ADMA: VIII Congresso Internazionale di Maria Ausiliatrice

L’VIII Congresso Internazionale di Maria Ausiliatrice, evento di Famiglia Salesiana promosso dall’Associazione di Maria Ausiliatrice (ADMA), in accordo con il Segretariato della Famiglia Salesiana e con la Famiglia Salesiana dell’Argentina, si terrà a Buenos Aires, Argentina, dal 7 al 10 novembre 2019.

Il Logo rappresenta la familiare e cara immagine di Maria Ausiliatrice accanto alla sagoma della Basilica di Maria Ausiliatrice e di San Carlo, a Buenos Aires; un luogo di enorme significato per la devozione mariana argentina.

I prossimi passi del cammino di preparazione vedranno:

• L’avvio del cammino formativo di preparazione al Congresso, che verrà pubblicato, a partire da questo settembre 2018, ogni mese attraverso l’ADMAonline (www.admadonbosco.org e nel sito dedicato all’evento www.mariaauxiliadora2019.com.ar);

• L’avvio della raccolta delle esperienze di vita, relative ad esperienze giovanili e di famiglia, a partire da ottobre 2018. In occasione del Congresso, infatti, sarà offerta la possibilità di presentare alcune esperienze di vita legate ai temi del Congresso, tra quelle che si candideranno a partecipare.

• L’avvio delle iscrizioni, a partire da novembre 2018: al riguardo gli organizzatori anticipano sin da ora che le iscrizioni dovranno essere fatte a livello di gruppo, non di singoli, e che l’organizzazione del Congresso si occuperà solo della logistica e dei pasti in loco, ma non della sistemazione per la notte. Al riguardo verranno dati maggiori dettagli in sede di avvio delle iscrizioni, con apposita comunicazione.

I Congressi di Maria Ausiliatrice sono eventi di rilevanza mondiale per la Famiglia Salesiana, che attraverso la promozione della devozione a Maria Ausiliatrice vuole far crescere la sua identità spirituale ed apostolica.

Articolo tratto da ANS – Agenzia Info Salesiana

 

Andrea Lucchetta: È don Bosco il mio supereroe!

Si pubblica l’interessante intervista realizzata da Antonio Giuliano, per l’edizione di Avvenire dell’ 8 settembre 2018, ad Andrea “Lucky” Lucchetta, pallavolista e non solo, capitano della Nazionale dei fenomeni del volley negli anni Novanta e da circa un decennio volto noto in Tv come commentatore. Lucky è affezionato a Don Bosco perchè gli ha svelato la bellezza della pallavolo come sport di squadra “all’istituto salesiano Astori di Mogliano Veneto. E qui ho capito l’importanza del dover essere sempre in prima linea con il prossimo.” Buona lettura!

Pallavolo. Andrea Lucchetta, il campione animato che parla ai giovani

Alla vigilia dei Mondiali parla un grande ex, oggi commentatore Tv e protagonista in un suo cartoon: «Che emozione vedere i bimbi disabili schiacciare. È don Bosco il mio supereroe»

«Se l’Italia vince il Mondiale di pallavolo posso promettere di far sparire i baffi. Ma il mio capello proprio no…». Chiedetegli tutto ma non di rinunciare all’onda anomala che svetta da anni sulla sua testa. La capigliatura a spazzola in diagonale fa ormai parte della sua carta d’identità e lo accompagna sin da quando dettava legge in campo: «Per me è un taglio di vita». Non ha bisogno di presentazioni Andrea Lucchetta, capitano della Nazionale dei fenomeni del volley negli anni Novanta e da circa un decennio volto noto in Tv come brioso commentatore. Competente e rigoroso come solo una leggenda di questo sport può esserlo. Senza però mai prendersi troppo sul serio. Ma anzi prodigo di tormentoni e schietto come chi, «dopo aver appeso le mani al chiodo», ha deciso di dedicarsi ai giovani, ne conosce il linguaggio e ha imparato che con loro non si può bluffare. Personaggio da sempre fuori dagli schemi, la sua sagoma inconfondibile spopola tra i ragazzi anche grazie a un fortunato cartone animato, Spike Team, in onda su Rai Gulp, di cui è ideatore e autore. Lucky, il protagonista, è infatti il suo alter ego, un allenatore con lo stesso bagaglio di valori e autoironia con cui Lucchetta a 55 anni continua felice a condividere una passione che va oltre lo sport.

Domani l’Italia fa il suo esordio al Mondiale che cosa si aspetta dalla nostra Nazionale?

