Il Poster della Santità Salesiana – 2018

(Articolo tratto da ANS – Agenzia Info Salesiana)

In occasione del secondo Seminario di promozione delle cause di beatificazione e canonizzazione della Famiglia Salesiana, che si terrà a Roma dal 10 al 14 aprile 2018, è stato aggiornato il Poster della Santità Salesiana. Rispetto all’ultima edizione del 2014 ci sono le novità accadute in questi anni: la beatificazione di don Titus Zeman, la Venerabilità di don Giuseppe Arribat, di mons. Stefano Ferrando, di don Francesco Convertini, di don José Vandor e di mons. Ottavio Ortiz Arrieta e i nuovi Servi di Dio don Rodolfo Lunkenbein e Simão Bororo.

In totale la Postulazione riguarda 169 persone di cui 9 Santi, 118 Beati, 16 Venerabili e 26 Servi di Dio. Complessivamente le cause seguite sono 51.

La progettazione grafica è stata curata dal signor Andrea Cugini, della Scuola Grafica Salesiana di Milano, con la collaborazione di don Erino Leoni, Direttore del Postnoviziato di Nave (BS).

Il poster con le immagini dei Santi, Beati, Venerabili e Servi di Dio della Famiglia Salesiana presenta foto originali che narrano la realtà dentro la quale questi uomini e donne hanno detto il loro sì pieno a Dio e all’umanità. Attraverso la visione reale dei loro volti è possibile uscire dalle forme di una certa iconografia tradizionale, per ricuperare la vocazione universale alla santità dentro la trama della vita quotidiana.

“Vederli uno accanto all’altro mostra quanto la nostra breve storia sia già costellata da una grande quantità di santi e candidati alla santità – ha commentato don Pierluigi Cameroni, Postulatore Generale per le Cause dei Santi della Famiglia Salesiana –. La loro vicinanza e visibilità provocano alla meraviglia e alla gratitudine e stimolano all’emulazione, come ha ricordato Papa Francesco in occasione della solennità di Tutti i Santi del 2017: ‘I santi non sono modellini perfetti, ma persone attraversate da Dio. Possiamo paragonarli alle vetrate delle chiese, che fanno entrare la luce in diverse tonalità di colore. I santi sono nostri fratelli e sorelle che hanno accolto la luce di Dio nel loro cuore e l’hanno trasmessa al mondo, ciascuno secondo la propria tonalità. Ma tutti sono stati trasparenti, hanno lottato per togliere le macchie e le oscurità del peccato, così da far passare la luce gentile di Dio. Questo è lo scopo della vita: far passare la luce di Dio, e anche lo scopo della nostra vita’”.

È possibile scaricare il poster originale da ANSFlickr.

Il punto di riferimento della GMG 2019? Il Valdocco d’America

Il progetto della soprannominata “Valdocco d’America” a Panama, un complesso ispirato a quello di Maria Ausiliatrice a Torino che avrà il compito di irradiare la spiritualità di San Giovanni Bosco in tutta l’America Latina, si prevede sarà ultimato nel 2021.

Aci Stampa, l’agenzia di notizie cattolica, pubblica alcuni dettagli del progetto con un’articolo, riportato qui di seguito, a cura di Andrea Gagliarducci.

Il punto di riferimento della GMG 2019? Il Valdocco d’America

PANAMA , 04 aprile, 2018 / 1:00 AM (ACI Stampa).-  Panama è il luogo scelto da Papa Francesco per la Giornata Mondiale della Gioventù del 2019. Ed è anche il luogo scelto dai Salesiani per costruire la “Valdocco d’America”, un complesso che ricorda quello di Santa Maria Ausiliatrice a Torino e ha l’ambizioso compito di irradiare la spiritualità di San Giovanni Bosco in tutta l’America Latina.

L’appellativo di “Valdocco in America” non è di poco conto, per la famiglia Salesiana. Nella Basilica di Santa Maria Ausiliatrice, a Valdocco, ci sono le spoglie di San Giovanni Bosco. Fu un’opera che Don Bosco volle fortemente, e che poi fu ulteriormente ingrandita nel 1934, con la canonizzazione. Si può dire che è il centro della spiritualità salesiana, il luogo nelle periferie di Torino dove il santo radunò i giovani e diede vita alla sua opera.

