentino?

«Sì, ci sarò. E sono sicuro che, come al solito, entrare al Fila mi toglierà il fiato. È già qualche giorno che sono emozionato».

Ci saranno anche i suoi nipoti, compreso Valentino junior?

«Forse sì, ma decidono i miei figli. Compreso il fatto di poter passare dal Cimitero Monumentale di Torino. Mi piacerebbe portare i miei nipoti al Fila in primavera, quando farà meno freddo».

Che cosa racconta di papà ai nipoti?

«Ogni tanto faccio veder loro i filmati del bisnonno. Ma solo quando me lo chiedono; il che però accade spesso».

Che ricordo le viene se pensa a papà?

«Il più vivo è quando mi portava per mano a centrocampo prima della partita. Avevo un po’ di timore di tutta quella gente, lui mi guardava e sorrideva. Poi, quando la partita stava per iniziare, correvo verso la panchina e restavo lì a guardare papà».

E del Valentino Mazzola giocatore invece che cosa ricorda?

«Mi ricordo papà che segna di testa. Non era altissimo, ma che stacco aveva… Saltava, gli altri sparivano e lassù c’era solo lui che colpiva e la buttava dentro».

Se le dico via Torricelli che cosa le viene in mente?

«Ricordo che andavo sempre in giro con un bastone, chissà perché. Sotto casa c’era l’oratorio dei Salesiani, la Crocetta: papà mi veniva a prendere perché io non volevo mai smettere di giocare. E poi il panettiere all’angolo: quando avevo fame mi regalava un panino».

Oggi cosa le è rimasto di suo papà?

«Ricordo la sua mano. La ricordo benissimo, come fosse oggi. E ricordo corso Vittorio, il bar di Gabetto e Ossola, e tutta la gente che lo assediava a caccia di un autografo. Io avevo un po’ di paura e mi aggrappavo alla sua mano grande».

Che effetto le ha fatto il confronto continuo con il mito?

«All’inizio fu durissima. I primi anni all’Inter, dopo la partita, tornavo a casa a piedi per risparmiare le 25 lire del tram. E sentivo le parole dei tifosi: ‘Dove vuole andare quello lì, non è mica come suo papà…»

Come ha scoperto la scomparsa del papà?

«Dopo la tragedia di Superga fui portato a Cassano: avevo appena conosciuto mio fratello Ferruccio, e nessuno mi diceva nulla. Papà ha una partita, papà è in tournèe, mi raccontavano per tenermi buono. Ma papà non c’era mai. Poi colsi alcune parole che mia mamma pronunciò ad una sua amica ed iniziai a capire: fu la disperazione».

Che incubi le ha lasciato la tragedia di Superga?

«Di sicuro la paura di volare. All’Inter lo sapevano e tante volte mi hanno permesso di prendere il treno anziché l’aereo».

Cosa ricorda della sua prima volta al Fila da giocatore?

«Fu una grande tristezza. A parte il magazziniere Zoso che mi fece un sacco di feste, non mi accolse nessuno. E io ci rimasi molto male».

Aver fatto il dirigente del Toro in un certo senso ha chiuso il cerchio della sua storia sportiva?

«In un certo senso sì. Però mi è mancato non essere mai riuscito a indossare la maglia numero dieci del Toro».

Non è una provincia per saldatori

Si pubblica un articolo proveniente da “Il Corriere della Sera”, a cura di Laura Siviero, riguardo alla richiesta di attenzione lanciata da Marco Costamagna – presidente della sezione Meccanica di Confindustria Cuneo – che evidenzia la necessità e la mancanza tecnici saldatori all’interno delle aziende:

Lunedi 28 gennaio,

«Nel Cuneese ci strappiamo di mano i tecnici e i saldatori. La domanda supera l’offerta».
A lanciare l’allarme è Marco Costamagna, presidente della sezione Meccanica di Confindustria Cuneo: secondo lui la scuola orienta i ragazzi verso gli studi liceali, mentre al territorio servono tecnici che verrebbero immediatamente assunti.
A un anno di distanza dalla lettera del presidente di Confindustria Cuneo Mauro Gola, che invitava studenti e famiglie a scegliere il percorso di studi «con la testa», poco è cambiato e i numeri danno ragione agli imprenditori. L’indagine di Unioncamere, relativa ai fabbisogni delle aziende, in termini di risorse umane, per la provincia di Cuneo, mostra che su 5.190 ingressi in azienda previsti nel primo trimestre 2019, i favoriti sono gli operai specializzati (37,8%), poi gli impiegati che comprendono anche i profili tecnici (25,7%), le figure dirigenziali o impiegati con alta specializzazione tecnica (21,9%), e infine le professioni non qualificate (14, 6%). Degli operai specializzati, circa il 10% sono posti per saldatori, che sono i più difficili da reperire.
Un trend stabile, già nel 2017: la richiesta di queste figure professionali era di 710 unità nell’anno. Profili che vengono pagati il 25% in più rispetto a un operaio specializzato, circa 24.670 euro all’anno in partenza (dati Istat), lavorano più ore su turni e hanno un livello di inquadramento superiore. A formarli nel Cuneese Cuneo sono i centri Cnos Fap dei Salesiani. La seconda categoria più richiesta riguarda i trasfertisti tecnici, addetti alle manutenzioni, infine i periti tecnici.
«I saldatori sono introvabili – ripete Costamagna – i ragazzi vanno a studiare all’alberghiero e poi non trovano posto, mentre le aziende metalmeccaniche non riescono a coprire i profili che servono. E spesso le scuole medie orientano i migliori verso i licei».
Le scuole secondarie di primo grado si difendono.
«Gli insegnanti presentano tutte le opportunità ma è difficile capire quali siano le propensioni dei ragazzi – dice Maria Paola Longo, dirigente dell’Istituto comprensivo Oderda Perotti di Carrù – poi ci sono altri fattori, la distanza da casa per esempio. Ma è vero i risultati dell’orientamento non sono del tutto positivi».
D’altra parte anche gli istituti tecnici fanno il possibile, ma hanno perso l’appeal di un tempo e le famiglie spesso premono per il blasone dei licei. Il Vallauri di Fossano riesce a tenere alti in numeri grazie ai laboratori (costruiti con l’aiuto delle Fondazioni) super specializzati in cui anche le aziende come la Siemens tengono corsi. L’istituto sforna circa 300 tecnici l’anno e conta oltre 2000 studenti: i due terzi vengo assunti entro 6 mesi dal diploma. «Da noi il tema dell’occupabilità non si pone – ribatte Paolo Cortese, dirigente dell’istituto – le aziende si accaparrano gli studenti già al quarto anno. I ragazzi devono capire che le aziende non sono più luoghi sudici in cui lavorare ma sembra di stare dentro un ospedale all’avanguardia».

Papa Francesco – Don Bosco portatore sano di gioia!

Si riporta un articolo pubblicato dalla redazione di Avvenire in data 10 gennaio 2019 riguardo alla prefazione del libro sull’Evangeli Gaudium in cui Papa Francesco ricorda la “misura alta della vita cristiana” che il santo fondatore don Bosco mise in pratica nella periferia sociale di Torino. Buona lettura!

Pubblichiamo la prefazione del Papa al volume, curato da Antonio Carriero, “Evangelii gaudium con don Bosco”, testo in cui la Famiglia salesiana riprende in chiave educativo pastorale il messaggio dell’Esortazione apostolica di Francesco, vero e proprio documento programmatico del suo pontificato. Il titolo del contributo firmato dal Pontefice è “Cari salesiani”.