«Per noi è il Mondiale della verità. Dobbiamo cancellare le delusioni mondiali precedenti, specie la brutta figura del 2014 col tredicesimo posto. Abbiamo una formazione di livello che a Rio 2016 ci ha regalato uno splendido argento. Ma dopo l’Olimpiade dobbiamo ritrovare i nostri giocatori cardine. E grazie al lavoro di Blengini mi aspetto tanto dai vari Giannelli, Juantorena, Zaytsev, ma anche da Colaci e Lanza. Ora è il momento di accantonare la pallavolo “social” e rimanere concentrati: giochiamo in casa e siamo favoriti. E l’obiettivo minimo non può che essere il podio».

Le piace l’idea di giocare all’aperto al Foro Italico di Roma?

«Tantissimo. Non mi dispiacerebbe nemmeno se la finale a Torino si giocasse allo Juventus Stadium magari alla presenza di CR7… Rappresenta la mia filosofia da sempre: conquistare i non-luoghi della pallavolo per avvicinare la gente a questo sport. È la ragione per cui sono andato in radio, ho partecipato come cantante al Festivalbar e mi sono inventato un cartone animato… ».

In questi anni si è fatto conoscere molto fuori dal campo. Ma lei è stato protagonista di un’Italia che ha dominato nel mondo.

«Una striscia molto lunga di vittorie che rimarrà irripetibile. Anche perché era una pallavolo tecnicamente diversa. Ma quella squadra era formata da giocatori che sputavano anima e sangue in campo. La cura dei dettagli, la voglia di migliorare ogni giorno e la compattezza del gruppo facevano la differenza. La conquista del Mondiale del 1990 (preceduta dall’Europeo del 1989) è stato il momento più bello della mia carriera (in- sieme al primo scudetto a Modena). Con la soddisfazione di essere premiato come miglior giocatore. E quella fascia di capitano, che tuttora mi inorgoglisce, mi è rimasta tatuata dentro».

Una bacheca impressionante in cui spiccano due scudetti e una Coppa dei Campioni a livello di club e i numerosi successi in Nazionale come il bronzo olimpico (1984), un europeo (1989) il campionato del mondo (1990) e tre World League consecutive (dal 1990 al 1992). La sua carriera è stata segnata spesso da scelte controcorrente.

«Velasco si arrabbiava perché durante i giorni di riposo andavo ad allenare una polisportiva di ragazzi di strada. Ma io ho scoperto la bellezza di questo sport di squadra all’istituto salesiano Astori di Mogliano Veneto. E qui ho capito l’importanza del dover essere sempre in prima linea con il prossimo. Quando ho smesso, ho creato una ludoteca e per dieci anni sono sparito dal mondo del volley. I miei figli hanno scelto il basket: li ho lasciati liberi perché per me era importante solo che facessero sport e imparassero umiltà e senso di gruppo».

Ma oggi è diventato uomo-immagine della pallavolo soprattutto per i più piccoli.

«Stiamo lavorando molto con la Federazione nelle scuole e sul territorio. Gioco in media con 20mila bambini l’anno. Ne ho incontrati in tutto circa 320mila per un totale di un milione 200mila palleggi. E poi 150mila animazioni di classe… Tutto per far comprendere anche agli adulti che i valori dello sport come la costanza o il sacrificio sono decisivi per raggiungere qualsiasi obiettivo nella vita. Gli stessi valori che sono alla base del mio cartoon Spike Team, dove le protagoniste sono sei piccole pallavoliste che, guidate dal loro allenatore Lucky, imparano a far tesoro delle sconfitte e crescono seguendo principi nobili, preziosi in un tempo in cui ragazzi sono bombardati da falsi modelli esteriori. Non è un caso se il cartone è stato premiato due volte dal Moige (Movimento italiano genitori) per i suoi contenuti. Quest’anno è andata in onda la terza serie (siamo arrivati in tutto a 78 puntate) ma in cantiere ne ho già una quarta. C’è un rimando alla realtà che altri cartoni non hanno più: Lucky che i bambini vedono gesticolare nel cartone è Andrea Lucchetta che ritrovano poi in piazza a giocare con loro».

Lucky ha anche la sua stessa acconciatura… Non sarà diventata una schiavitù per lei?

«Per niente. Anzi quando mi vedo col capello “moscio” non va mica bene. Il problema è che adesso mi riconoscono anche al mare quando faccio i tuffi. Questo è il taglio del capitano, nacque così quando giocavo per chiedere un po’ di rispetto visto che non mi calcolava nessuno… Un’acconciatura che ricorda l’inclinazione di una mano che fa il saluto militare… La verità è che rispecchia in pieno il mio carattere. Io sono così come mi vedete, non c’è nulla di costruito. In telecronaca mi esalto e sono pronto a saltare sul bancone proprio come se fossi seduto sul divano di casa vostra. Allo stesso modo faccio notare gli errori tecnici anche a rischio di essere impopolare».

L’energia e la capacità di ridere di sè è rimasta quella di sempre. Dove attinge questa carica?