Una spiritualità salesiana che ora troverà una casa a Panama. Centro del progetto è la Basilica minore intitolata a Don Bosco, nel distretto di Calidonia, a Panama City. E, come nella tradizione salesiana, la basilica non sarà sola: avrà un oratorio e delle scuole, in un complesso che è al tempo stesso devozionale e sociale, con una particolare attenzione per quanti i giovani sono in difficoltà e a rischio.

Il progetto è cominciato nel 2017, e si prevede che sarà completato nel 2021. Ma la Basilica si candida già ad essere il cuore pulsante della prossima Giornata Mondiale della Gioventù.

L’ispirazione è nata nel 2016, dopo che Padre Angel Fernandez Artime, rettore maggiore dei salesiani, visitò panama e trovò nell’affetto e la devozione dei salesiani nei confronti di Don Bosco l’ispirazione per lanciare il progetto e trasformare la Basilica nella Valdocco d’America.

Durante il viaggio, il rettore maggiore lasciò anche un cofanetto con delle reliquie di Don Bosco, che ora è collocato in una nuova cappella da poco costruita.

Come contrastare l’emigrazione illegale? Un esempio, con l’opera dei Salesiani in Nigeria

Nella periferia di Ijebu Ode, città nigeriana che conta circa un milione di abitanti, vive, insieme a due confratelli, padre Italo Spagnolo, salesiano, 77 anni, di cui 36 trascorsi in Nigeria.

Ecco l’articolo, a cura della Redazione de “Il Secolo XIX” e firmato da Cristina Uguccioni, che ben delinea la situazione in Nigeria , che prende l’opera dei salesiani in Nigeria come esempio paradigmatico dell’impegno della Chiesa Cattolica per contrastare il fenomeno dell’emigrazione illegale.

 

La vita tra cristiani e musulmani a Ijebu Ode

«Aiutiamoli a casa loro» è una espressione che ricorre sovente nel dibattito italiano a proposito dei migranti che giungono dai Paesi più poveri e provati dell’Africa. Chi – da sempre – li ha aiutati a casa loro – e continua instancabilmente a farlo – è la Chiesa cattolica che in Africa ha fondato e gestisce migliaia di scuole, università e ospedali, ha avviato migliaia di imprese per e con la popolazione, e promosso iniziative di ogni genere per sostenere le persone e consentire loro di vivere dignitosamente. Un’opera fine di cura che ha risollevato la vita di milioni di esseri umani, un’opera che prosegue, giorno dopo giorno. In questi ultimi anni, segnati da un esodo imponente di giovani africani verso le coste italiane, la Chiesa si adopera per fermare l’emigrazione illegale spiegando ai giovani tutti i pericoli cui si esporranno durante il viaggio e le difficoltà che incontreranno una volta giunti in Europa. Esempio paradigmatico di questo impegno è l’opera dei salesiani in Nigeria.

Le scuole dei salesiani

Nel sud-ovest del Paese, nella periferia di Ijebu Ode – città con un milione di abitanti equamente divisi tra musulmani e cristiani (l’8% dei quali sono cattolici) – vive insieme a due confratelli padre Italo Spagnolo, salesiano, 77 anni, di cui 36 trascorsi in Nigeria. «I vescovi di questo territorio, che hanno mostrato di apprezzare particolarmente le nostre scuole professionali, hanno affidato a noi salesiani alcune parrocchie e la formazione umana e religiosa dei giovani», racconta. «Attualmente abbiamo in progetto di costruire cinque scuole professionali che si aggiungeranno alle tre già esistenti che hanno quasi 600 studenti cristiani e musulmani».

La disoccupazione

A Ijebu Ode, dove padre Italo è giunto tre anni fa, i salesiani sono impegnati in parrocchia e, terminati tutti gli adempimenti burocratici, stanno per iniziare la costruzione di un grande istituto tecnico. «Il nostro obiettivo è garantire una formazione umana e professionale inappuntabile affinché i ragazzi possano avere un futuro buono e riescano a trovare lavoro in un Paese che ha un tasso di disoccupazione giovanile elevatissimo. Le scuole salesiane si sono guadagnate la fama di realtà educative serie e affidabili ed io sono molto orgoglioso dei nostri diplomati (ormai qualche migliaio): il 60% lavora anche con mansioni di responsabilità nelle imprese nigeriane, il 10% ha avviato una attività in proprio mentre il 20% sta proseguendo gli studi».