Voi salesiani siete fortunati perché il vostro fondatore, Don Bosco, non era un santo dalla faccia da “venerdì santo”, triste, musone… Ma piuttosto da “domenica di Pasqua”. Era sempre gioioso, accogliente, nonostante le mille fatiche e le difficoltà che lo assediavano quotidianamente. Come scrivono nelle Memorie biografiche,

«il suo volto raggiante di gioia manifestava, come sempre, la propria contentezza nel trovarsi tra i suoi figli» ( Memorie biografiche di Don Giovanni Bosco, volume XII, 41).

Non a caso per lui la santità consisteva nello stare “molto allegri”. Possiamo definirlo quindi un “portatore sano” di quella “gioia del Vangelo” che ha proposto al suo primo grande allievo, San Domenico Savio, e a voi tutti salesiani, come stile autentico e sempre attuale della

«misura alta della vita cristiana» (Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, 31).

Il suo è stato un messaggio rivoluzionario in un tempo in cui i preti vivevano con distacco la vita del popolo. La «misura alta della vita cristiana» Don Bosco la mette in pratica entrando nella “periferia sociale ed esistenziale” che cresceva nella Torino dell’800, capitale d’Italia e città industriale, che attirava centinaia di ragazzi in cerca di lavoro. Infatti, il “prete dei giovani poveri e abbandonati”, seguendo il consiglio lungimirante del suo maestro san Giuseppe Cafasso, scendeva per le strade, entrava nei cantieri, nelle fabbriche e nelle carceri, e lì trovava ragazzi soli, abbandonati, in balia dei padroni del lavoro, privi di ogni scrupolo. Portava la gioia e la cura del vero educatore a tutti i ragazzi che strappava dalle strade, i quali ritrovavano a Valdocco un’oasi di serenità e il luogo in cui apprendevano ad essere «buoni cristiani e onesti cittadini». È lo stesso clima di gioia e di famiglia che ho avuto la fortuna di vivere e gustare anche io da ragazzo frequentando la sesta elementare al Colegio Wilfrid Barón de los Santos Ángeles, a Ramos Mejía. I salesiani mi hanno formato alla bellezza, al lavoro e a stare molto allegro e questo è un carisma vostro.

Mi hanno aiutato a crescere senza paura, senza ossessioni. Mi hanno aiutato ad andare avanti nella gioia e nella preghiera. Come ebbi occasione di ricordarvi nella visita alla Basilica di Maria Ausiliatrice, il 21 giugno 2015, torno a raccomandarvi i tre amori bianchi di Don Bosco: la Madonna, l’Eucaristia e il Papa. Oggi si parla poco della Madonna con lo stesso amore con cui ne parlava il vostro Santo. Si affidava a Dio pregando la Madonna e quella fiducia in Maria gli dava il coraggio di affrontare sfide e pericoli della vita e della sua missione. L’Eucaristia, come secondo amore di Don Bosco, deve ricordarvi di avviare i ragazzi alla pratica della liturgia, vissuta bene, per aiutarli ad entrare nel mistero eucaristico e non dimenticate anche l’Adorazione. Infine, l’amore al Papa: non è solo amore per la sua persona, ma per Pietro come capo della chiesa e come rappresentante di Cristo e sposo della Chiesa. Dietro quell’amore bianco per il Papa, c’è l’amore per la Chiesa. L’interrogativo che dovete porvi è:

«Che salesiano di Don Bosco bisogna essere per i giovani di oggi?».

Io direi: un uomo concreto, come il vostro fondatore, che da giovane prete ha preferito alla carriera di precettore nelle famiglie dei nobili il servizio tra i ragazzi poveri e abbandonati. Un salesiano che sa guardarsi attorno, vede le situazioni critiche e i problemi, li affronta, li analizza e prende decisioni coraggiose. È chiamato ad andare incontro a tutte le periferie del mondo e della storia, le periferie del lavoro e della famiglia, della cultura e dell’economia, che hanno bisogno di essere guarite.