«Il percorso spirituale dei salesiani è stato decisivo. La preghiera e il raccoglimento sono essenziali e appena posso vado al Santuario di Puianello. La fede ti dà una grande forza e il coraggio per essere tenace e leale: da don Bosco ho appreso che col sorriso possiamo portarla a tutti. Lui per me è un vero supereroe, sono pronto coi salesiani a farne una serie, faremmo contenti tanti ragazzi».

C’è però un’ulteriore sfida nella sua missione.

«Far capire ai ragazzi disabili che siamo tutti parte di una stessa squadra. Con la Federazione ho lanciato lo Spike Ball, il gioco della schiacciata, che ha già incontrato 12mila bambini nelle piazze italiane: una pallavolo con la rete all’altezza degli occhi così che tutti i bimbi, anche quelli in carrozzina, possono schiacciare o murare. E sulla disabilità ho lanciato un film Il sogno di Brentadottato anche dalle campagne ministeriali sulla prevenzione stradale. Basta poco a volte. Anche solo far aprire le dita sul pallone a un ragazzo con handicap. Perché se mentre lo fai, leggi sul suo volto che lo stai rendendo felice, capirai che non c’è nulla di più bello al mondo».

 

Percorrendo un cammino di fedeltà. Il saluto del Rettor Maggiore nell’imminenza del CG28

L’8 settembre, festa della Natività della Vergine Maria, il Rettor Maggiore, Don Ángel Fernádez Artime, invia una lettera che si pubblicherà negli Atti del Consiglio Generale (n.428). Essa invita a considerare la meravigliosa opportunità che si presenta alla Congregazione Salesiana, come tutti i Capitoli Generali, “di fare un passo ulteriore guardando il futuro, facendo un cammino di fedeltà al Signore, seguendo le orme di Don Bosco”.

In questa missiva, considerata dal Rettor Maggiore come una “lettera colloquiale” o una “comunicazione fraterna e spontanea”, si fa riferimento a temi riguardanti il CG28 e i giovani, la situazione della Congregazione e alcune situazioni per la riflessione e il tema della “missionarietà”, come fonte di speranza.

“Percorrendo un cammino di fedeltà”, è una lettera che parla dal cuore del Padre al cuore dei suoi figli, dal cuore del Rettor Maggiore al cuore dei salesiani, con il fine di preparare in profondità al prossimo CG28.

Il Rettor Maggiore inizia la lettera con la testimonianza dei giovani. Un giovane scrive: “abbiamo bisogno di Salesiani con convinzione, sogno, passione, che possano essere testimoni viventi dell’amore di Cristo e possano essere per noi un esempio di tutto ciò che professava Don Bosco”. La seconda testimonianza è più eloquente e profonda: “Molti di noi non immaginano una vita senza Don Bosco, senza Salesiani, e possiamo affermare che non saremmo innamorati di Dio in una maniera ‘pazzesca’, piena di risa e grandi esperienze, senza di lui”.

(Notizia a cura di
ANS – Agenzia INFO Salesiana)

3 settembre 1988: Papa Giovanni Paolo II al Colle Don Bosco

Si segnala la seguente notizia apparsa nella versione online del quotidiano “La Nuova Provincia” a cura di Daniela Peira, circa la visita di Papa Wojtyła a Colle don Bosco. Buona Lettura!

 

Trent’anni fa Papa Giovanni Paolo II al Colle Don Bosco

Anniversario oggi
Esattamente 30 anni fa, il 3 settembre 1988, al Colle Don Bosco una folla di 25 mila fedeli accoglieva festante l’arrivo di Papa Giovanni Paolo II, uno dei più pontefici più amati e popolari di sempre.

L’occasione era il primo centenario della morte di San Giovanni Bosco, il santo che ha lasciato in eredità il suo sistema educativo rivolto ai giovani ancor oggi perpetuato dalla comunità salesiana in tutto il mondo.

Prima al fonte battesimale di Don Bosco
La tappa astigiana di Papa Wojtyla iniziò in paese a Castelnuovo Don Bosco, sulla sommità del borgo antico dove sorge la chiesa parrocchiale di Sant’Andrea. Lì l’arrivo accolto dal parroco di allora, don Giorgio Palazzin e dalle note della banda musicale del paese. Il Papa si ritirò nella chiesa di Sant’Andrea per fermarsi a pregare al fonte in cui Don Bosco venne battezzato nell’agosto del 1815. Incontrò anche 18 bambini del paese nati negli ultimi mesi prima della sua visita.