Scoraggiare l’emigrazione illegale

Al fine di scoraggiare l’emigrazione padre Italo e i suoi confratelli organizzano numerosi incontri nelle parrocchie e nelle scuole (non solo cattoliche) per spiegare ai ragazzi e ai loro genitori i pericoli mortali che questi viaggi illegali comportano e i disagi, le sofferenze, le umiliazioni che i migranti sono destinati a patire quando riescono a raggiungere il vecchio continente. «Cerchiamo in tutti i modi di scoraggiare questi viaggi presentando anche la testimonianza di giovani nigeriani che, dopo gli studi, sono riusciti a trovare lavoro qui. Purtroppo, nonostante questa capillare opera di dissuasione che vede coinvolte insieme ai noi alcune associazioni locali (che hanno membri anche musulmani), l’emigrazione continua a ritmi sostenuti a causa della disoccupazione e della presenza di persone senza scrupoli che invitano i ragazzi a partire, fornendo loro passaporti falsi a poco prezzo e illudendoli su ciò che li aspetta in Europa. La nostra è una battaglia difficile ma confidiamo che il seme buono da noi gettato porterà frutto».

I rapporti con i musulmani

In questa zona del sud-ovest della Nigeria il vero problema sociale è la mancanza di lavoro non certo la convivenza tra cristiani e musulmani, sottolinea padre Italo. Le relazioni tra i fedeli delle due religioni, infatti, sono buone, fondate sul rispetto reciproco: «Alla fine dello scorso il proprietario dell’appartamento preso in affitto da noi salesiani mi ha invitato a un incontro dei proprietari di casa (cristiani e musulmani): mi è stato chiesto di guidare la preghiera di apertura e di partecipare alla discussione.

In questo territorio le famiglie sono a volte composte da persone cristiane e musulmane e ciò favorisce rapporti sereni e una convivenza pacifica. La settimana scorsa un membro del consiglio pastorale della nostra parrocchia mi ha invitato a benedire la casa che aveva appena finito di costruire con i suoi tre fratelli: quando sono giunto ho scoperto che tutti suoi familiari erano di fede islamica. Sono stato accolto molto cordialmente e abbiamo pregato insieme. Qui le conversioni al cattolicesimo non sono ostacolate: il nostro stesso vescovo proviene da una famiglia musulmana».

L’amico imprenditore

Fra gli amici musulmani di padre Italo vi è Alaji Olufemi Bakre: 58 anni, sposato con figli, è un imprenditore di Ijebu Ode che opera nel settore edilizio fornendo ogni genere di materiale da costruzione. Intrattiene buoni rapporti con i cristiani, molti dei quali – dice – sono diventati anche «cari amici». E aggiunge: «Padre Italo ed io ragioniamo insieme su come far progredire il nostro territorio e insieme abbiamo ad esempio contribuito a riparare la strada di accesso all’area dove abitiamo eliminando le numerose buche presenti». A proposito delle relazioni tra cristiani e musulmani, afferma: «Qui in città sono cordiali, amichevoli, perfette. Lo prova il fatto che più del 30% degli studenti delle scuole private cattoliche sono di fede islamica. Nella nostro sobborgo si vive insieme come una famiglia: noi musulmani facciamo visita ai cristiani in occasione del Natale e loro ricambiano la visita quando celebriamo il nostro Ileya Festival. Qui non accade ciò che invece capita altrove in Nigeria con gli allevatori di bestiame».

Le mandrie di mucche

Il problema cui fa riferimento Alaji, spiega padre Italo, colpisce soprattutto la zona centrale del Paese: «Gli allevatori di bestiame, in prevalenza di fede islamica, vanno in cerca dei pascoli migliori per le loro mucche e lasciano che gli animali invadano i campi coltivati dai contadini, in prevalenza cristiani. Questo fenomeno ha causato molti attriti e anche diversi scontri armati che hanno provocato decine di morti, la distruzione di numerosi villaggi e la fuga di moltissime persone. Non si tratta di una diatriba di carattere religioso ma indubbiamente ha creato tensioni fortissime: i cristiani hanno l’impressione che si stia compiendo una invasione silenziosa e si sentono frustrati perché a loro giudizio il governo non sta intervenendo nel modo migliore. Recentemente i vescovi cattolici nigeriani hanno fatto visita al Presidente Buhari e gli hanno presentato con grande chiarezza questo e gli altri problemi della nazione facendosi voce di chi non ha voce. Nel nord del Paese, intanto, imperversa Boko Haram che continua a seminare morte e distruzione. Ogni area della Nigeria ha peculiarità e problemi specifici: è dunque sbagliato generalizzare quando si parla di questo Paese che è tre volte più grande dell’Italia e ha 180 milioni di abitanti appartenenti a etnie che poco hanno in comune tra loro».