E se accoglie, con lo spirito del Risorto, le periferie abitate dai ragazzi e dalle loro famiglie, allora il regno di Dio inizia ad essere presente e un’altra storia diventa possibile. Il salesiano è un educatore che abbraccia le fragilità dei ragazzi che vivono nell’emarginazione e senza futuro, si china sulle loro ferite e le cura come un buon samaritano. Il salesiano è anche ottimista per natura, sa guardare i ragazzi con realismo positivo. Come insegna ancora oggi Don Bosco, il salesiano riconosce in ognuno di loro, anche il più ribelle e fuori controllo, «quel punto di accesso al bene» su cui lavorare con pazienza e fiducia. Il salesiano è, infine, portatore della gioia, quella che nasce dalla notizia che Gesù Cristo è risorto ed è inclusiva di ogni condizione umana. Dio infatti non esclude nessuno. Per amarci non ci chiede di essere bravi. E né ci chiede il permesso di amarci. Ci ama e ci perdona. E se ci lasciamo sorprendere con quella semplicità di chi non ha nulla da perdere, sentiremo il nostro cuore inondato di gioia. Quando queste caratteristiche vengono a mancare, ecco quei musi lunghi, facce tristi.

No! Ai ragazzi si deve portare questa notizia bella, una notizia vera contro tutte le notizie che passano ogni giorno sui giornali e la rete. Cristo è veramente risorto, e a dimostrarlo sono stati Don Bosco e Madre Mazzarello, tutti i santi e i beati della Famiglia Salesiana, come anche tutti i membri che ogni giorno trasfigurano la vita di chi li incontra perché si sono lasciati loro per primi raggiungere dalla misericordia di Dio. Il salesiano diventa così testimone del Vangelo, la Buona Notizia che nella sua semplicità deve confrontarsi con la cultura complessa di ogni Paese. Mettere insieme semplicità e complessità, per un figlio di Don Bosco, è una missione quotidiana. L’ampio commento che segue, rilegge l’Esortazione apostolica Evangelii gaudium in chiave salesiana. È affidato a grandi esperti delle diverse discipline che, con fine sensibilità e sotto la lente di Don Bosco, mettono in risalto il pensiero del Papa in collegamento con le diverse situazioni attuali, per educare e orientare al bene dei ragazzi e dei giovani. Sono convinto che la lettura di queste pagine potrà fare del bene a tutti i figli e alle figlie di Don Bosco sparsi nel mondo, e a quanti condividono il carisma educativo salesiano. Troveranno nelle pagine di questo testo molti spunti di interpretazione della realtà e di rinnovamento della prassi educativa al servizio dei ragazzi e dei giovani del nostro tempo.

Chieri, oratorio San Luigi – Accoglienza dei senza tetto

Si pubblica l’articolo a cura di Enrico Bassignana (Corriere di Chieri) che descrive, grazie anche alle parole di don Eligio Capriogliodirettore del San Luigi di Chieri -, la realtà dell’Hotel don Bosco che ospita ed accoglie i senza tetto:

Le vite difficili all’Hotel don Bosco
Un letto, un bagno e un tè: cosi l’oratorio San Luigi accoglie i senza tetto

Quando ti passano di fianco non le riconosci, le persone che abitano all’Hotel don Bosco. Ma hanno un tratto caratteriscito: dimostrano molti più anni di quanti non ne abbiano in realtà. Segni lasciati sul volto e nell’anima da una vita grama, che ha tolto loro quasi tutto.

Cosi, quando le notti si allungano e la temperatura scende, queste persone bussano alla parta dell’oratorio salesiano San Luigi, in Via Vittorio Emanuele 80. Qui, fino alla primavera, troveranno una stanza calda ed un letto. Insieme a un pò di speranza.