La storica foto davanti alla “casetta”
Poi la seconda tappa, quella al cuore spirituale dell’opera salesiana, nella località Becchi di Morialdo dove sorge il Santuario dedicato al grande Santo Sociale. Arrivato sulla “papamobile” blindata, Giovanni Paolo II si era trovata davanti il piazzale interamente gremito di persone che attendevano la celebrazione della messa sul palco esterno. Una messa nel corso della quale venne beatificata Laura Vicuna, una ragazzina educata dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, altra incredibile “invenzione” di Don Bosco. In più occasioni Papa Wojtyla ebbe ad elogiare l’efficacia e l’attualità del metodo educativo di Don Bosco. Ricevette anche i doni portati da parrocchiani e religiosi della zona fra cui spiccavano prodotti della terra di collina.

La visita al Colle proseguì, per il Papa, al Santuarietto di Maria Ausiliatrice e alla casetta in cui Don Bosco visse.

Auguri a don Michele Giulio: prete salesiano e decano dei parroci della Valsusa

Si segnala l’articolo apparso il 30 Agosto 2018 su ValsusaOggi (clicca qui per accedere alla pagina) relativo alla ricorrenza che ha visto i festeggiamenti per il novantesimo anniversario di don Michele Giulio, parroco di Salbertrand dal 2001:

VALSUSA, DON MICHELE HA COMPIUTO 90 ANNI:
È IL “DECANO” DEI PARROCI DELLA DIOCESI

SALBERTRAND – Alcune settimane fa la piccola comunità di Salbertrand ha festeggiato i 90 anni di don Michele Giulio, prete salesiano e decano dei parroci della Valsusa. Nato il 9 agosto 1928 a Torino, è stato ordinato sacerdote il 29 marzo 1969. Insieme a don Penna (classe ’23) don Giulio è il sacerdote più anziano della Diocesi di Susa. Il 10 agosto è stato festeggiato in frazione Plan da alcuni membri della comunità parrocchiale: dopo la messa ha tagliato la torta di compleanno e brindato con gioia. Don Michele è in ottima forma e prosegue con passione e impegno la sua missione come parroco di Salbertrand, ricoprendo questo incarico dal 2001.

A scuola, ci torno volentieri!

Si segnala la lettura dell’articolo di Alessandro Antonioli, appassionato docente torinese, circa la sua predilezione per l’insegnamento e il famigerato “ritorno a scuola”.

Perché ho iniziato a insegnare e perché sono felice di tornare a scuola

Quando settembre arriva, di solito porta con sé un sottile velo di malinconia. Per l’estate che finisce, per le avventure vissute con gli amici o in famiglia, per il tuo banco o la tua scrivania che ti aspettano di nuovo. Certo, anche io mi sono goduto questi giorni di riposo. Però mi sento davvero felice di tornare a scuola. Non voglio peccare di hybris né dare a tutti i costi l’impressione del docente perfettino: lo penso davvero. Semplicemente vorrei raccontare perché ho iniziato a insegnare e, di conseguenza, perché sono felice di tornare a scuola. Così come è successo, così come mi sento quando sta per iniziare l’anno scolastico.

Perché ho iniziato a insegnare?

A diciotto anni non avevo esattamente idea di quale fosse la mia vocazione. Ci riflettevo spesso, ma non cavavo un ragno dal buco. A scuola ero bravino nelle materie letterarie, ma non disdegnavo nemmeno quelle scientifiche. Sapevo quali facoltà non avrei voluto frequentare: non bruciava dentro di me il sacro fuoco della medicina, né quello di ingegneria o architettura. O fisica. O matematica. A un certo punto ho smesso di pensare per esclusione e mi sono concentrato sulle mie capacità. E, forse, ho finalmente incontrato le domande giuste. Quali sono le mie passioni? Che cosa mi entusiasma? Quale lavoro svolgerei volentieri per gran parte della mia vita? Come mi vedo tra vent’anni? E, soprattutto: quali talenti potrei mettere al servizio della comunità?

Un viaggio rivelatore

I miei interrogativi faticavano a trovare risposta, anche perché ai miei legittimi dubbi sull’avvenire si aggiungeva l’ansia dell’ultimo anno di liceo. Il tempo di prendere una decisione però incombeva, non potevo rimanere nel limbo degli indecisi. Finita la maturità intrapresi un viaggio in Terra Santa che non mi lasciò più dubbi. Prima di partire avevo pregato e chiesto un segno rivelatore sul mio futuro, ancora molto fumoso e inconsistente ai miei occhi. E così accadde. Mi trovavo a Gerusalemme e giravo per le viottole del mercato, snocciolando a una cara amica, anche lei oggi docente, tutte le possibili facoltà che mi attiravano.

L’amore per la letteratura

Mentre parlavo, non mi ero accorto che mi ero soffermato con particolare enfasi sulla possibilità di studiare la letteratura italiana, latina e greca – delle quali mi ero innamorato al liceo – per insegnarle con passione, in modo da rovesciare quel fastidioso cliché secondo il quale si tratta di materie vecchie, noiose e inutili. Lei mi aveva ascoltato con attenzione e mi aveva risposto così: «Mi hai raccontato di più strade, però ti brillano gli occhi quando parli soltanto di una di queste. E secondo me sai già quale». Finalmente capii: in quel momento la mia vocazione mi sembrava limpida, cristallina. E quindi Lettere Antiche fu.