Il futuro

Riflettendo sul futuro, Alaji conclude: «Le relazioni serene e pacifiche tra cristiani e musulmani nella mia città hanno favorito la fondazione della scuola materna ed elementare cattolica e oggi siamo lieti che i salesiani si apprestino a costruire un istituto tecnico di alto livello. Vorrei che la Nigeria diventasse una nazione industrializzata, capace di produrre».

Piccoli segnali di “resurrezione” dalla Siria

(Nella foto: Domenica delle Palme nella chiesa di San Giovanni Bosco, a Damasco)

Si propone la lettura dell’intervista a cura della redazione del quotidiano internazionale online IN TERRIS con don Mounir Hanachi, che dopo la lettera pubblica delle scorse settimane (clicca qui per leggere la lettera) per denunciare “la manipolazione dell’informazione” in Occidente riguardo ciò che accade in Siria, oggi legge la riapertura del suo oratorio salesiano di Damasco, che accoglie 1.300 ragazzi, avvenuta la Domenica delle Palme dopo la sospensione delle attività a febbraio, come un segnale di resurrezione.

La Via Crucis dei cristiani in Siria

La testimonianza di don Mounir Hanachi, direttore del centro salesiano a Damasco

Per molti cristiani nel mondo la salita sul Calvario è una realtà vissuta quotidianamente, sulla propria pelle. Per i cristiani in Siria la “passione” dura da otto lunghi anni. In quel Paese martoriato le stazioni della Via Crucis sono storie di vita che è possibile leggere negli sguardi della gente o nei loro racconti carichi di trasporto emotivo.

Si legge l’inquietudine per le condanne a morte decretate dai terroristi e dall’indifferenza occidentale. Si avverte il batticuore per gli ultimi gesti di affetto in famiglia prima delle separazioni forzate. Si percepisce l’emozione per gli episodi di grande umanità e di altruismo. Si piange per le migliaia di vittime del conflitto. Ma poi c’è anche la “risurrezione”. I cristiani di Siria ne sono convinti. Qualche segno inizia a farsi largo a mo’ di un raggio di luce nell’oscurità, come la riapertura dell’oratorio salesiano di Damasco, che accoglie 1.300 ragazzi, avvenuta la Domenica delle Palme dopo la sospensione delle attività a febbraio. In Terris ne ha parlato con don Mounir Hanachi, 34enne direttore del centro salesiano della parrocchia di San Giovanni Bosco, nella Capitale.

Don Mounir, che senso assume la riapertura dell’oratorio?
“È stata una gioia immensa. Può immaginare la felicità dei ragazzi nel riappropriarsi di momenti di aggregazione, di studio, di sport. In questi anni di guerra non era la prima volta che sospendevamo le attività, ma mai ci era capitato di doverlo fare per cinque settimane di seguito. Ringraziamo il Signore e quanti ci hanno sostenuto con la preghiera. E ringraziamo anche l’esercito siriano e i suoi alleati per la liberazione della Ghouta”.

Per cinque anni, Ghouta Est è stata occupata dai “ribelli”. Cosa ha significato per voi abitanti di Damasco questa presenza?
“Sono stati cinque anni all’insegna del sangue. Il suono dei colpi di mortaio e dei missili era una presenza costante, che ha seminato morte. Ci sono stati tanti bambini tra le vittime, abbiamo perso diversi ragazzi dell’oratorio. Oggi in Siria non trovi una famiglia che non abbia perso almeno una persona cara o che non si sia divisa, perché in molti sono fuggiti all’estero. Esperienze che ho vissuto anch’io: mio nonno è stato rapito mentre viaggiava lungo l’autostrada, gli sono stati sparati contro dei proiettili, siamo riusciti a riscattarlo pagando una cifra enorme. Ci vorranno almeno due generazioni per sanare le ferite”.

Questi “ribelli” chi sono?
“Sappiamo tutti chi sono i ‘ribelli’: gruppi armati composti da molte persone venute dall’estero. Hanno ricevuto il sostegno da alcuni Paesi occidentali e del Golfo. Ma questo ormai è chiarissimo”.

