Muzzano, il paese dove la tradizione diventa arte e amore per le radici

«Appena c’era un problema in famiglia, oppure la necessità di scambiare due parole o di chiedere un consiglio, andavamo dai salesiani – raccontano i residenti -. C’era sempre qualche religioso pronto ad ascoltarti e a darti una parola di conforto»

Si riporta un interessante articolo su Muzzano pubblicato oggi da La Stampa nella sezione di Biella a cura di  Emanuela Bertolone.

13 giugno 2019 – La Stampa
“Muzzano, il paese dove la tradizione diventa arte e amore per le radici”

A fronte dello spopolamento costante dei paesi di montagna, c’è un Comune in cui, da più di un secolo, il numero degli abitanti è pressoché rimasto uguale: è Muzzano, paese popolato costantemente da 600 persone. Ad appena otto chilometri da Biella, in questo luogo sembra non mancare nulla: dal negozio di alimentari alla tabaccheria, ma si possono trovare anche un ristorante (la storica trattoria Renghi) ed un bed&breakfast. Un piccolo centro dove, nonostante la forte vocazione contadina, risiedono principalmente famiglie con bambini: quasi tutti lavorano a Biella, ma dicono che mai per un momento hanno pensato di lasciare Muzzano per trasferirsi a vivere in città. L’asilo comunale segue il metodo Montessori ed è frequentato da 26 bambini, mentre per le elementari e le medie ci si appoggia alla vicina «Scuola di Valle» di Graglia.

LA FEDE

La vita dei muzzanesi è sempre stata contraddistinta da un forte senso religioso. Fino allo scorso anno, infatti, in paese era presente la comunità salesiana, che per decenni ha fatto parte della vita dei muzzanesi.

«Appena c’era un problema in famiglia, oppure la necessità di scambiare due parole o di chiedere un consiglio, andavamo dai salesiani – raccontano i residenti -. C’era sempre qualche religioso pronto ad ascoltarti e a darti una parola di conforto».

La casa di Muzzano è stata fondata nel 1957. Per decenni si è occupata della formazione professionale dei ragazzi per poi diventare il luogo destinato ai ritiri spirituali della diocesi. Da oltre 30 anni ospita, il giorno dopo Pasquetta, il tradizionale raduno dei ragazzi degli oratori di tutto il Biellese. Oggi la casa viene principalmente utilizzata come centro di accoglienza per gruppi, famiglie e comunità parrocchiali a sostegno di attività religiose, spirituali e sociali. In paese si respira anche un forte spirito associazionistico: dalla Pro loco presieduta di Ivan Valcauda al Centro Incontro guidato da Maria Teresa Milano fino agli Alpini, il cui gruppo da 12 anni è presieduto da Valter Graziano. «La scorsa domenica abbiamo festeggiato i 90 anni di fondazione – dice il presidente -. Ancora oggi siamo gli unici nel Biellese ad aver ottenuto il premio nazionale Fedeltà alla Montagna. Grazie al nostro aiuto eravamo riusciti, nel 1987, a fare in modo che la scuola elementare di Bagneri non chiudesse: ogni giorno in cui le condizioni meteo erano avverse accompagnavamo noi la maestra a scuola».

ARTIGIANI E ARTISTI

E del resto quello che non manca a Muzzano è l’amore per le tradizioni. In questo luogo si possono ancora trovare un fabbro ed un falegname: artigiani che ancora svolgono i mestieri tramandati dai loro nonni. Anche le nuove generazioni sono affascinate dalla storia che si respira a Muzzano e dal suo passato. E’ il caso della scultrice di 34 anni Cecilia Martin Birsa, che ha deciso di vivere e di lavorare stabilmente in paese: «Ho scelto di svolgere qui la mia attività perchè ho bisogno di tranquillità e di isolamento: sono una scultrice che realizza opere fatte con la pietra di torrente, un lavoro particolare che potrei svolgere solo qua – racconta -. A Muzzano esiste una comunità incredibile: non solo vengo aiutata tutte le volte che devo trasportare pietre pesanti, ma quando arrivano turisti in paese c’è sempre qualcuno che li informa della mia attività e li accompagna a visitare il mio laboratorio».

“Ave Maria” ieri e oggi: Il CNOS-FAP di Vigliano sul “Il Biellese”

Si riporta l’articolo pubblicato sul giornale “Il Biellese” di martedì 4 giugno 2019, in merito alla presenza degli allievi del Centro di Formazione CNOS FAP di Vigliano nella Parrocchia salesiana di San Giuseppe Operaio.

LA TAPPA NELLA PARROCCHIA SALESIANA
“Ave Maria” ieri e oggi
Alle 8.15 di ieri non c’era Bartolomeo Garelli, il primo dei ragazzi di don Bosco , ma la comunità degli allievi del Centro di Formazione CNOS FAP.