Ho incominciato l’università con uno specifico desiderio: volevo diventare un professore. La mia famiglia e gli amici più cari mi appoggiavano, ma tanti conoscenti o parenti più lontani si lanciavano in smorfie di sorpresa: «Lettere antiche? Il professore? Ma sei sicuro? E poi come farai a mantenere la tua famiglia? Lo sai che lo stipendio è ridicolo, vero? Ci metterai anni, la strada è lunga! Dopo la laurea presto sarai disoccupato». Non mancava anche il canzonatorio ritornello degli amici ingegneri: «I big Mac ti aspettano!». Insomma, tutto cominciava sotto i migliori auspici.

Una certezza confermata

Durante gli anni di studi, prima in triennale e poi in specialistica, ho maturato la consapevolezza di aver preso la scelta giusta. Tranne qualche rara eccezione, gli esami affrontati mi piacevano molto e i docenti dell’università (spesso ingiustamente bistrattati) alimentavano il mio interesse e la mia cultura. Inoltre, parallelamente alla carriera universitaria procedeva un altro percorso, altrettanto importante e fondamentale: il mio essere educatore in parrocchia e in diocesi. Un cammino durato sette anni, durante i quali ho capito che mi piaceva stare in mezzo ai ragazzi, aiutarli a crescere, puntare su di loro. Per dotarli di strumenti per orientarsi in un mondo che spesso bollano come troppo complesso o difficile. Il ruolo di educatore mi ha insegnato tanto (anche perché non sono mai mancati momenti di formazione) e lo considero complementare a quello del professore: l’insegnante non trasmette solo nozioni, ma anche e soprattutto valori.

Mia sorella Eleonora e la lettura

Perché ho iniziato a insegnare? Più gli anni passavano, più mi convincevo del percorso intrapreso. E spesso scorgevo nel passato segni rivelatori della mia vocazione. Un esempio divertente? La mia prima “alunna” è stata mia sorella Eleonora, a cui a circa sei anni ho insegnato a leggere e scrivere. Io e lei abbiamo due anni di differenza e all’epoca io ormai frequentavo le elementari, mentre lei era rimasta all’asilo. Quello che imparavo a scuola glielo riproponevo a casa, lasciandole addirittura anche dei compiti che lei diligentemente svolgeva. Fogli su fogli pieni di lettere dell’alfabeto e di parole. E, insieme, la lettura di libri per bambini. 

I buoni maestri

Nel corso della mia carriera scolastica, ho vissuto il privilegio di lavorare con alcuni docenti davvero speciali, che hanno lasciato un’impronta profonda e determinante. Alle elementari, la maestra Silvia mi ha trasmesso il gusto per la lettura e per la scrittura. Ancora adesso ricordo la trepidazione con la quale aspettavo il momento in cui, verso la fine della lezione, ci leggeva delle pagine del libro Cipì di Mario Lodi. Alle medie, la professoressa Giusta ha liberato la mia fantasia e la mia penna, mentre della professoressa Poma ammiravo la saggia autorevolezza con cui guidava la nostra classe un po’ turbolenta. Alle superiori il professor Malaspina mi ha insegnato che è giusto pretendere tanto da te stesso se puoi dare tanto, mentre la professoressa Dotta mi ha fatto innamorare della letteratura greca e latina con spiegazioni che avrei ascoltato per ore. Insegnanti diversi con qualità diverse, ma una caratteristica in comune: amavano il loro lavoro e lo svolgevano con grande passione. Così tanta che a volte li guardavo a bocca aperta e pensavo: «Da grande vorrei diventare come loro!».

Ecco perché sono felice di tornare a scuola

Vivo a Torino. Questo è il mio terzo anno da professore e non vedo l’ora di ricominciare. Sono felice di tornare a scuola per rivedere colleghi e, soprattutto, gli allievi. Per incontrare facce nuove e per scoprire quanto sono cresciute o cambiate quelle già note. Mi attendono sfide esaltanti: un nuovo inizio in prima superiore, l’utilizzo di una nuova piattaforma digitale, Alatin, per il latino, i Promessi Sposi in seconda, un percorso didattico innovativo sulla complessità in geografia, la fine di un ciclo in terza media. Entrambi gli istituti in cui insegno – un liceo e una scuola media – sono salesiani: mi piace molto lo stile di don Bosco, è un’idea di scuola che si avvicina molto alla mia. All’ingresso del complesso di Valdocco, dove si trova la scuola media, campeggia una scritta: Qui con voi mi trovo bene: è proprio la mia vita stare con voi. Ecco, sono felice di tornare a scuola perché tra i ragazzi mi trovo bene e perché penso che quello sia il mio posto. Per questo motivo mi alzo volentieri presto al mattino, tengo volentieri lezioni in classe, mi fermo volentieri fino a tardi durante i colloqui con i genitori, lavoro volentieri con gli altri colleghi per migliorare di anno in anno l’offerta didattica ed educativa.