Nelle scorse settimane ha scritto una lettera pubblica per denunciare “la manipolazione dell’informazione” in Occidente riguardo ciò che accade in Siria. A cosa si riferiva?
“Prima di tornare in Siria vivevo in Italia. Tutti i giorni avevo modo di leggere come venivano manipolate le informazioni sul conflitto pur di gettare discredito sul governo siriano. Leggevo i siti siriani, raccoglievo le testimonianze dirette, e poi vedevo che tutto ciò era stato totalmente stravolto dai media italiani ma non solo. E questo è avvenuto per anni. Il ruolo del giornalista dovrebbe essere quello di riportare i fatti, non di fare propaganda”.

La manipolazione dei media ha ferito il popolo siriano?
“Moltissimo. La delusione è palpabile. Così come la frustrazione qui da noi, perché non si riusciva a rompere il silenzio sulla sofferenza vissuta da 8milioni di persone a Damasco durante l’occupazione del Ghouta”.

Come valuta l’atteggiamento della comunità internazionale in questi otto anni di guerra?
“Come siriani non crediamo più alla comunità internazionale: sono state spese tante parole, ma pochi fatti. Crediamo soltanto all’esercito nazionale siriano, che ha il diritto di difendere il popolo siriano”.

Nel contesto tragico della guerra avvengono anche episodi di grande umanità?
“È dura, ma di episodi ne avvengono molti. Ci sono momenti di forte crisi, di smarrimento. Però la fede cristiana in Siria è davvero forte. I ragazzi dell’oratorio, le loro famiglie consegnano tutto al Signore e vanno avanti con la speranza che il domani sarà migliore. Tra fratelli nella fede ci trasmettiamo il coraggio a vicenda”.

Che senso assume la Settimana Santa per chi, come voi, vive in una terra martoriata?
“Dalla Domenica delle Palme siamo entrati in un clima di grande devozione, con processioni e momenti di preghiera comunitaria in chiesa. Dopo anni di paura nel manifestare pubblicamente la propria fede, finalmente si sta tornando alla normalità”.

Dopo la “passione”, si avverte già l’arrivo della “resurrezione”…
“Esattamente. Se torna la pace, riprendono anche le attività e dunque l’opportunità per la gente di non essere costretta ad emigrare”.

Adozione e speranza: un viaggio nel libro di Paolo La Francesca con Amici di Don Bosco

In edicola, a partire da Sabato 31 Marzo 2018, nella nuova edizione de “La Voce e il Tempo“, settimanale della diocesi di Torino, si trova il seguente articolo – curato da Marina LOMUNNO – relativo alla presentazione del libro, tenutasi nei giorni scorsi presso la sede dell’Associazione “Amici di don Bosco”, «Il profumo della speranza» edito da Armando Editore, che racconta il viaggio nell’adozione di Paolo La Francesca alla ricerca delle proprie radici.

 

 

AMICI DI DON BOSCO – PRESENTATO IL VOLUME DI PAOLO LA FRANCESCA

Le adozioni, aroma di speranza

Il profumo della speranza può inondarti all’improvviso, in un momento buio della vita con una scia persistente che ti indica una luce in fondo al tunnel: è la storia di Paolo La Francesca, 30 anni, sposato, una figlia, poliziotto alla Questura di Torino , nato in Brasile e adottato a 20 giorni da una famiglia italiana di Trapani. La sua testimonianza che ha raccontato in un libro (consigliato a tutti i genitori e i figli adottivi) intitolato appunto «Il profumo della speranza» (Armando Editore, Roma 2017), è stata al centro del secondo appuntamento dell’itinerario sulla ricerca delle proprie radici promosso dall’Associazione Amici di don Bosco.

L’incontro, molto partecipato, si è tenuto sabato 24 marzo in via Maria Ausiliatrice 32 a Torino, presso la sede dell’Associazione, accreditata dal Governo italiano per le adozioni internazionali in India, Colombia, Filippine, Mongolia e Benin. Un percorso aperto a tutti gli interessati e pensato per sostenere le famiglie adottive, i figli adolescenti e quanti sono coinvolti nelle storie di adozione nel momento delicato della ricerca delle origini e della doppia appartenenza.

