Spagna – Giovani italiani lavorano come volontari nelle presenze salesiane

Si riporta l’articolo di ANS – Agenzia Info Salesiana relativo al programma dedicato ai giovani italiani tra i 18 e i 30 anni che scelgono volontariamente di spendere un anno di vita al servizio in un progetto sociale, educativo, culturale o di altro tipo, nel proprio Paese o all’estero. È un programma a cui quest’anno partecipano circa 30.000 giovani, dei quali 1000 circa impegnati nelle opere salesiane di tutta Italia, e una trentina nei progetti salesiani in Spagna.

 

Nel corso di quest’anno 30 giovani italiani svolgono il loro Servizio Civile in progetti sociali e per il tempo libero dei Salesiani in Spagna. Si tratta di un’esperienza che è iniziata in Spagna nel 2003.

Nei giorni 7 e 8 marzo, si è svolto a Siviglia un incontro con i responsabili del Servizio Civile Universale Italiano in ambiente salesiano. La riunione, organizzata dalla Delegazione della Pastorale Giovanile, ha visto la partecipazione di Chiara Diella, Tecnica del Servizio Civile all’estero, e di don Giovanni d’Andrea, SDB, Presidente di “Salesiani per il Sociale – Federazione SCS/CNOS”, e ha avuto lo scopo di guidare e sostenere il lavoro dei responsabili dei progetti sociali che già da anni sono inseriti nel programma.

Dal 2003, don Santi Domínguez, responsabile dei Centri Giovanili presso il Centro Nazionale per la Pastorale Giovanile, è anche incaricato per il Servizio Civile italiano; si occupa della selezione dei giovani che vanno a lavorare presso le opere salesiane in Spagna e partecipa ai vari momenti formativi che questi giovani realizzano in Italia.

“Poter contare su giovani italiani, che spesso non ci conoscono, è un’esperienza che ci arricchisce. Arricchiscono i nostri centri con un’altra cultura, molto simile, ma allo stesso tempo diversa, e ci aprono a nuove esperienze. Il contatto con i Salesiani e i responsabili italiani è molto fluido e arricchente” ha osservato don Domínguez.

Il Servizio Civile è un programma promosso dal governo italiano, che ha le sue radici nelle forme di servizio sociale che fino a qualche anno fa erano alternative ed obbligatorie in caso di obiezione di coscienza al servizio militare. Dopo l’abrogazione della leva militare obbligatoria lo Stato ha continuato ad assegnare delle risorse per la prestazione di questi servizi sociali e ha definito il Servizio Civile come quell’attività il cui fine ultimo è “la difesa della Patria a partire dai valori di solidarietà, cooperazione, educazione civica, sociale, culturale, ambientale e professionale dei giovani”.

L’obiettivo del programma è che i giovani italiani tra i 18 e i 30 anni scelgano volontariamente di dedicare un anno di vita al servizio in un progetto sociale, educativo, culturale o di altro tipo, nel proprio Paese o all’estero. È un programma a cui quest’anno partecipano circa 30.000 giovani, dei quali 1000 circa impegnati nelle opere salesiane di tutta Italia, e una trentina nei progetti salesiani in Spagna.

Ecco il documento finale della riunione presinodale

Si è tenuta a Roma dal 19 al 24 Marzo 2018 la riunione presinodale che anticipa il Sinodo dei Vescovi sui Giovani, che si terrà nella capitale dal 3 al 24 di Ottobre  dal titolo “I Giovani, la Fede e il Discernimento Vocazionale”.

300 giovani provenienti da tutto il mondo si sono confrontati per arrivare ad un Documento Finale condiviso che è stato  consegnato ai 300 padri sinodali che si incontreranno ad Ottobre alla XV Assemblea Generale Ordinaria.

Il documento finale che ne è venuto fuori sintetizza le problematiche dei giovani di oggi che, sebbene siano provenienti da contesti culturali e religioni diversi, vivono gli stessi disagi. Esso desidera configurarsi come una bussola per la Chiesa, un posto dove trovare le risposte per andare avanti.

Qui di seguito, si può accedere alla versione inglese del documento:

Le carceri minorili: periferie esistenziali a cui andare incontro, luoghi di rilancio e fortificazione della fede

Nelle scorse settimane si è svolto a Roma l’incontro con i cappellani delle carceri minorili italiane. E’ stata l’occasione per un confronto e la richiesta di poter entrare meglio nelle attività che quotidianamente i cappellani svolgono nei territori.

Da questa occasione, nasce la lettera che i Cappellani indirizzano ai responsabili del Servizio Nazionale per la Pastorale giovanile (Snpg), chiedendo che il prossimo Sinodo di ottobre sia un momento per fare “i nostri ragazzi partecipi del cammino della Chiesa universale. Crediamo che i nostri ragazzi siano testimoni di umanità e di fede, proprio grazie al cammino di recupero intrapreso a seguito del reato”.