La ridondanza dell’avverbio volentieri non è un errore, è voluta. Perché è così che vivo l’insegnamento: al 100%, senza risparmiarmi, con tutta la mia passione e il mio entusiasmo, ma anche con i miei difetti, che cerco di limare e colmare con una formazione aggiornata e continua. Perché a scuola vado per insegnare, certo, ma anche e soprattutto per imparare.

Lavoro e istruzione: alle persone comuni la laurea serve oppure no?

Si segnala lo speciale “Info Data – Le notizie raccontate con i numeri” della redazione de Il Sole24Ore, dove il giornalista Davide Mancino si è concentrato sul binomio occupazione-titolo di studio, cercando di rispondere alla domanda: alle persone comuni la laurea serve oppure no?

Buona Lettura!

Occupazione e titolo di studio: quello che dobbiamo sapere

Quando viene messo in discussione il valore dello studio, una risposta frequente è tutto sommato non è che poi la laurea sia così importante – e anche questa volta è andata così.

Ma al di là della polemica politica quotidiana, che come sempre capita si accende oggi per spegnersi domani, porsi la questione resta del tutto legittimo. Alle persone comuni la laurea serve oppure no? A domanda secca, in base ai dati disponibili l’unica risposta possibile è: sì, quel titolo rappresenta spesso un punto di forza fondamentale. Già solo guardando al numero di persone che hanno un lavoro il vantaggio di un’istruzione più approfondita non potrebbe essere più evidente. La differenza fra trovare un impiego o meno passa in buona parte da qui, e infatti chi si è fermato a livelli precedenti di studio risulta senza lavoro con estrema frequenza.

Anche solo fra diplomati e laureati, raccontano i dati Istat del 2017, nel tasso di occupazione passa una differenza di 14 punti percentuali – centinaia di migliaia di posti di lavoro in più. Se poi andiamo a guardare a chi ha la licenza media o ancora meno il quadro diventa ancora più grave, e spesso lavora metà delle persone che ne avrebbero la possibilità e – al sud – anche molto meno.

Anche da un punto di vista geografico studiare fa la differenza. Certo la situazione del lavoro nel meridione resta ancora oggi difficilissima, ma senza una laurea lo diventa ancora di più. Quale che sia la situazione di partenza, essa rappresenta sempre un vantaggio non da poco.

Rispetto ai diplomati (o meno), i laureati hanno anche retto meglio l’impatto della crisi. Con la recessione la fetta di persone occupate è calata un po’ ovunque, è vero, ma per chi aveva almeno questo titolo la perdita è stata minore. In più per i laureati la ripresa è stata decisamente più rapida, e anzi il nord sembra tornato praticamente ai livelli pre-crisi.

Alle persone con gli altri titoli di studio, d’altra parte, per tornare anche solo dov’erano una decina di anni fa manca ancora parecchio.

Dove la situazione appare più sfumata è nel caso dei giovani. Fra chi ha da 25 a 34 anni, e non da oggi, la differenza fra laureati e diplomati risulta molto piccolaC’è addirittura stato un periodo, intorno alla metà degli anni 2000, in cui i secondi avevano un lavoro appena più spesso dei primi. Di recente però il tasso di occupazione dei laureati è risalito piuttosto in fretta, superando quello dei diplomati che invece è piatto da alcuni anni.

Questo però non vuol dire che i vantaggi della laurea non ci siano: solo che perché si sviluppino ci vuole del tempo. E in effetti già passando alla classe di età seguente – cioè di chi ha almeno 35 anni – la percentuale di lavoratori laureati diventa ben superiore. Questo è un problema soprattutto per le famiglie povere, che in genere hanno meno possibilità di investire in questo titolo di studio e sulle quali comunque l’attesa che il titolo dia i suoi frutti diventa più gravosa.

Le radici di questa lentezza, nel passaggio dalla laurea al lavoro, possono essere diverse. Da un lato il problema potrebbe stare nell’università stessa, in cui quanto viene studiato non per forza combacia con quanto serve alle imprese. È anche possibile che parte della difficoltà risieda nelle scelte degli studenti stessi, che a monte possono dirigersi verso corsi di laurea meno appetibili per le aziende e il lavoro concreto. Oppure potrebbero essere le imprese stesse a non far tesoro delle competenze dei laureati, preferendo concentrarsi sul lavoro a basso costo piuttosto che su quello qualificato.