Un tema molto delicato, come è stato sottolineato nell’introduzione da Daniela Bertolusso, di amici di Don Bosco «in un tempo dove alcuni organi di informazione – anche sull’onda dei presunti facili ritrovamenti tramite i social media di genitori naturali tra parte degli adottati – orientano l’opinione pubblica a pensare che tutte le storie dei ricongiungimenti siano a lieto fine…». Ma, come ha raccontato Paolo La Francesca alle numerose famiglie presenti con i loro figli in adozione, l’inquietudine che ogni figlio adottato si porta dentro, soprattutto se nato in un paese lontano, ha bisogno di tempo per trasformarsi da sofferenza in speranza. E, soprattutto, c’è bisogno di rispetto per l’adottato che ha diritto a sapere la verità sulle sue origini; per la scelta della madre e del padre (quando c’è) naturali che spesso non hanno alternative a far crescere il proprio figlio in un’altra famiglia; e rispetto per i genitori adottivi che hanno cresciuto un figlio o una figlia che ad un certo punto sembra voler scappare.

Paolo La Francesca narra con lucidità e fermezza, senza nascondere luci ed ombre e la paura di essere abbandonato due volte (tutte le storie non sono a lieto fine!), il percorso che l’ha condotto all’incontro con la mamma di nascita e i suoi fratelli e dell’integrazione tra le sue due famiglie. Ma ci sono voluti 30 anni, il superamento – grazie a due genitori pazienti e tenaci, delle crisi adolescenziali – dei silenzi, delle porte sbattute, dei «tanto non siete mia madre e mio padre…». E poi l’incontro con la donna giusta e la nascita di una bambina che ha convinto Paolo ad andare in Brasile «a cercare la seconda nonna».

Una vita insomma, un percorso di conoscenza di se stesso prima che delle sue doppie origini. E che, a 30 anni, fa scrivere a Paolo alla fine del suo libro, dopo aver ritrovato la madre che l’ha partorito e riabbracciato al ritorno dal Brasile la madre adottiva: «L’amore di una mamma è sempre amore, è un assoluto che può sbocciare e spandere il suo profumo nei modi più diversi, al di là dei modi in cui si diventa mamme, al di là dei vissuti differenti, al di là di tutto».

Deliberazioni sul Capitolo Generale 28: “Quali Salesiani per i giovani di oggi?”

Don Ángel Fernández Artime, Rettor Maggiore, presenta alla comunità della Sede Centrale Salesiana le decisioni prese insieme al Consiglio Generale a riguardo del Capitolo Generale 28 (CG28) in un video di ANS – Agenzia Info Salesiana:

Spagna – Giovani italiani lavorano come volontari nelle presenze salesiane

Si riporta l’articolo di ANS – Agenzia Info Salesiana relativo al programma dedicato ai giovani italiani tra i 18 e i 30 anni che scelgono volontariamente di spendere un anno di vita al servizio in un progetto sociale, educativo, culturale o di altro tipo, nel proprio Paese o all’estero. È un programma a cui quest’anno partecipano circa 30.000 giovani, dei quali 1000 circa impegnati nelle opere salesiane di tutta Italia, e una trentina nei progetti salesiani in Spagna.

 

Nel corso di quest’anno 30 giovani italiani svolgono il loro Servizio Civile in progetti sociali e per il tempo libero dei Salesiani in Spagna. Si tratta di un’esperienza che è iniziata in Spagna nel 2003.

Nei giorni 7 e 8 marzo, si è svolto a Siviglia un incontro con i responsabili del Servizio Civile Universale Italiano in ambiente salesiano. La riunione, organizzata dalla Delegazione della Pastorale Giovanile, ha visto la partecipazione di Chiara Diella, Tecnica del Servizio Civile all’estero, e di don Giovanni d’Andrea, SDB, Presidente di “Salesiani per il Sociale – Federazione SCS/CNOS”, e ha avuto lo scopo di guidare e sostenere il lavoro dei responsabili dei progetti sociali che già da anni sono inseriti nel programma.

Dal 2003, don Santi Domínguez, responsabile dei Centri Giovanili presso il Centro Nazionale per la Pastorale Giovanile, è anche incaricato per il Servizio Civile italiano; si occupa della selezione dei giovani che vanno a lavorare presso le opere salesiane in Spagna e partecipa ai vari momenti formativi che questi giovani realizzano in Italia.

“Poter contare su giovani italiani, che spesso non ci conoscono, è un’esperienza che ci arricchisce. Arricchiscono i nostri centri con un’altra cultura, molto simile, ma allo stesso tempo diversa, e ci aprono a nuove esperienze. Il contatto con i Salesiani e i responsabili italiani è molto fluido e arricchente” ha osservato don Domínguez.