Così è nata la proposta di considerare gli Istituti penali per minori “punti di sosta dei cammini che i giovani delle diocesi italiane compiranno ad agosto per giungere a Roma”, all’ incontro con Papa Francesco, perchè, come si legge nella lettera, “le riflessioni di giovani detenuti possono essere anch’esse spinta per superare prove e difficoltà. Anche questo può, anzi deve essere, il Sinodo dei giovani: un tentativo di camminare davvero insieme verso un obiettivo comune. Il Sinodo può essere l’inizio di un progetto di collaborazione tra il Servizio di Pastorale giovanile diocesano e la realtà del l’Istituto penale per minori”. 

Si evince dalla lettera un desiderio di abbracciare quella “chiesa in uscita” di Papa Francesco, come “quell’andare incontro alle periferie esistenziali – scrivono i cappellani -, può trovare risvolto anche nelle carceri, espressione non soltanto di compassione e consolazione, ma luogo di rilancio e fortificazione della fede. Anche in una cella di carcere, su un letto, all’aria, in cappella, Dio ascolta la voce di questi giovani, di questi figli. Non è questo il senso del Sinodo? La Chiesa deve ascoltare le aspirazioni e i sogni anche di questi suoi figli in questi luoghi di restrizione. Anche qui si annuncia che il regno di Dio è in mezzo a noi e si sperimenta la forza della gioia del Vangelo”.

Una bella lettura, in questo tempo quaresimale particolarmente adatto per riflessioni che toccano la misericordia e il perdono, e “un’occasione per ascoltare tutti i giovani, anche quelli che si trovano lontano, anche quelli rinchiusi all’interno di una cella. La realtà del carcere minorile può e deve essere una risorsa della Chiesa, uno spazio giovane anche se pur ristretto”, come affermano i cappellani degli istituti penali per minori nella lettera, manifestando il desiderio che “i diversi direttori della Pastorale giovanile delle diocesi, in modo particolare quelli dove è presente un carcere minorile, prendessero contatto con noi cappellani per costruire insieme cammini di rinascita, di riconciliazione e inserimento. Il che implica sinergia tra il cappellano e direttore del Servizio, uno studio di attività e laboratori di fede da poter portare avanti insieme. Non abbiate paura di investire energie e tempo collaborando con noi che spendiamo con gioia il nostro in ascolto dei molti bisogni dei giovani ospiti nelle strutture di pena. Noi abbiamo urgenza che il grido di aiuto arrivi a tutti voi. Non lasciateci soli nell’aiutare questi nostri ragazzi. I giovani che escono dal carcere hanno bisogno di aiuto concreto, sono essi stessi ‘opere segno’ di cui tanto si parla nella Chiesa. Hanno bisogno di casa, lavoro ma soprattutto di accoglienza nelle nostre comunità. Come cappellani, comprendiamo le difficoltà nel realizzare tutto questo, ma crediamo anche che tutti noi insieme dobbiamo avere il coraggio di osare per realizzare concretamente il Vangelo, attraverso opere che promuovono il rispetto e la dignità di coloro che si sentono emarginati dalla società”.

Questa lettera, qui di seguito consultabile nella sua versione integrale, desidera essere “un piccolo segnale di dialogo: ci piacerebbe che non restasse solo nelle buone intenzioni dei livelli centrali, ma che diventasse un dialogo fecondo e sereno nei territori. Anche se saranno collaborazioni nascoste, saranno feconde come il lavoro delle radici per gli alberi” come ha affermato Don Michele Falabretti, Responsabile CEI – Servizio Nazionale per la pastorale giovanile, il quale ha redatto la versione finale della lettera con Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani, che ha firmato l’intero documento e successivamente diffuso a tutti i referenti diocesani di Pastorale giovanile.

 

1918 – 21 marzo – 2018: centenario della nascita del beato Alberto Marvelli, Exallievo dell’oratorio

Il 21 marzo 1918 nasceva a Ferrara Alberto Marvelli. Sono passati 100 anni da quel lontano giorno e tanti nel mondo conoscono la sua vita, il suo impegno educativo, caritativo, sociale e politico.

di don Pierluigi Cameroni, SDB,
Postulatore Generale delle Cause
dei Santi della Famiglia Salesiana

Alunno dell’oratorio salesiano di Rimini, sull’esempio di Domenico Savio, matura la propria fede con una scelta decisiva: “Il mio programma si compendia in una parola: santo”. In soli 28 anni ha realizzato una vita a “misura piena”: spesa tutta nell’amore a Dio e al prossimo.

Quando il 5 ottobre 1946 la sua vita fu tragicamente interrotta, tanti credettero di averlo perso per sempre e che il suo impegno, il suo sostegno e il suo esempio sarebbero andati perduti. Non fu così: i santi hanno una vita “postuma”. Oggi Alberto è vivo ed operante più che mai: il bene che ha operato sulla terra si è dilatato nel tempo e nello spazio. La sua santità esemplare è divenuta modello per i laici impegnati nel mondo, alla ricerca di identità cristiana e di coerenza con la fede. Ha aperto una strada nuova, percorribile per tutti. La diffusione della sua testimonianza nel mondo, i molti giovani che l’hanno preso come modello, sono il segno sicuro della sua persona viva ed operante in mezzo a noi.