Resta però una domanda: come mai allora in Italia ci sono meno laureati che altrove? E da dove arriva la sfiducia verso l’istruzione? Per capire una delle possibili ragioni, può tornare utile pensare alla laurea come se fosse un investimento qualunque: una casa, un macchinario, una nuova attrezzatura, un’auto. Studiare non è gratis, anzi, e perché la laurea convenga deve generare un ritorno decente rispetto al capitale investito.

Troviamo così che comunque la laurea resta un investimento di tutto rispetto, anche se in diversi casi con risultati inferiori rispetto agli altri paesi sviluppati – e forse è questo il motivo che spiega la differenza fra l’Italia e il resto del gruppo.

L’OCSE, per esempio, ha provato a stimare proprio questo rendimento per numerose nazioni, trovando che rispetto al solo diploma esiste un vantaggio, ma nel caso delle donne è minore che altrove. Sempre l’organizzazione parigina ha mostrato che i salari dei laureati sono sì superiori, ma sempre meno della media.

Un vantaggio più piccolo, magari, ma pur sempre non una cosa da poco: e come che sia non esiste la minima evidenza che studiare sia inutile – su questo non c’è alcun dubbio.

 

Sul sito de Il Sole24Ore, si trova l’approfondimento completo delle info grafiche.

Don Bosco a Caselle: il nuovo libro di Gianni Rigodanza

Si segnala, qui di seguito, la notizia a cura di Elis Calegari apparsa sul portale Cose Nostre, il mensile indipendente di informazione del casellese,  il 24/08/2018 circa la pubblicazione di un libro dal titolo “Don Bosco A Caselle” che ritrae alcuni scorci della vita del Santo dei giovani a Caselle e non solo:

“Don Bosco a Caselle” è il titolo del nuovo libro di Gianni Rigodanza. L’opera dopo essere stata registrata nel sistema bibliotecario di Ivrea e del Canavese, passa negli scaffali della Biblioteca civica di Caselle, nel settore di storia locale a disposizione dei lettori. Esce di casa per la prima volta ma è tranquilla perché sa di trovarsi in buona compagnia, col posto fisso. E non è in vendita.

La bibliografia sulla vita e le opere di don Giovanni Bosco è sterminata, sono decine e decine le pubblicazioni in merito. Tuttavia l’idea di quest’opera parte dal fatto che nell’archivio storico comunale di Caselle c’è ed è stata riscoperta una lettera del 1882 di don Bosco scritta al sindaco di Caselle Torinese inerente la cospicua eredità ricevuta dal barone Bianco di Barbania. A questa segue la risposta ufficiale della Giunta comunale. Nulla di celestiale negli scritti, anzi il contenuto è molto, molto terreno. Da ricordare che il Santo soggiornò diverse volte a Caselle, specie nella borgata Sant’Anna, sia per ritiri spirituali che per riposo. Quindi si tratta di storia locale, di narrazione del territorio, di un altro quadro dello straordinario Ottocento casellese che entra e sfida il romanzo storico con la sua ricchezza di accadimenti.

Il libro è stato diviso in tre parti: la prima è una carrellata sulla vita e le opere di don Bosco; la seconda sui soggiorni del santo a Caselle; e infine la terza sulla lettera al sindaco e sulle relative risposte.
Non c’è nulla di straordinario, di nuovo, in questo raccontare uno scorcio di un grande santo sociale che ha sfidato il mondo della Torino ottocentesca e sabauda per dare speranza ai giovani delle periferie, del sottobosco sociale.

Don Bosco a Caselle è una raccolta di dati e di immagini, 86 pagine, che se non altro rimarranno per sempre a disposizione nella nostra Biblioteca. Per Gianni Rigodanza questa storia è stata anche l’occasione di un altro piccolo viaggio nel nostro archivio storico: una miniera di documenti, di notizie, di storie che attraversano secoli e secoli (dal 1310 al 1951) di vita della nostra comunità.

Stati Uniti – “Salesian Missions” conquista un posto nella prestigiosa lista di “GreatNonprofits 2018”

“Salesian Missions”, la Procura Missionaria salesiana di New Rochelle, è tra le prime organizzazioni ad aggiudicarsi un posto nella prestigiosa classifica di “GreatNonprofits 2018”. Questo premio viene assegnato a tutte quelle organizzazioni no-profit i cui benefattori e volontari hanno espresso storie eccezionali sul loro operato. Queste storie vengono condivise con GreatNonprofits, che le utilizza per ispirare più donatori e volontari possibili.

GreatNonprofits è il sito web leader per trovare, rivedere e condividere informazioni sulle organizzazioni no-profit

“È un grande onore entrare nella lista di GreatNonprofits 2018 – ha commentato don Mark Hyde, Responsabile della Procura di New Rochelle –. Il nostro lavoro non sarebbe stato possibile senza i milioni di americani, sia del settore pubblico, sia di quello privato, che con le loro donazioni hanno reso realizzabile il nostro programma”.

