Cinquant’anni di servizio pastorale: don Giampaolo Del Santo, padre Luigi Aimetta e don Piergiovanni Bono
- Facevo la seconda media statale nel 1956, con un sacco di problemi di salute, e sono quindi stato bocciato per le tantissime ore di assenza. Intanto frequentavo l’oratorio festivo salesiano di Valdocco. Il direttore mi chiamò e mi propose di frequentare la terza media all’oratorio. Avevo pensato anche di farmi salesiano, ma c’era ancora tempo e poi io ero molto attaccato a mia mamma. Così ho iniziato la terza media, andando già a Valdocco alle 5,30 del mattino per servire messa. Poi scuola dalle 8 fino alle 12. E al pomeriggio di nuovo, nel suo ufficio. Così per un anno. Poi ho proseguito a Chieri; una scelta che ho fatto io perché mi piaceva l’Oratorio, dove ho avuto insegnanti molto validi. Dopo la quinta ginnasio ho infine deciso di farmi salesiano. Diciamo che la mia vocazione è maturata a poco a poco. Quindi c’è stato il noviziato a Pinerolo per un anno, poi a Foglizzo per il liceo, e l’ultimo anno dedicato alla pedagogia e psicologia, perché noi salesiani dobbiamo fare tre anni di tirocinio con i ragazzi (io ho poi dato anche l’esame alle Magistrali statali). Il tirocinio l’ho svolto a Saluzzo in una casa poverissima: un’esperienza davvero molto bella, circondati da gente che ci voleva bene. Ad Avigliana, insieme ad altri cinque salesiani, ho fatto il maestro alle scuole elementari per 60 ragazzi orfani. Poi sono stato a Salerno e quindi a Castellammare di Stabia a studiare teologia. Sono andato giù malvolentieri e poi sono invece stato contento di aver conosciuto posti molto belli, anche per la gente, davvero tanto generosa. Sono stato ordinato prete a Pont Canavese il 4 aprile del 1971, che in quell’anno era la Domenica delle Palme. E ho celebrato la prima messa all’asilo con i bambini piccoli, un vero spasso! La seconda messa al carcere Le Nuove di Torino, la terza all’ospedale: tre luoghi significativi. Sono stato a Peveragno sette anni come consigliere, e a Lombriasco. Nel 1979 sono giunto a Fossano: inizialmente come insegnante, poi direttore del Centro (di formazione professionale), e dal 1998 al 2008 direttore generale di tutto l’Istituto. Sono andato poi a Vercelli per svolgere il medesimo incarico, e successivamente a Bra come direttore della Casa, ma, per problemi di salute, ho infine lasciato ogni incarico e sono ritornato a Fossano nel 2015.
- Innanzitutto, premetto che per me se uno cambia strada e in quella trova la sua felicità, ben venga! Di questi 50 anni posso solo dire grazie al Signore. Ci sono stati momenti belli e momenti tristi, ma mai ho pensato minimamente di cambiare. Poi il rapporto con la gente e i ragazzi aiuta, perché ti accorgi che, con tutti i tuoi limiti, hanno bisogno di te. Ci sono quelli che dopo cinquant’anni ricordano ancora quello che si è fatto insieme. Il Signore è stato molto buono con me ed anch’io non posso che esserlo con lui verso gli altri. Non sempre c’è la perfezione, però bisogna essere ottimisti. Tutto si può sempre aggiustare quando c’è la buona volontà.
- Il ricordo più bello a Fossano? È legato all’incarico che mi diede monsignor Natalino Pescarolo, di avviare la pastorale del lavoro in diocesi (intorno al ’94-’95). Ho imparato tanto, con un contributo grandissimo da parte di tutti. Alla sera ci dedicavamo alla riflessione politica con quelli che si dichiaravano cristiani, di qualsiasi schieramento. E poi mi è piaciuto molto il gruppo degli insegnanti che ho avuto qui. Non dimentichiamo che nell’83 abbiamo avuto la disgrazia dell’omicidio di un nostro coadiutore salesiano; si pensò anche di chiudere l’Istituto a Fossano e invece tutte le cose che lui aveva nel cuore per questo Istituto si sono sviluppate nel giro di due anni, grazie anche all’impegno lodevole degli insegnanti e alla generosità dei benefattori.
- Secondo me non si mettono i ragazzi al primo posto. Sono loro che devono agire. Il catechismo non è solo una questione di lezioni e via. Ad un certo punto sono loro a dover essere intraprendenti. Quando si entusiasmano fanno le cose meglio di noi. Invece pensiamo sempre che siano loro, a cui abbiamo fatto una bella predica con tante raccomandazioni, a dover seguire noi. Manca davvero l’esempio, da parte delle famiglie (che non ci sono e che non pregano più) e dei preti. È vero, questi fanno tantissimo, hanno anche quattro parrocchie da seguire, ma poi cosa diventano? Dei manager. Forse manca la figura del sacerdote che andava a trovarli a casa, incontrava la famiglia, stava con loro.