Celebrare il suo centenario, in questo anno speciale che la Chiesa dedica ai giovani con il Sinodo, significa non commemorare, ma riconoscere questa presenza, come indicò san Giovanni Paolo II il giorno della sua beatificazione il 5 settembre 2004: “A voi laici spetta di testimoniare la fede mediante le virtù che vi sono specifiche: la fedeltà e la tenerezza in famiglia, la competenza nel lavoro, la tenacia nel servire il bene comune, la solidarietà nelle relazioni sociali, la creatività nell’intraprendere opere utili all’evangelizzazione e alla promozione umana. A voi spetta pure di mostrare – in stretta comunione con i Pastori – che il Vangelo è attuale, e che la fede non sottrae il credente alla storia, ma lo immerge più profondamente in essa”.

(Articolo tratto da ANS – Agenzia Info Salesiana)

Don Rossano Sala: i giovani chiedono una Chiesa che ascolti, che accolga, che sia viva e autentica

Don Rossano Sala, Segretario speciale del Sinodo dei Vescovi del 2018, in esclusiva per ANS – Agenzia Info Salesiana parla dei giovani e della riunione pre-sinodale.

In una lunga e profonda intervista don Rossano Sala, parla della situazione giovanile, della Chiesa e del prossimo Sinodo, illustrando chiaramente la necessità di ascoltare il mondo dei giovani. Il tema del prossimo Sinodo interpella da vicino i Salesiani, che vivono per i giovani, e li interroga e li invita a vivere questa esperienza come figli di un santo che con i giovani seppe vivere un rapporto di fiducia, amicizia e familiarità.

Cosa significa questa riunione pre-sinodale dei giovani?

Il Sinodo pensato da Papa Francesco è un momento per dare la parola ai giovani, un momento in cui la Chiesa deve convincersi che non si può parlare dei giovani se non li lasciamo parlare, se non li abbiamo prima ascoltati. L’incontro pre-sinodale è un momento in cui i giovani possono dire le loro opinioni senza filtri.

Cosa desiderano e cosa chiedono alla Chiesa i giovani?

Molte conferenze episcopali manifestano che i giovani non chiedono nulla alla Chiesa, che sono irritati dalla presenza della Chiesa e non si sentono a proprio agio al suo interno. Ci chiediamo: questi sono giovani nichilisti, sono giovani che ci odiano? No! Dietro queste considerazioni ci sono delle motivazioni che dovrebbero farci riflettere.

Quindi, cosa succede con i giovani?

I giovani sono più di altri scandalizzati dagli scandali sessuali ed economici. I giovani si aspettano come sacerdoti dei ministri preparati, disponibili al dialogo… Sono molte le motivazioni per cui i giovani non ci seguono, perché non siamo significativi per loro… Invece, vogliono una Chiesa che diventi una casa, una famiglia, una Chiesa che sia un luogo di accoglienza, dove un giovane si possa sentire bene…

I giovani chiedono che la Chiesa sia una famiglia. Non è questo un messaggio salesiano?

Per noi Salesiani questo discorso è bello e importante. Abbiamo ricevuto da Don Bosco quello che viene chiamato lo spirito di famiglia. Il fatto che un giovane si senta a casa, si senta accolto, possa parlare apertamente ed entrare in un contatto di tipo familiare fa parte della nostra spiritualità. Pensiamo a cosa significa la Lettera da Roma di Don Bosco, che parla di fiducia, amicizia, familiarità…

Ecco la video-intervista:

(Articolo tratto da ANS – Agenzia Info Salesiana)

 

Si segnala, inoltre, l’approfondimento dell’edizione del 25 marzo 2018 di “Credere“, a cura di Emanuela Citterio, che focalizza l’attenzione su Don Rossano Sala e la sua spiegazione sul perché la Chiesa si sta mettendo in ascolto delle nuove generazioni:

DON ROSSANO SALA: SONO OTTIMISTA PERCHÉ CONOSCO I GIOVANI DI OGGI

Scelto dal Papa come segretario del Sinodo dei giovani, il 47enne sacerdote salesiano spiega perché la Chiesa si sta mettendo in ascolto delle nuove generazioni

Testo di Emanuela Citterio

«Lavorare con i giovani è stata l’esperienza più entusiasmante della mia vita. Chi sta con loro non può che essere ottimista». A confidarlo è don Rossano Sala, uno dei due segretari speciali del Sinodo dei vescovi sui giovani, che si terrà dal 3 al 24 ottobre a Roma. Nato a Calò di Besana, in Brianza, don Rossano è sacerdote salesiano dal 2000 e ha sempre vissuto in mezzo ai ragazzi: per due anni a Brescia nell’oratorio e nel collegio salesiani, per quattro anni nella scuola superiore di Bologna, per altri sei anni di nuovo a Brescia come direttore dell’Istituto , che comprende una parrocchia, un oratorio, una scuola superiore e un centro di formazione professionale. Nel 2010 gli è stato chiesto di portare questa esperienza a livello universitario, prima a Torino dove ha insegnato per due anni Teologia, e dal 2012 a Roma alla Pontificia università salesiana, dove è docente di pastorale giovanile.

