Articoli

Agnelli: “Buona Notte”missonaria di Piero Ramello

L‘istituto salesiano Agnelli di Torino riporta una testimonianza di Piero Ramello in cui viene descritta la situazione in Pakistan partendo dai lati positivi come l’accoglienza semplice e generosa fino a giungere infine ai lati più negativi come il tasso basso di alfabetizzazione e i problemi politici e terroristici.

Di seguito l’articolo.

***

I Salesiani in Pakistan sono arrivati poco più di vent’anni faIl pioniere è stato don Pietro Zago. Attualmente abbiamo due presenze.

A Quetta vi sono due confratelli, una scuola con circa cinquecento allievi e convitto.

A Lahore siamo tre confratelli. Abbiamo scuola, centro di formazione professionale, convitto e aspirantato per un totale di oltre quattrocento ragazzi.

Del Pakistan ammiro soprattutto tre cose: la religiosità diffusa, la popolazione estremamente giovane e la sua capacità di offrire un’accoglienza semplice e generosa.

Sarà, forse, che l’Asia meridionale ha una lunga tradizione di interiorità e di vita spirituale, il fatto è che qui ogni cosa porta a riferirsi a Dio. Anche i giovani con cui vivo pregano spesso e volentieri; quando pregano, sono molto concentrati. Ciò mi fa un gran bene. Riguardo ai giovani, poi, c’è da dire che sono veramente numerosi. Più della metà degli abitanti del Pakistan sono sotto i 19 anni. Per strada si vedono bambini, ragazzi e giovani dappertutto. Tutti sono molto gentili e accoglienti.

Il Pakistan non è un paese tranquillo. Ci sono alcuni nodi problematici, come l’instabilità politica, il terrorismo, la povertà, le tensioni interne e un tasso di alfabetizzazione del 49,9%. Rimane irrisolta la questione Kashmir: India e Pakistan si odiano da quando sono nati. Un altro nodo è la tensione settaria tra sciiti e sunniti. Inoltre, il vicino Afghanistan crea problemi di profughi e infiltrazioni terroristiche. In Pakistan la religione islamica è praticata dal 96,5% della popolazione. I cristiani sono l’1,5%, per metà cattolici e metà protestanti.

Quanto a fatiche e a difficoltà, per me la maggiore è la barriera linguistica. Il mio livello di Urdu è ancora a livello pre-infantile. In ogni caso, i ragazzi tra di loro parlano in punjabi. A scuola i ragazzi studiano urdu e inglese dalle elementari. Pochissimi, però, sono in grado di sostenere una conversazione anche semplice in inglese, e non parlo solo dei ragazzi delle classi inferiori. Come insegnante di Fisica, sinceramente non ho grandi soddisfazioni, a parte il calore del rapporto umano con i ragazzi. In classe ho l’insegnante di sostegno (non per i ragazzi, ma per me!) che traduce in urdu. Trovo che la scuola pakistana, per come la conosco, dia troppa importanza all’aspetto mnemonico (basta sfogliare i libri di testo) trascurando le competenze. Il livello di apprendimento è molto basso sorattutto perché la frequenza non è assidua. Un giorno capita di avere in classe ventiquattro allievi; il giorno dopo, magari, soltanto nove. Ogni tanto spunta qualche nuovo allievo e, purtroppo, qualcun altro abbandona la scuola.

Una delle lezioni che sto apprendendo dal Pakistan è la disponibilità al cambiamento e alla precarietà. Imparo che i programmi possono essere modificati all’ultimo momento, magari senza un minimo preavviso, che basta un’interruzione della corrente elettrica (non infrequente) per dover reinventare sull’istante un’attività, che la qualità dei rapporti con le Autorità è legata alle disposizioni di animo (mutevoli) di una singola persona. Al riguardo, ultimamente la precarietà è vissuta anche nei confronti della possibilità, per i missionari, di rimanere in Pakistan. Pure in passato l’attesa per il visto di ingresso era lunga, ma il rinnovo annuale veniva concesso senza grosse difficoltà. Ultimamente il rinnovo del visto per i missionari comincia ad essere rifiutato o, per lo meno, come nel mio caso, arriva con molto ritardo ed ha la durata di sette mesi.

Nonostante la precarietà della situazione, il sostegno dei miei confratelli e, in particolare, dei ragazzi, mi spingono a dare il meglio. Nella nostra scuola e nel convitto abbiamo dei ragazzi d’oro. Tra gli exallievi, poi, vi è Akash Bashir, un giovane che nel 2015, mentre era in servizio d’ordine presso la parrocchia del nostro quartiere, non ha esitato a sacrificare la propria vita per impedire ad un attentatore di entrare in chiesa per compiere una strage.