La Procura Missionaria di New Rochelle si è distinta come organizzazione per il suo programma efficace e per i servizi offerti a bambini, famiglie e comunità, nel combattere la povertà, la sofferenza e la disperazione.

I Salesiani portano aiuto alle famiglie povere in oltre 132 Paesi in tutto il mondo e assistono i giovani più sfortunati, garantendo loro una preparazione scolastica o nel campo del commercio e dell’agricoltura. Forniscono inoltre aiuti umanitari, sostegno infrastrutturale, iniziative per la pulizia dell’acqua e servizi nutrizionali e sanitari.

I programmi salesiani si concentrano sulla ricostruzione delle vite e sull’aiutare i giovani a diventare autosufficienti. Ma i Salesiani sanno che per fare in modo che gli studenti possano concentrarsi sulla scuola, devono garantire loro il soddisfacimento dei bisogni primari, come alloggi, vestiario, alimentazione, salute, acqua pulita e servizi igienici.

Più di 3 milioni di giovani hanno ricevuto aiuti grazie alla Procura Missionaria di New Rochelle e oltre 6 milioni di americani, grazie alle loro generose donazioni, hanno contribuito a rendere possibili questi interventi.

Per maggiori informazioni sulla classifica 2018 di GreatNonprofits è possibile visitare il sito: https://greatnonprofits.org/

Maggio 2019 – II edizione della Scuola per Delegati Ispettoriali per la Pastorale Giovanile Salesiana

Si pubblica la notizia di ANS – Agenzia Info Salesiana – relativa alla “II edizione della Scuola per Delegati Ispettoriali per la Pastorale Giovanile Salesiana”.

 

 

Notizia pubblicata su ANS

A tre anni dalla prima edizione, dal 6 al 18 maggio 2019 il Dicastero per la Pastorale Giovanile Salesiana torna a proporre una seconda edizione della Scuola per i Delegati per la Pastorale Giovanile rivolta a tutti quei Salesiani che sono stati nominati recentemente Delegati Ispettoriali per la Pastorale Giovanile Salesiana. Potranno partecipare anche quei Salesiani che si preparano ad assumere questa responsabilità in futuro.

Nella prima edizione, che si tenne a Roma nel maggio 2016, parteciparono circa 50 Salesiani provenienti da più di 40 Paesi diversi. Anche questa seconda edizione vuole essere espressione dell’internazionalità della Scuola. Le lingue ufficiali di lavoro saranno l’inglese, l’italiano e lo spagnolo. Sarà disponibile la traduzione simultanea, e i materiali saranno disponibili nelle tre lingue ufficiali.

La novità, tuttavia, è che la prossima edizione della Scuola si terrà al Colle Don Bosco e a Valdocco. Durante la prima settimana, quindi, i partecipanti saranno ospiti del Colle Don Bosco e seguiranno alcuni momenti direttamente nei luoghi Salesiani circostanti. La seconda e ultima settimana di lavoro, invece, si terrà a Valdocco. Anche qui, i partecipanti avranno modo di confrontarsi con la storia di Don Bosco e le risposte Salesiane alle sfide di oggi.

La Scuola si propone di promuovere una visione approfondita degli elementi fondamentali del patrimonio salesiano; fornire competenze adeguate e abilità chiave per l’animazione, la gestione e il coordinamento della pastorale giovanile ispettoriale; e, infine, favorire la crescita personale del Delegato, attraverso la riflessione sul proprio vissuto, l’interiorizzazione e la rielaborazione personale delle proprie motivazioni.

La metodologia dei lavori rifletterà la multidisciplinarietà della Scuola, alternando conferenze, tempi di confronto, dibattito, lavoro a gruppi, tempo per lo studio personale, momenti di cultura e spiritualità. L’organizzazione modulare prevedrà momenti dedicati a fare sintesi delle conoscenze teoriche, approfondimenti a partire dall’esperienza pratica e focus sul “saper fare” (know-how). Alcuni moduli, inoltre, saranno dedicati alla cura dello stile di vita e degli atteggiamenti personali del Delegato Ispettoriale per la Pastorale Giovanile Salesiana. Al termine di ogni giornata verrà proposto ad ogni partecipante di dedicare del tempo alla redazione di un “portfolio” personale.

Il numero di partecipanti è limitato, per garantire un efficace svolgimento della Scuola, secondo la metodologia sperimentata nella prima edizione. Occorre, pertanto, iscriversi il prima possibile per essere sicuri di potervi partecipare.

Per maggiori informazioni è possibile rivolgersi ai contatti indicati nella locandina ufficiale: rcursi@sdb.org