Don Rossano è anche direttore di Note di pastorale giovanile, rivista che da cinquant’anni si occupa dell’accompagnamento di tutti coloro che lavorano con i giovani. In questi anni è riuscito a unire un’esperienza sul campo «bella, gratificante e impegnativa» alla riflessione teorica. E forse è proprio per questo che papa Francesco l’ha scelto – in modo, comunque, del tutto inaspettato – insieme al padre gesuita Giacomo Costa per accompagnare un evento che vede la Chiesa interrogarsi sulle sfide che riguardano le nuove generazioni.

In questi giorni, fino al 25 marzo, si svolge a Roma il presinodo, una novità assoluta: 300 giovani da tutto il mondo si sono confrontati per arrivare a un documento condiviso che sarà consegnato nelle mani dei 300 padri sinodali che si riuniranno a ottobre. «Anche questa è un’invenzione di papa Francesco», spiega don Rossano. «Per ascoltare innanzitutto coloro di cui si sta parlando». Al presinodo ognuna delle 114 Conferenze episcopali del mondo ha inviato due o tre giovani, ma sono stati invitati anche aderenti ad altre confessioni cristiane e altre religioni, non credenti o appartenenti ad associazioni giovanili non confessionali, e ragazzi che hanno vissuto o vivono situazioni particolari, come il carcere, la tratta di persone, la tossicodipendenza.

UNA CHIESA IN ASCOLTO

«Vogliamo ascoltare qui e adesso le domande dei giovani che vivono all’inizio del terzo millennio, non rispondere a domande precostituite che i giovani facevano una volta ma ora non fanno più», afferma don Rossano. «L’idea è che tutti i giovani in tutte le situazioni possano partecipare, anche attraverso i social media e il sito www.synod2018.va . È un bel segno di una Chiesa che vuole essere universale, un gesto di ascolto a 360 gradi».

Sui giovani don Rossano è ottimista a ragion veduta: «Chi ne parla male, in genere, non li frequenta. Se si sta con loro, si scopre come siano davvero la ricchezza del mondo e della Chiesa, per il loro entusiasmo, la loro voglia di fare. Certo, cercano accompagnamento e aiuto, però sono una promessa. A volte si dice che i giovani sono il futuro. In realtà sono il presente. Sono gli adulti del futuro, ma sono anche i giovani di oggi. E sono il presente della società e della Chiesa».

Ma perché questa attenzione sui giovani in questo momento storico? «Un Sinodo si fa perché c’è qualche sfida importante che la Chiesa ritiene opportuno affrontare», risponde don Rossano. «Alla fine di ogni assemblea sinodale il Papa chiede ai partecipanti su cosa vogliono discutere nella successiva, e questa richiesta viene fatta anche alle Conferenze episcopali.

Il tema emerso a maggioranza, alla fine del Sinodo sulla famiglia, è stato quello dei giovani. Si è trattato, quindi, di una richiesta della Chiesa universale, che poi il Papa ha fatto sua, declinando il tema su I giovani, la fede e il discernimento vocazionale.

Cosa sta dietro questa richiesta? Probabilmente una fatica da parte della Chiesa di essere generativa nei confronti dei giovani. Anche perché siamo in un tempo di metamorfosi: la Chiesa sa che alcuni strumenti della sua tradizione non funzionano più, perché sta cambiando il mondo. Pensiamo solamente al mondo digitale: non abbiamo una tradizione ecclesiale che ci dice cosa dobbiamo fare, perché semplicemente non c’è mai stato prima di adesso. Questo signica che la Chiesa deve interrogarsi sui
nuovi linguaggi, su come interagire coi giovani che vivono in un mondo virtuale, di fronte a un cambiamento antropologico di questa portata. Vuol dire che ci sono delle novità che ci interpellano e che ci chiedono di metterci in un atteggiamento di discernimento. Non possiamo far finta che non esista il mondo globalizzato o il mondo digitale. Anche a livello educativo c’è la necessità di rispondere alle domande delle nuove generazioni che sono — in realtà, lo sono da sempre — la porzione più
delicata e promettente della società, ma anche quella più a rischio. I giovani sono sismografi e sentinelle dei cambiamenti, cioè quelli che li sentono per primi, per questo ci richiedono di impegnarci di più».

SPAZIO ALL’AUDACIA

Ma questo Sinodo potrebbe anche avere un effetto “collaterale”: «Aiutarci a riscoprire la giovinezza della Chiesa», afferma don Rossano. «Cosa vuol dire, per la Chiesa, assumere o riassumere un dinamismo giovanile? Intendo dire: un dinamismo di entusiasmo, coraggio, capacità di rischiare, mettersi in gioco in maniera rinnovata, non aver paura del cambiamento, essere desiderosa di andare incontro alle persone così come sono, svecchiarsi rispetto ad alcuni stili e modalità di essere?».