Il Servizio Civile è un programma promosso dal governo italiano, che ha le sue radici nelle forme di servizio sociale che fino a qualche anno fa erano alternative ed obbligatorie in caso di obiezione di coscienza al servizio militare. Dopo l’abrogazione della leva militare obbligatoria lo Stato ha continuato ad assegnare delle risorse per la prestazione di questi servizi sociali e ha definito il Servizio Civile come quell’attività il cui fine ultimo è “la difesa della Patria a partire dai valori di solidarietà, cooperazione, educazione civica, sociale, culturale, ambientale e professionale dei giovani”.

L’obiettivo del programma è che i giovani italiani tra i 18 e i 30 anni scelgano volontariamente di dedicare un anno di vita al servizio in un progetto sociale, educativo, culturale o di altro tipo, nel proprio Paese o all’estero. È un programma a cui quest’anno partecipano circa 30.000 giovani, dei quali 1000 circa impegnati nelle opere salesiane di tutta Italia, e una trentina nei progetti salesiani in Spagna.

Ecco il documento finale della riunione presinodale

Si è tenuta a Roma dal 19 al 24 Marzo 2018 la riunione presinodale che anticipa il Sinodo dei Vescovi sui Giovani, che si terrà nella capitale dal 3 al 24 di Ottobre  dal titolo “I Giovani, la Fede e il Discernimento Vocazionale”.

300 giovani provenienti da tutto il mondo si sono confrontati per arrivare ad un Documento Finale condiviso che è stato  consegnato ai 300 padri sinodali che si incontreranno ad Ottobre alla XV Assemblea Generale Ordinaria.

Il documento finale che ne è venuto fuori sintetizza le problematiche dei giovani di oggi che, sebbene siano provenienti da contesti culturali e religioni diversi, vivono gli stessi disagi. Esso desidera configurarsi come una bussola per la Chiesa, un posto dove trovare le risposte per andare avanti.

Qui di seguito, si può accedere alla versione inglese del documento:

Le carceri minorili: periferie esistenziali a cui andare incontro, luoghi di rilancio e fortificazione della fede

Nelle scorse settimane si è svolto a Roma l’incontro con i cappellani delle carceri minorili italiane. E’ stata l’occasione per un confronto e la richiesta di poter entrare meglio nelle attività che quotidianamente i cappellani svolgono nei territori.

Da questa occasione, nasce la lettera che i Cappellani indirizzano ai responsabili del Servizio Nazionale per la Pastorale giovanile (Snpg), chiedendo che il prossimo Sinodo di ottobre sia un momento per fare “i nostri ragazzi partecipi del cammino della Chiesa universale. Crediamo che i nostri ragazzi siano testimoni di umanità e di fede, proprio grazie al cammino di recupero intrapreso a seguito del reato”.

Così è nata la proposta di considerare gli Istituti penali per minori “punti di sosta dei cammini che i giovani delle diocesi italiane compiranno ad agosto per giungere a Roma”, all’ incontro con Papa Francesco, perchè, come si legge nella lettera, “le riflessioni di giovani detenuti possono essere anch’esse spinta per superare prove e difficoltà. Anche questo può, anzi deve essere, il Sinodo dei giovani: un tentativo di camminare davvero insieme verso un obiettivo comune. Il Sinodo può essere l’inizio di un progetto di collaborazione tra il Servizio di Pastorale giovanile diocesano e la realtà del l’Istituto penale per minori”. 

Si evince dalla lettera un desiderio di abbracciare quella “chiesa in uscita” di Papa Francesco, come “quell’andare incontro alle periferie esistenziali – scrivono i cappellani -, può trovare risvolto anche nelle carceri, espressione non soltanto di compassione e consolazione, ma luogo di rilancio e fortificazione della fede. Anche in una cella di carcere, su un letto, all’aria, in cappella, Dio ascolta la voce di questi giovani, di questi figli. Non è questo il senso del Sinodo? La Chiesa deve ascoltare le aspirazioni e i sogni anche di questi suoi figli in questi luoghi di restrizione. Anche qui si annuncia che il regno di Dio è in mezzo a noi e si sperimenta la forza della gioia del Vangelo”.