Quattro anni fa ho ricevuto una telefonata da un mio conoscente – spiega don Eligio Caprioglio, direttore del San Luigi – Mi ha detto:”Davanti al mio risotante c’è uno che dorme per la strada, che cosa di può fare?”. Ce lo siamo chiesto anche noi, con i cooperatori salesiani e con alcuni genitori della nostra scuola. Cosi abbiamo allestito il dormitorio invernale, dove accogliamo solo uomini.

I locali sono quelli che in passato ospitavano gli spogliatoi per le squadre di calcio: una camerata con una decina di letti a castello, docce e servizi. 

L’ingresso è dalle 20,30 alle 22, alle 7,30 l’uscita. Non diamo da mangiare, ma sia alla sera sia al mattino serviamo tè caldo e biscotti. Di notte è sempre presente un volontario.

  • Quanti sono gli ospiti?

In questo periodo da tre a cinque, con età tra i 50 e i 60 anni: in passato ne abbiamo avuti anche di più, dai trent’anni in su. Persone che non hanno centrato degli obiettivi che si erano prefisse per la vita, oppure che si sono “perse”. Persone in sé buone, che se avessero avuto un aiuto al momento opportuno ora non si troverebbero in questa situazione.

  • Sono dei “barboni”?

Tutt’altro. All’apparenza sono persone normalissime, e questo è già un dato importante, perchè vuol dire che non si sono lasciate andare del tutto. Ma molto spesso dimostrano più anni rispetto a quelli che hanno, a causa della loro vita difficile. C’è anche chi ha alle spalle storie di droga, oppure un pessimo rapporto con l’alcol.

  • Voi date solo un tetto?

No, chiediamo un percorso. Significa essere già in contatto con l’assistente sociale, oppure farsi prendere in carico, e seguire le tappe che vengono proposte: la disintossicazione dall’alcol, per esempio. Altrimenti non c’è prospettiva per il futuro.

  • E il ruolo dei volontari?

Al di là degli aspetti pratici, è quello di “seminare buone idee”, ascoltare e parlare: fermo restando che quasi sempre si incontrano situazioni troppo complesse per sperare in soluzioni positive rapide.

  • In passato lei non ha mai parlato volentieri di questo servizio: perchè lo fa adesso?

Da un lato il silenzio va a tutela delle persone di cui ci occupiamo. Dall’altro, però, è importante far sapere che intorno a noi succedono anche queste cose. Il male è sotto gli occhi di tutti ma, per fortuna, intorno a noi c’è anche tanto bene.

 

Progetto Tech Pro2 – Decimo compleanno

Si riporta qui a seguire l’articolo pubblicato dalla redazione di “Avvenire” in data 28 Dicembre 2018, relativo al progetto Tech Pro2: un’iniziativa realizzata in collaborazione con Fca, Cnh Industrial e scuole salesiane. Dal 2008 formati quasi 13mila giovani. Oltre 60 sedi nel mondo.
Buona lettura!

Compie dieci anni Tech Pro2, il progetto di sviluppo professionale e sociale realizzato in partnership tra Fca, Cnh Industrial e le scuole salesiane. L’iniziativa, nata nel 2008 in Italia ed estesa a tutto il mondo, è stata pensata per offrire un’opportunità ai giovani che hanno terminato la scuola dell’obbligo e che provengono da situazioni socialmente disagiate. Fino a oggi il programma ha formato quasi 13mila giovani con 380mila ore di corsi e 6.500 stage presso le reti assistenziali di Fca e Cnh Industrial. È attivo con oltre 60 sedi scolastiche nel mondo: dall’Argentina alla Cina, dall’India all’Etiopia, ma anche in Europa, dalla Polonia all’Italia. Ultima nazione in ordine di tempo a entrare a fare parte dell’iniziativa è la Francia, dove da luglio sono operative sette sedi che nei prossimi tre anni prepareranno oltre 200 studenti.