Parlare di “giovinezza della Chiesa”, soprattutto in Europa, suona quantomeno azzardato, con una gerarchia ecclesiale lontana, anche anagraficamente, dal mondo giovanile: «Questo è vero», risponde don Rossano. «I giovani, però, sono spesso più vicino ai nonni che ai padri e alle madri. Il punto è cosa vuol dire assumere per la Chiesa un ruolo di “anzianità vera”. Il Papa lo sottolinea molto: il legame fra gli anziani e i giovani è un legame importante, perché anziano vuol dire anche sapiente, che ha una padronanza della vita che i giovani non hanno, una visione più ampia. Molte Conferenze episcopali rivelano piuttosto il fatto che la Chiesa non riesce a intercettare le domande dei giovani. È interessante che la Chiesa sia saggia, il problema è che non sia vecchia nel senso di continuare a proporre dei modelli che sono superati».

Per ovviare a questo problema, il Sinodo punta sull’ascolto e il discernimento, attraverso tappe ben precise: il 6 ottobre 2016 è stato annunciato il tema, il 13 gennaio scorso è stato pubblicato il documento preparatorio, il 25 marzo si chiuderà il presinodo, a fine maggio uscirà lo “strumento di lavoro”, e infine tutto il materiale raccolto verrà discusso a ottobre al Sinodo, che durerà quasi un mese. L’assemblea si chiuderà con delle proposizioni che verranno consegnate al Papa, il quale preparerà un’esortazione apostolica che dovrebbe uscire a marzo del prossimo anno.

UNA CHIESA CHE SIA CASA

«In questo momento si legge molto la nostalgia spirituale dei giovani», anticipa don Rossano, che sta già facendo sintesi dei contributi arrivati dalle Conferenze episcopali e attraverso il questionario online, al quale hanno risposto 200 mila giovani di tutto il mondo. «Una Conferenza episcopale ha detto che abbiamo a che fare con una “generazione mistica”, alla ricerca di trascendenza in un mondo dominato dall’immanenza, dove sembra che il consumo sia al primo posto. Certo, i ragazzi consumano. Ma non sono riempiti da questo e se ne rendono conto. Molte ricerche mostrano che sono alla ricerca più di beni relazionali che materiali, soprattutto nel nostro mondo occidentale, in particolare di amicizia, amore, famiglia.

Paradossale, in un momento in cui la famiglia vive una crisi per molti motivi. E quando parlano della Chiesa la intendono nell’ottica familiare. Sono alla ricerca di una Chiesa che non sia istituzionale, ma accogliente, una Chiesa che sia casa». «I giovani sono anche spesso critici nei confronti della Chiesa», continua don Rossano. «Ma a mio parere molte delle loro critiche sono costruttive. Molti tengono le distanze e non chiedono nulla alla Chiesa. Quando si chiede loro perché, rispondono: “È fonte di scandalo dal punto di vista sessuale o economico”; “I ministri sono impreparati nei nostri confronti, non riescono a cogliere le nostre domande, non sono in grado di accompagnarci”; “Molte volte la liturgia della Chiesa e le omelie non dicono niente alla nostra vita”. Quando si va in profondità, ci si accorge che le loro sono critiche verso una Chiesa che vogliono più santa, vera,
coerente». Don Rossano sogna una Chiesa che faccia leva sul bene che c’è nei giovani: «C’è un’immagine molto bella nella Bibbia, quella del giovane Giosuè. Mosè muore e gli affida il popolo e lui non sa bene cosa fare.

“Sii forte e coraggioso”, gli dice. È un’espressione che mi colpisce molto. Mi sembra sintetizzi il messaggio che papa Francesco rivolge ai giovani, ma anche alla sua Chiesa: “Sii forte e coraggiosa”».

Una “casa senza muri” che accoglie e sostiene i giovani da 25 anni

«Salesiani per il sociale è una casa salesiana senza muri. Se nel 1993 non ci fossimo dotati di questo strumento civilistico non avremo ricevuto tutti i frutti maturati in questi anni». Con le parole di Don Stefano Martoglio, superiore della regione salesiana “Mediterranea”, si è aperta l’Assemblea ordinaria 2018 di Salesiani per il Sociale che ha visto radunati a Roma oltre settanta rappresentanti degli enti che costituiscono la Federazione.

Un evento che ha voluto celebrare i 25 anni di attività dedicati ai giovani del nostro Paese. «Questa realtà ha dimostrato – continua Martoglio – di saper durare negli anni per il suo modo di operare ma soprattutto per il suo metodo che mette in relazione persone con gli stati di vita più diversi (religiosi e laici) e tutto questo in linea con lo spirito del Concilio Vaticano II». Durante la mattinata di lavori, una finestra è stata aperta sulla storia della Federazione, nata il 9 luglio 1993, e che oggi conta più 80 enti nonprofit, tutti ispirati e guidati dalla passione educativa di San Giovanni Bosco. Un’associazione pioniera nell’aver creduto da subito nel grande valore dell’obiezione di coscienza (oggi Servizio Civile) e che in questi mesi si prepara ad affrontare con coraggio il nuovo assetto associazionistico introdotto con la Riforma del Terzo Settore.

L’assemblea è stata anche l’occasione per lanciare lo spot celebrativo del venticinquesimo anniversario realizzato dalla sede nazionale e disponibile sui diversi canali social di Salesiani per il sociale.