- Esorterei a lavorare insieme. Non si può lavorar da soli. Che siano confratelli o che siano laici, ma insieme, mettendosi al pari degli altri, ognuno con il suo ministero; quello del laico come quello sacerdotale, né più né meno. La Chiesa non è dei preti, perciò bisogna collaborare con tutti. E così scopri che tutti, forse, hanno bisogno di te, come tu ne hai degli altri.
Padre Luigi Aimetta, genolese, cresciuto in una famiglia di sette fratelli e quattro sorelle, è sacerdote della Società missionaria africana (Sma), la cui chiamata è chiaramente espressa nella dicitura del nome. Una vocazione che padre Luigi, dopo i primi studi al seminario di Fossano, e la formazione teologica che lo ha portato all’ordinazione sacerdotale, ha fatto sua, spendendo anni di missione in Costa d’Avorio, in Italia, come economo e come animatore, e quindi a Guadalupa. Dal 2018, anno in cui è ritornato definitivamente in patria, è a disposizione per le necessità della diocesi nell’ambito del suo ministero sacerdotale, che finora ha prestato soprattutto nelle parrocchie del centro storico di Fossano.
- Ero andato in seminario a Fossano (frequentato fino al primo anno di teologia) per poter giocare a pallone; la mia passione è sempre stata quella. Dopo 50 anni, posso dire che il buon Dio ha permesso anche quello per aiutarmi a capire che la missione è un lavoro di squadra, non qualcosa di individuale. Quindi il calcio mi ha permesso di affinare il gioco di squadra, dove le partite non sono mai una uguale all’altra. Dalla voglia di collaborare insieme è nata la vocazione, in cui anche mio papà ha avuto un ruolo importante, desiderando per me che io andassi avanti negli studi seminariali solo se l’avessi voluto veramente, e non dietro la spinta di qualcuno. Per me quelle parole sono state fondamentali. Il momento forte è stato quando ho scelto la missione. Andando a Rivoli per la propedeutica, mi si è aperto un mondo che non conoscevo, ho compreso una prospettiva nuova che mi ha subito affascinato. Conoscevo la Società missionaria africana (dal fondatore irlandese che era passato in seminario e da mio fratello che vi era entrato prima di me) dalla quale ho scoperto uno spazio universale. Per confrontarmi con questo spazio ho fatto del noviziato, e poi teologia a Lione e due anni in Africa, in Costa d’Avorio. E lì mi sono trovato a casa mia. Ho capito che quello era il mio posto. Ho dovuto quindi terminare gli studi a Genova (dove, nel frattempo, la Sma aveva aperto una casa) e poi sono stato ordinato sacerdote a Genola il 27 giugno del 1971. Per partire, quindi, subito dopo, come missionario.
- Siamo tutti, anche noi sacerdoti, dei poveri peccatori. Ma questo ci mostra che la misericordia di Dio è ancor più grande e straordinaria. Nulla è impossibile a Dio. Capita, fa parte della vita, di avere dei momenti di rigetto. Però alla fine ti affidi a Dio e Lui ti aiuta a vivere il tutto come un dono.
- Ricordo due episodi particolari (“le mie gemme”), uno accaduto all’inizio, appena arrivato in missione. Una sera giungono i vecchi del quartiere e mi dicono che il capotribù sta morendo all’ospedale. Battezzato, anche se poi, nella vita aveva acquisito sette mogli, voleva fare il matrimonio. Vado all’ospedale e tra le diverse persone c’erano le mogli che aspettavano il “verdetto” di quell’uomo, che intanto non poteva parlare, ma avrebbe dovuto “sceglierne” una con un cenno del capo. Ho invitato a pregare perché il suo cuore si orientasse verso Dio, esortando poi a lasciar fare a Lui. Tre mesi dopo quell’uomo, che nel frattempo si era ripreso, mi viene a trovare. E mi spiega che la scelta di una donna rispetto alle altre, avrebbe creato delle lotte tra di loro (che pure stimava tutte) e tra i figli stessi. Una situazione che lui non voleva. Perciò mi disse che prima avrebbe messo a posto le cose e poi sarebbe ritornato. Nel frattempo, diede ad ogni donna un pezzo di terra con la casa, perché ognuna di loro potesse mantenersi con i figli. E si sposò infine con quella con cui non ebbe figli (cosa straordinaria per un africano!). Qualche mese dopo quell’uomo morì. Nella predica io dissi alla gente: “Dio ha visto il cuore retto di questa persona, che non voleva discussioni, e lo ha premiato“. È stato l’inizio della mia missione: capire che Dio agisce al di là di quello che io so fare o non so fare, imparando così ad affidare molto di più il proprio cammino a Dio. Alla fine della mia missione mi trovavo invece in una parrocchia dove si parlavano 60 lingue diverse. “Cosa capiranno?” mi chiedevo. Anche perché non tutti sapevano il francese. “Siamo contente lo stesso“, rispose un gruppo di donne alla mia domanda, “perché abbiamo capito che quando parli lo fai perché ci vuoi bene”. Da allora ho capito che si possono celebrare tante messe, però, come prete, rischi anche di fare le cose senza voler bene.