Una bella lettura, in questo tempo quaresimale particolarmente adatto per riflessioni che toccano la misericordia e il perdono, e “un’occasione per ascoltare tutti i giovani, anche quelli che si trovano lontano, anche quelli rinchiusi all’interno di una cella. La realtà del carcere minorile può e deve essere una risorsa della Chiesa, uno spazio giovane anche se pur ristretto”, come affermano i cappellani degli istituti penali per minori nella lettera, manifestando il desiderio che “i diversi direttori della Pastorale giovanile delle diocesi, in modo particolare quelli dove è presente un carcere minorile, prendessero contatto con noi cappellani per costruire insieme cammini di rinascita, di riconciliazione e inserimento. Il che implica sinergia tra il cappellano e direttore del Servizio, uno studio di attività e laboratori di fede da poter portare avanti insieme. Non abbiate paura di investire energie e tempo collaborando con noi che spendiamo con gioia il nostro in ascolto dei molti bisogni dei giovani ospiti nelle strutture di pena. Noi abbiamo urgenza che il grido di aiuto arrivi a tutti voi. Non lasciateci soli nell’aiutare questi nostri ragazzi. I giovani che escono dal carcere hanno bisogno di aiuto concreto, sono essi stessi ‘opere segno’ di cui tanto si parla nella Chiesa. Hanno bisogno di casa, lavoro ma soprattutto di accoglienza nelle nostre comunità. Come cappellani, comprendiamo le difficoltà nel realizzare tutto questo, ma crediamo anche che tutti noi insieme dobbiamo avere il coraggio di osare per realizzare concretamente il Vangelo, attraverso opere che promuovono il rispetto e la dignità di coloro che si sentono emarginati dalla società”.

Questa lettera, qui di seguito consultabile nella sua versione integrale, desidera essere “un piccolo segnale di dialogo: ci piacerebbe che non restasse solo nelle buone intenzioni dei livelli centrali, ma che diventasse un dialogo fecondo e sereno nei territori. Anche se saranno collaborazioni nascoste, saranno feconde come il lavoro delle radici per gli alberi” come ha affermato Don Michele Falabretti, Responsabile CEI – Servizio Nazionale per la pastorale giovanile, il quale ha redatto la versione finale della lettera con Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani, che ha firmato l’intero documento e successivamente diffuso a tutti i referenti diocesani di Pastorale giovanile.

 

1918 – 21 marzo – 2018: centenario della nascita del beato Alberto Marvelli, Exallievo dell’oratorio

Il 21 marzo 1918 nasceva a Ferrara Alberto Marvelli. Sono passati 100 anni da quel lontano giorno e tanti nel mondo conoscono la sua vita, il suo impegno educativo, caritativo, sociale e politico.

di don Pierluigi Cameroni, SDB,
Postulatore Generale delle Cause
dei Santi della Famiglia Salesiana

Alunno dell’oratorio salesiano di Rimini, sull’esempio di Domenico Savio, matura la propria fede con una scelta decisiva: “Il mio programma si compendia in una parola: santo”. In soli 28 anni ha realizzato una vita a “misura piena”: spesa tutta nell’amore a Dio e al prossimo.

Quando il 5 ottobre 1946 la sua vita fu tragicamente interrotta, tanti credettero di averlo perso per sempre e che il suo impegno, il suo sostegno e il suo esempio sarebbero andati perduti. Non fu così: i santi hanno una vita “postuma”. Oggi Alberto è vivo ed operante più che mai: il bene che ha operato sulla terra si è dilatato nel tempo e nello spazio. La sua santità esemplare è divenuta modello per i laici impegnati nel mondo, alla ricerca di identità cristiana e di coerenza con la fede. Ha aperto una strada nuova, percorribile per tutti. La diffusione della sua testimonianza nel mondo, i molti giovani che l’hanno preso come modello, sono il segno sicuro della sua persona viva ed operante in mezzo a noi.

Celebrare il suo centenario, in questo anno speciale che la Chiesa dedica ai giovani con il Sinodo, significa non commemorare, ma riconoscere questa presenza, come indicò san Giovanni Paolo II il giorno della sua beatificazione il 5 settembre 2004: “A voi laici spetta di testimoniare la fede mediante le virtù che vi sono specifiche: la fedeltà e la tenerezza in famiglia, la competenza nel lavoro, la tenacia nel servire il bene comune, la solidarietà nelle relazioni sociali, la creatività nell’intraprendere opere utili all’evangelizzazione e alla promozione umana. A voi spetta pure di mostrare – in stretta comunione con i Pastori – che il Vangelo è attuale, e che la fede non sottrae il credente alla storia, ma lo immerge più profondamente in essa”.

(Articolo tratto da ANS – Agenzia Info Salesiana)