Ecco una galleria fotografica:

Medellìn: Ex-soldati, una volta curate le ferite di guerre, diventano motori di pace

Jazmin, dalle forze rivoluzionarie colombiane alla scuola: “Così ho ricominciato a vivere”

La sua storia è stata una delle testimonianze al convegno «Cicatrici di guerra, matrici di pace»
organizzato dalle Missioni Don Bosco

Avere quattordici anni in Colombia può essere difficile. Molti ragazzi e bambini si sono uniti per anni alle Farc, le Forze armate rivoluzionare della Colombia, spesso nel tentativo di migliorare la situazione economica famigliare. È la storia di tanti adolescenti, come Jazmin, che oggi ha vent’anni, e si è raccontata a Torino in occasione del convegno «Cicatrici di guerra, matrici di pace», organizzato giovedì 15 marzo da Missioni Don Bosco.

Emozione palpabile in Sala Sangalli durante l’ascolto delle testimonianze della piccola delegazione di Ciudad Don Bosco invitata a Torino e descrivere l’azione pacificatrice che i salesiani stanno svolgendo in Colombia.

Padre Rafael Bejarano,SDB, Jovana Ruiz e Claudia Yazmin hanno consentito agli oltre cento partecipanti al convegno organizzato da Missioni Don Bosco di venire a contatto diretto con il piano di reinserimento sociale che riguarda gli ex bambini soldato della “interminabile” guerra che dal 1954 al 2016 ha insanguinato il Paese latinoamericano.

Con loro tre, il contributo di Bruno Desidera, giornalista che ha ricapitolato la storia del conflitto, prima anche ideologico e poi solo militare, fino all’arduo raggiungimento di un cessate il fuoco purtroppo non ancora rispettato da tutte le formazioni in campo, e di Alessia Andena che ha riportato le impressioni della visita di Missioni Don Bosco a settembre 2017 a Ciudad Don Bosco e spiegato le ragioni del sostegno che questa organizzazione dà convintamente a quel progetto educativo.

Padre Rafael è il direttore della struttura di accoglienza situata a Medellin, città “di confine” con il territorio un tempo occupato dalle Forze armate rivoluzionarie (Farc). Ha ringraziato coloro che sostengono Ciudad Don Bosco dall’Italia perché hanno compreso che la cura rivolta agli adolescenti e ai giovani fuggiti o salvati dalle squadre di combattenti (in oltre 15 anni, la media di un centinaio all’anno) costituisce uno degli elementi di possibile pacificazione profonda della Colombia. Il referendum che in prima battuta respinse l’accordo di pace fra governo e Farc del 2016 è un indice preciso di quanto il perdono reciproco faccia fatica a sposarsi con le esigenze di giustizia. Eppure, come ha spiegato efficacemente Claudia Yazmin rispondendo a una precisa domanda dal pubblico, il compromesso fra l’esigenza di giudicare chi ha commesso atrocità e la possibilità di rendere irreversibile il ritorno a una normale vita civile è la sola via possibile. E i giovani che escono da Ciudad Don Bosco possono essere i promotori di un atteggiamento dei Colombiani che guari al futuro. Jovana Ruiz ha illustrato le tappe del questo cammino proposto dagli educatori salesiani agli ex bambini soldato: la prima fase è quella della conquista della fiducia, un dato non scontato per persone che hanno dovuto imparare a diffidare di chiunque, a non poter considerare amico neppure il compagno di stanza. E poi la “capacitazione”, come la esprime efficacemente la lingua spagnola, che parte dalla ripresa dei percorsi scolastici interrotti e passa attraverso pratiche di acquisizione della consapevolezza di sé manomessa da anni di ubbidienza cieca degli ordini militari. Infine il ritorno: nella famiglie, quando possibile e con modalità dettate da prudenza, alla vita sociale attraverso tirociniii e inserimenti lavorativi con l’affiancamento degli educatori.

Il presidente di Missioni Don Bosco, Giampietro Pettenon, ha salutato i presenti al convegno a Torino Valdocco e gli amici che lo hanno seguito in diretta streaming attraverso il sito dell’associazione. Ha spiegato che l’obiettivo dei salesiani nel mondo è sempre quello di offrire opportunità di crescita e di inserimento sociale ai ragazzi in maggiori difficoltà. Questo spirito si trova in ognuno dei progetti di formazione professionale sparsi nei cinque continenti, che siano attuati in piena concordia con i governi locali, come in Colombia, o che siano identificati come pura istituzione formativa laddove culture o forze politiche non accettino la “firma” religiosa, come in Laos.

Elisabetta Gatto, antropologa in forza a Missioni Don Bosco, che ha preparato e moderato il convegno, ha commentato che il “modello” presentato per la Colombia potrà essere validamente proposto anche in altri Paesi dove conflitti ultradecennali e ostilità radicali sembrerebbero non lasciar spazio ad alcuna speranza di pace.

Gli insegnavo a camminare: Proposta di Lettura in preparazione al prossimo Sinodo

In un tempo nel quale si avverte l’emergenza educativa e la comunità cristiana è impegnata a riflettere sul grande tema della educazione, è necessario mettersi in ascolto della Parola di Dio, che è il massimo esperto di questo campo.