«Tech Pro2 è un progetto che conosco molto bene e che da anni porta avanti un modello vincente di relazione tra istituzioni formative e impresa, alla base della sinergia che deve esistere tra scuola e lavoro – spiega Pietro Gorlier, chief operating officer di Fca della regione Emea -. Questa partnership di tre realtà importanti e leader nei loro settori continua a creare professionisti maturi: è un’ottima combinazione tra un eccellente contributo tecnico e un forte sistema di valori che permette di raggiungere un alto livello personale e professionale, fondamentale per i nostri tecnici di domani».

Di recente inoltre Fca ha ampliato l’offerta all’area dell’accettazione per la formazione di consulenti del servizio e ha avviato un corso per la figura di racing team technician, in collaborazione con Abarth.

Nel progetto convergono e si amalgamano gli obiettivi di due realtà internazionali e globali come Fca e Cnh Industrial, con quelli formativi promossi da Cnos-Fap (Centro nazionale opere salesiane – formazione aggiornamento professionale) che si pongono come priorità la formazione e la crescita dei giovani.

«Il grande successo della collaborazione tra Cnos-Fap, Fca e Cnh Industrial nel Tech Pro2 nasce dalla necessità di guardare insieme la realtà formativa con il cuore di don Bosco e la responsabilità di cittadini: giovani, famiglie, attività produttive, formazione professionale e territori, per dare insieme le risposte che sono necessarie – commenta Enrico Peretti, direttore generale del Cnos-Fap -. L’attività congiunta di Cnos-Fap, Fca e Cnh Industrial è un caso positivo nella formazione dei giovani al lavoro, un caso da studiare in tutte le sue potenzialità e che può fare scuola a tante aziende».

 

 

Muzzano, Biella – Capitolo Ispettoriale IX

Si riporta qui di seguito un articolo a cura di “News Biella” inerente al Capitolo Ispettoriale IX dei Salesiani che si sta svolgendo nella casa di Muzzano.

NewsBiella

Un grande momento di ritrovo per un centinaio di salesiani dell’Ispettoria del Piemonte, Valle d’Aosta e Lituania: il IX Capitolo Ispettoriale (CI 9).
Il percorso del Capitolo Ispettoriale è iniziato in autunno a livello locale, con una prima fase lo scorso 24 novembre a Torino-Valdocco seguita da una fase straordinaria di coinvolgimento dei giovani, il 9 dicembre scorso, e ora si giunge alla seconda sessione ordinaria di lavoro, che si terrà a Muzzano dal 26 al 29 dicembre, in forma residenziale.

Parteciperanno i 35 direttori delle opere salesiane del Piemonte, l’intero Consiglio Ispettoriale, un salesiano delegato per ciascuna opera e 18 salesiani eletti dall’intera Ispettoria. Il Rettor Maggiore, don Ángel Fernandez Artime, ha assegnato al Capitolo tre i compiti principali:

  • approfondimento sul tema del Capitolo Generale 28° (CG28) “Quali salesiani per i giovani di oggi?”;
  • approfondimento su tematiche più specifiche dell’Ispettoria;
  • elezione dei tre Delegati al CG28.

Si entrerà nel vivo della sessione capitolare mediante i contributi raccolti nelle varie case del territorio, nei settori ispettoriali, tra i giovani confratelli e i ragazzi del Movimento Giovanile Salesiano, grazie al lavoro del Regolatore del CI 9, don Luca Barone – accompagnato dalla Commissione Preparatoria composta da don Alberto Martelli, don Stefano Mondin, don Chrzan Marek, don Giorgio Degiorgi e don Fabiano Gheller – che sottolinea il valore simbolico di:

“vivere questo Capitolo a Muzzano, nella nostra casa, che da decenni ospita e continua ad ospitare giovani per esperienze di animazioni, esperienze spirituali, esperienze sacramentali, ci aiuterà a sentire più vicini ai giovani a cui noi stessi siamo mandati”.