Conto sulla preghiera di tutti voi. Anch’io prego per la mia ex ispettoria.

Un abbraccio.

Piero Ramello.

Un vivo ricordo di Don Pietro Zago

Si riporta una viva testimonianza di don Pietro Zago, apparsa su La Vita Diocesana Pinerolese di domenica 14 gennaio. Si ringrazia la testata giornalistica e Monica Casalis, autrice del testo:

“È difficile sintetizzare l’affetto e la stima che mi legava a Don Pietro Zago. Lo conobbi nel gennaio 2013 a Lahore, durante un viaggio che feci in Pakistan per conoscere la sua missione e far vi sita agli amici sindacalisti che avevo incontrato quando lavoravo all’Inter national Labour Organization. Don Pietro mi accolse nella casa salesiana del quartiere di Youhanabad, l’area cri stiana della città, offrendomi non solo un luogo sicuro in cui stare (e in Paki stan non è poco), ma anche un’amicizia paterna e spirituale. Don Pietro aveva già affrontato molti anni di missione in Asia, nelle Filippine, in India, a Papua Nuova Guinea, ma in Pakistan si era trovato di fronte ad una sfida ancora più difficile delle altre. Nonostante il paese sia a netta maggioranza musul mana, con sacche di fondamentalismo ed un’arretratezza cul turale che limita for temente il ruolo delle donne, era comunque riuscito ad ambien tarsi e a realizzare grandi progetti, grazie alla sua pazienza, alla tolleranza e anche ad un pizzico di astuzia. Sapeva per esempio mordersi la lingua e trattenersi dal muove re apertamente critiche ai capifamiglia per le manifeste discrimi nazioni verso le figlie femmine, purché con tinuassero a mandarle a scuola e non ostaco lassero le numerose attività educative dei Salesiani. La scuola da lui fondata a Quetta, nella parte occidenta le del paese, poté quindi fiorire e godere dell’apprezzamento di tutta la popola zione, anche musulmana, seminando lentamente e prudentemente valori e idee cristiani. In perfetto stile salesiano, Don Pietro puntava tutto sulla concre tezza dell’educazione e della , dando un’opportunità di istruzione e avviamento al lavoro a tan ti ragazzi e ragazze. Non faceva prose litismo per non incorrere in pericolose rappresaglie, che avrebbero compro messo l’intera missione, ma con la sua testimonianza personale ha certamente toccato il cuore di tanti pakistani. Sole va dire che la durezza del Pakistan, la difficoltà a vivere liberamente la fede, lo avevano reso più cristiano. Il suo amore per Gesù era stato temprato da una lun ga esperienza sul campo, dai tanti spo stamenti da un paese all’altro, ognuno con la sua lingua, il suo clima, e i suoi costumi (in Papua Nuova Guinea ave va persino conosciuto i popoli canniba li…), da delusioni umane come quelle che capitano un po’ a tutti. Era un amo re ormai “ripulito” dai fronzoli inutili, dalla forma, dalle fantasie. Parlava di Gesù come di una persona a cui ave va dedicato la sua vita e ultimamente si chiedeva spesso: «Gesù, quando tor nerà, troverà ancora fede sulla Terra?», preoccupato com’era della secolarizza zione in cui è sprofondato l’occidente. Parlava con serenità della sua morte e si diceva persino curioso di vedere ciò che Cristo ci ha promesso per l’aldilà. Aveva imparato a vivere il Cristia nesimo, prima di parlarne. E la sua capacità di entrare in relazione con l’umanità del prossimo, a prescindere dall’appartenenza religiosa, gli aveva permesso di farsi tanti amici, anche tra i musulmani. Ricordo che due o tre anni fa, nel periodo in cui i musulmani attaccava no le case dei cristiani a Youhanabad, incendiandole, lui e i suoi ragazzi ave vano nottetempo trovato rifugio presso la fabbrica dei vicini musulmani, a ri prova che il dialogo è possibile, sempre e comunque, laddove ci si incontra sul terreno della bontà e dell’umanità. Don Pietro sapeva farsi degli amici, non aveva paura della diversità e sdram matizzava le oggettive difficoltà di vita in u n contesto così avverso, coltivando semplici piaceri come la buona cucina o una bella partita di cricket. Era un uomo che la profonda unio ne con Gesù aveva reso più uomo, più umano. Ora spero che i limpidi occhi azzurri di Don Pietro sorridano per sempre nella sua nuova missione”.