La Bibbia non propone una teoria dell’educazione né offre le indicazioni metodologiche che spettano alle scienze dell’educazione, ma è ricca di una saggezza pedagogica, che sarebbe un peccato trascurare.

“Gli insegnavo a camminare – Bibbia e Educazione” di Francesco Mosetto edito da LAS – ROMA presenta cinque percorsi biblici. Il primo delinea come, secondo le Scritture del Primo Testamento, “Dio educa il suo popolo”. Il secondo è dedicato ai maestri di sapienza, il cui insegnamento è trasmesso negli scritti detti appunto “sapienziali”. Il terzo invita a guardare a Maria e Giuseppe “educatori” di Gesù. Nel quarto osserviamo il cammino educativo che Gesù maestro fa compiere ai discepoli. Il quinto capitolo è dedicato a san Paolo, pastore ed educatore delle giovani comunità che ha fondato.

 

 

Migrazione circolare, giovani e opportunità di sviluppo

Ecco qui di seguito l’articolo pubblicato da ANS – Agenzia Info Salesiana in occasione della Sessione del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU tenutosi il 14 Marzo 2018 a Ginevra:

 

Oggi, mercoledì 14 marzo, si svolge a Ginevra, a margine della 37a Sessione del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU, un evento collaterale intitolato “Circular migration and youth” (Migrazione circolare e giovani) nell’ambito del programma cofinanziato dall’Unione Europea, del progetto multi-Paese “Co-partners in Development” (Collaboratori nello Sviluppo). L’evento è organizzato dall’ONG Volontariato Internazionale per lo Sviluppo (VIS) e dal Movimento Internazionale Contro ogni forma di Discriminazione e Razzismo (IMADR), in partenariato con “Don Bosco 2000” e i Salesiani di Don Bosco.

Intervengono Michela Vallarino, Vicepresidente del VIS, Agostino Sella, Presidente di Don Bosco 2000, don Francois Coly, Direttore della casa salesiana di Tambacounda, in Senegal, insieme alla testimonianza di Seny Diallo, coordinatore del Centro Don Bosco di Tambacounda.

Barbara Terenzi, Coordinatrice dell’Ufficio Diritti Umani e Advocacy del VIS, che ha curato l’evento, ne è anche moderatore e facilita l’intervento dei rappresentanti di alcuni Uffici territoriali delle realtà salesiane appositamente giunti a Ginevra: Leslie Tavares, dalla Repubblica Dominicana, Meaza Tesfagiorgis, dall’Etiopia, Walter Thyrniang, dallo Zambia, e Gianpaolo Gullotta del VIS in Ghana.

È per me motivo di grande soddisfazione poter condividere con le persone da me formate questa esperienza concreta delle dinamiche e del come si possa realmente contribuire alla realizzazione di politiche a livello globale in favore della promozione e protezione dei diritti umani e soprattutto dei giovani e delle bambine e dei bambini al centro di tutta la cura del mondo salesiano” ha dichiarato la dott.ssa Terenzi.

L’evento ha la doppia finalità da una parte di completare il rafforzamento tecnico e istituzionale dei partner del progetto multi-Paese e dall’altro evidenziare l’esperienza positiva realizzata da Don Bosco 2000 in Senegal con un progetto pilota di migrazione circolare, realizzato anche grazie alla presenza consolidata dei Salesiani di Don Bosco in quel Paese.

La “migrazione circolare” è oggi ritenuta uno degli approcci più avanzati per affrontare la questione delle migrazioni, soprattutto con riferimento ai giovani, che sono i soggetti più a rischio di migrazione irregolare – soprattutto quando, a causa dell’estrema povertà, dei disastri ambientali e dei conflitti, vedono compromessi lo sviluppo e l’inserimento nel mondo del lavoro.

Per questo oggi a Ginevra viene presentata la buona pratica già realizzata in Sicilia da diverse realtà salesiane, che prevede uno scambio fra l’attività di accoglienza e di addestramento che viene offerta ai giovani migranti giunti in Sicilia e la possibilità di rientrare nel Paese di origine arricchiti di un addestramento mirato, in settori quali l’agricoltura, l’artigianato e il turismo. E ciò al fine di avviare altri interventi mirati e contribuire ad uno sviluppo sostenibile presso la propria comunità. Infatti, a Tambacounda oggi si sta lavorando alla realizzazione di un orto di circa 1 ettaro con prodotti biologici, ad irrigazione a goccia e pannelli solari.

I giovani formati in Sicilia rientrati nel loro villaggio addestrano, a loro volta, i loro compagni, con l’obbiettivo di arrivare a replicare questo tipo di impresa nei villaggi limitrofi e raggiungere una consolidata produzione tutto l’anno, laddove un tempo la terra veniva lavorata solo alcuni mesi l’anno.

Un’esperienza che tende a trasformare il giovane migrante in un cooperante che opera nel suo Paese di origine, forte della esperienza acquisita durante il tempo trascorso nel Paese di accoglienza.

Una storia che serve anche a sensibilizzare gli altri giovani sul rischio insito nella migrazione irregolare, sui pericoli del viaggio e sulle possibilità di finire nelle reti dei trafficanti.