La casa di Muzzano, fondata nel 1957, è un punto di riferimento del territorio biellese. Prima come scuola e per ritiri spirituali e ora coma casa di accoglienza per gruppi, famiglie, comunità parrocchiali, a sostegno di attività religiose, spirituali e sociali. Nei mesi scorsi, in vista del Capitolo Ispettoriale, l’opera di Muzzano ha rivisitato, con alcuni interventi di manutenzione e miglioria, i propri spazi grazie al prezioso supporto di un gruppo di Ex-Allievi volontari – provenienti non solo dal Biellese ma anche da Torino, Vercelli, Asti e dal lontano Veneto – che hanno nel cuore la casa di Muzzano.
La seconda sessione di lavoro del Capitolo Ispettoriale si terrà a Torino-Valdocco, il 4 e 5 marzo 2019, per la conclusione dei lavori.

 

 

 

Spazio Anch’io: è tempo di ricollocarsi, reinventarsi, replicarsi e progettare

Nell’edizione online del 13 Dicembre 2018 del quotidiano TorinoOGGI.it, è apparsa la notizia relativa a Spazio Anch’io, il progetto di decennale esperienza di educativa di strada nel parco del Valentino, che dovrà cambiare presto casa in funzione del nuovo campus universitario del Politecnico. Si riporta qui di seguito l’articolo a cura di Manuela Marascio:

 

Lo Spazio Anch’io del Valentino trasloca e si allarga: arriverà in altre zone della città

Il Padiglione 5 verrà riqualificato e inserito nel nuovo campus universitario del Politecnico. Progetto dell’educativa di strada entro il 25 dicembre

Il Politecnico cresce e l’educativa di strada si reinventa. In vista dell’avvio cantieri nel 2020 per la creazione del Campus universitario all’interno del Valentino, gli attuali ospiti fissi del prato nel Padiglione 5 sono già in cerca di una nuova casa.

All’Oratorio San Luigi si è tenuto martedì un focus group dedicato al futuro di Spazio Anch’io, il luogo di ritrovo, gestito dalla cooperativa sociale ET, per i ragazzi più bisognosi di San Salvario, soprattutto stranieri. Lì, ogni pomeriggio, si tengono laboratori didattici e di intrattenimento, sia d’inverno che d’estate. Ora, con il nuovo progetto del Comune di Torino in partenza, dovrà essere trasferito altrove.

Dopo un primo incontro tra Don Mauro Mergola, parroco della chiesa dei Ss. Pietro e Paolo, e la sindaca Chiara Appendino – che ha visitato personalmente lo Spazio nel 2017, in occasione dei dieci anni della sua fondazione -, gli operatori hanno voluto incontrare cittadini e altre realtà attive nel quartiere in ambito sociale.

“La sindaca è molto contenta di ciò che facciamo – ha spiegato Matteo Aigotti, della cooperativa ET – perché il nostro lavoro con i giovani permette di contenere i processi di microcriminalità e devianza. Per questo possiamo ragionare insieme sul suo spostamento”. E non si stratta solo di ricollocarlo in un altro punto del parco, ma di moltiplicare, nella città, le “stazioni” in cui coinvolgere i ragazzi, individuando altri centri urbani problematici dove vi sia un forte rischio di emarginazione e devianza.

Tra le domande sottoposte ai partecipanti dell’incontro: perché replicare Spazio Anch’io e cosa c’è di significativo in questa esperienza; quali nuovi luoghi potrebbero ospitarlo; che coinvolgere e in quali fasce orarie; quali elementi non potranno mancare. Erano presenti, tra gli altri, la Casa del Quartiere di San Salvario, Libera, il Gruppo Abele, i servizi sociali territoriali; oltre a tanti adolescenti abituali frequentatori delle attività salesiane.

Entro il 25 dicembre dovrà essere redatto un progetto da sottoporre poi al Comune. In seguito si terrà un incontro per illustrare pubblicamente i risultati e procedere quindi lungo il nuovo percorso.