- La cosa per me più importante è proporre ai giovani di oggi un progetto di vita che sia “alto” e che superi i limiti di quello che si è vissuto fino adesso. Che prospettiva ha il giovane nell’ambiente attuale della Chiesa? Siamo in una fase di forte cambiamento globale e la Chiesa stenta a proporsi con vesti nuove. Non si riesce ad immaginare una proposta di vita che non sia una brutta fotocopia del passato. Un tempo diventare prete voleva dire raggiungere un certo livello sociale, oggi tutto questo, qui da noi, è finito. Mentre questo modello è attuale in Africa. Con tutte le incognite che potrà avere in futuro.
- Che abbiano sempre la gioia di dire: “Ho sbagliato, ma ho amato“. Se essere prete corrisponde ad un’esigenza forte di amore verso le persone che incontri, allora diventa anche entusiasmante poter immaginare di vivere questo ministero.
Don Piergiovanni Bono, fossanese, cresciuto in una famiglia di quattro fratelli e due sorelle, è stato sacerdote “fidei donum”, in Argentina e in Cile, dedicando il suo ministero, in patria come in missione, soprattutto nelle parrocchie, come vicecurato prima, e parroco poi. Attualmente è cappellano nelle Case di riposo Craveri-Oggero e Sant’Anna e cappellano volontario della Casa di reclusione Santa Caterina a Fossano.
- C’erano i curati (e anche le catechiste) che esortavano per farci entrare in seminario. E dopo aver preso un “treno”, vai avanti. Dopo alcune esperienze come vicecurato, sono stato 16 anni in Argentina, per poi rientrare in Italia, in diocesi, con una parentesi di due anni, e quindi ripartire per il Cile per altri 10 anni.
- Impegnandosi, non c’è il tempo di pensare ad altre cose. Poi c’è chi ti aiuta e magari no, ma si va avanti.
- Ricordo, della missione, il lavoro che si è fatto con i disabili, fisici e psichici, bambini e adulti, a Comodoro in Argentina, nelle parrocchie di tutta la città. Cercavamo di farli uscire dalle proprie case, per poterli fare incontrare tra di loro, offrendo un momento di respiro sia ai genitori che a loro stessi. Si è incominciato piano piano per poi proseguire nel tempo. C’erano le scuole speciali a cui noi li portavamo, perché mancava il servizio dei mezzi di trasporto, e allora al mattino si faceva il giro. Inoltre, ogni mese si teneva un incontro, oltre quello annuale, per tutti. Un’esperienza che è durata qualche anno, oltre all’impegno di parroco e catechista (con tutta la catechesi familiare da svolgere) in una parrocchia di 20mila abitanti. Come prete ero da solo, ma coadiuvato dai laici, che si sono sempre dimostrati accoglienti e di cui conservo un bel ricordo. In Cile avevo invece una parrocchia diffusa su 150 km, per cui avevo abbastanza da girare; otto paesetti da andare a visitare lungo il lago, per cui la gente era più difficile da riunire.
- Intanto manca “la materia prima“; noi eravamo sei in famiglia, in altre ancora di più. Adesso ce n’è uno, al massimo due, per nucleo familiare. Con più figli, forse, sarebbe più facile che sorgesse qualche vocazione. Pur non escludendo che la mentalità di oggi sia più fredda, più laica o laicista che dir si voglia. E poi forse, come clero, non siamo quello stimolo che dovremmo essere. Se vedono noi, quale entusiasmo possono avere? Non siamo una comunità, e abbiamo un mucchio di forze che non sono utilizzate.
- Che nonostante le nostre miserie il buon Dio può lavorare, e quindi invitando a non guardare i limiti, sapendo che Lui usa la zappa, e tutti gli strumenti, per seminare. E dando l’esempio.
LE DOMANDE
- Qual è stata la sua formazione e quale occasione iniziale l’ha spinta verso la vocazione sacerdotale?
- Come è stato possibile vivere la fedeltà sacerdotale in un tempo come questo, in cui tanti, prima o poi, sembra che vogliano cambiare strada nella vita?
- Può condividere un ricordo o un impegno che ha vissuto più volentieri?
- Alle nuove generazioni che cosa manca oggi per intraprendere una scelta sacerdotale?
- Dovesse essere proprio lei formatore di novizi, come li incoraggerebbe alla propria scelta vocazionale?