“Sono sicura che oggi Don Bosco sarebbe con noi in prima linea alla ricerca di soluzioni nuove e positive per uno sviluppo sostenibile che veda i giovani buoni cristiani e buoni cittadini per una cittadinanza globale” ha concluso la dott.ssa Terenzi.

(Articolo tratto da ANS – Agenzia INFO Salesiana)

“Quale Chiesa dai giovani?” Le risposte dal Festival Internazionale della Creatività di Roma

Si pubblica, qui di seguito, l’articolo a cura di Stefania Careddu su “Avvenire” di Sabato 10 Marzo 2018 che delinea i tratti salienti e le nuove idee progettuali per il Sinodo dei giovani emerse dall’edizione europea, appena conclusasi, del Festival internazionale della Creatività nel management pastorale, che si è svolto nella Pontificia Università Lateranense, il 9 e il 10 marzo. Cuore pulsante della manifestazione il “Creative pastoral lab”, un laboratorio partecipativo nato con l’obiettivo di riformulare nuovi modelli di Chiesa attraverso lo sguardo delle nuove generazioni. “Quale Chiesa dai giovani”? era il tema di un evento, il cui filo conduttore è stato proprio il contributo di rinnovamento che il talento dei giovani può dare alla Chiesa. I partecipanti, oltre 150 da tante diocesi italiane con presenze anche dall’estero (Romania, Polonia e Austria, ndr), sono stati i veri protagonisti della kermesse, perché le nuove idee progettuali sono nate dal loro lavoro di gruppo.

Originalità e audacia per ringiovanire il volto della Chiesa

L’ascolto dei ragazzi e l’esigenza di un nuovo «paradigma» al centro del Festival della creatività. Parlano dal Covolo, Fabene, Saba, Chavez, Carpi
La Chiesa deve «ringiovanire il proprio volto» e per farlo ha bisogno dei giovani e della loro originalità. Si tratta di «mettere in discussione i modi di fare abituali e, a partire dall’ascolto, discernere con audacia e creatività le strade su cui il Signore la chiama», ha detto senza esitazione il vescovo Fabio Fabenesottosegretario del Sinodo, per il quale «il primo passo di una pastorale creativa non può che essere da parte degli adulti rispettare la novità e la diversità delle nuove generazioni, prendendole sul serio e senza giudicarle a priori». Intervenendo alla prima giornata del Festival internazionale della creatività sul tema “Quale Chiesa dai giovani”, organizzato a Roma dalla Scuola internazionale di management pastorale della Lateranense, insieme all’ateneo, a Creativ e alla Villanova University (Pennsylvania), Fabene ha chiarito che «non si può sperare in un’autentica riforma della Chiesa senza interpellare voci nuove e se necessario critiche, come sono quelle dei giovani». Sono loro, ha detto facendo riferimento anche al coinvolgimento nelle fasi del prossimo Sinodo, che «possono aiutarci a capire meglio cosa il Vangelo insegna, come si può vivere la fede nel nostro tempo e come la Chiesa può e deve rinnovarsi per adempiere sempre meglio la propria vocazione e la propria missione». È arrivato il momento di «abbandonare modi di fare ormai inefficaci, attività che hanno fatto bene ma che hanno fatto il loro tempo e sono arrivate al terminal», ha tagliato corto don Pascual Chavez, rettore maggiore emerito dei salesiani, che ha esortato ad «andare incontro ai ragazzi, lì dove si trovano, incoraggiandoli a non rinchiudere la loro vita in una cassaforte».
Occorre promuovere «una pedagogia dell’accoglienza, che comporta un’apertura all’inconosciuto e all’estraneo» e «una pedagogia della compagnia, che sia capace di accettare tutta la realtà e di inserirsi in un percorso», ha suggerito l’arcivescovo di Sassari, Gian Franco Saba, ricordando che questo «implica lo sforzo di non rinchiudersi nell’astrattismo e di recepire invece il plurale». Del resto, la formazione che «è l’architrave del cambiamento», non ha a che fare «con il riempire il sacco di qualcuno, ma – ha chiarito Saba – con l’opera del “plasmare” che punta a forgiare le potenzialità che già sono all’interno del soggetto».
«L’obiettivo della formazione è costituire uno stato profondo, una polarità dell’anima che orienti la vita», ha osservato da parte sua l’arcivescovo Enrico dal Covolo, rettore della Lateranense, evidenziando che «la via per uscire dalla crisi e dall’emergenza educativa è rappresentata dall’università la cui missione non è tanto quella professionalizzante quanto quella di creare menti e cuori aperti, che possano poi inserirsi in maniera feconda nelle varie occupazioni, vocazioni e situazioni in cui il giovane verrà a trovarsi». Soprattutto, ha rilevato il presule, in un momento di disorientamento, in «cui è crollata miserevolmente la scala dei valori», e di «disaffezione politica». La sfida è quella di «generare modelli di pastorale che sappiano ripensare le forme di annuncio e permettere alla Chiesa di avere uno sguardo giovane», ha concluso Giulio Carpi, direttore della Scuola di Management Pastorale, per il quale serve dunque «un cambiamento di paradigma».