Chi conosce il mondo salesiano sa che “tutto iniziò” con un “Ave Maria” recitata da don Bosco l’8 dicembre del 1841.

Il 3 giugno di 178 anni dopo il mondo salesiano riparte ancora sempre da quella stessa “Ave Maria”. Alle 8.15 di ieri mattina non era Bartolomeo Garelli, il primo dei ragazzi di don Bosco, c’era la comunità degli allievi del Centro di Formazione CNOS FAP di Vigliano con i loro insegnanti. Davanti a loro l’effige della Vergine Bruna che, dopo la salita dei giovani del Centro di Formazione del 22 maggio scorso, ha restituito la visita scendendo “giù dai colli” per continuare a posare lo sguardo su chi “Beato” è “visto dai suoi occhi”.

Un momento semplice in cui giovani e insegnanti si sono lasciati “guardare” e con una di quelle semplice “Ave Maria” che hanno mosso il mondo, quello salesiano sopratutto, hanno messo ai piedi della Vergine un anno di sacrifici, di successi, di sofferenze insieme al desiderio di bene e di futuro che abita il cuore di ogni uomo. Percorso identico lo hanno fatto pochi minuti dopo i “cuccioli” della Scuola dell’Infanzia che insieme alle maestre si sono trovati ai piedi della stessa Madre. Con la fresca genuinità della loro età, chi con un saluto, chi con un bacio mandato, chi con lo sguardo carico di curiosità, tutti hanno salutato quest’ospite dal volto bruno che lì, vicino al busto di don Bosco pareva, ma è certo così, esserci da sempre. S. C.

I ragazzi del don Bosco di Cumiana vincono il progetto “Cosmo Explorers”

Si riporta la notizia pubblicata il 22 maggio su La Stampa, articolo a cura di Antonio Lo Campo, riguardo alla premiazione dei ragazzi del Don Bosco di Cumiana per la vittoria di un progetto didattico a cui hanno partecipato: “Cosmo Explorers”.

Hanno vinto i ragazzi di un Istituto di Cumiana, il «Don Bosco». Sono gli allievi della scuola secondaria di primo grado, che hanno partecipato a «Cosmo Explorers», un progetto didattico finanziato dal MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) e realizzato da Infini.to, INAF e ALTEC. Ma hanno vinto un po’ tutti i 150 ragazzi (e docenti) delle scuole di tutta Italia che oggi, al Centro Spaziale di ALTEC a Torino, hanno presentato i loro progetti spaziali, scelti come i migliori.

Inaugurato da Attilio Ferrari, Presidente di Infini.to, e Fabio Massimo Grimaldi, Presidente di ALTEC, e presentato da Marco Berry, l’evento odierno ha visto la partecipazione di decine di team distribuiti su tutto il territorio nazionale, che si sono sfidati a colpi di razzi, fionde gravitazionali e pannelli solari.

Una competizione che ha visto coinvolti circa 1000 studenti e 100 insegnanti, volta alla creazione del migliore programma di esplorazione spaziale utilizzando un videogioco: Kerbal Space Program, un simulatore di volo che permette al giocatore di sperimentare la costruzione di razzi, satelliti, navicelle e rover, mandarli in orbita o intraprendere lunghi viaggi interplanetari tenendo in considerazione gravità, spinta dei motori, carburante a disposizione.

Il progetto vuole mettere in campo un modo nuovo di fare STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), sviluppare competenze a scuola, e tenta di colmare questa lacuna introducendo un nuovo metodo didattico, con lo scopo di favorire l’attitudine al lavoro in gruppo in modo divertente e coinvolgente. Il docente stesso utilizza un videogioco che diventa un potente strumento d’apprendimento. La creazione di un programma di esplorazione spaziale deve far appello a moltissime conoscenze che gli studenti devono maturare e padroneggiare in autonomia per portare a termine gli obiettivi che loro stessi si prefiggeranno.

A pari merito al secondo posto, per le medie di primo grado, si sono classificati i gruppi dell’Istituto Comprensivo di Govone (CN) e dell’Istituto Comprensivo di Vistrorio (TO). Per la categoria delle Scuole Secondarie di secondo grado, il primo posto è stato assegnato al gruppo di studenti del Liceo Saffo di Roseto degli Abruzzi (Teramo), mentre al secondo posto, pari merito, si sono classificati il gruppo del Liceo Ariosto-Spallanzani di Reggio Emilia gli studenti dell’I.T.I.S. E. Majorana di Somma Vesuviana (NA).

«In occasione dei 50 anni dal primo allunaggio – spiegano i ragazzi del Don Bosco di Cumiana – abbiamo realizzato un progetto, con manovre assai complesse ma efficaci, per sbarcare sulla Luna». «Abbiamo sviluppato tecniche innovative per mettere in orbita terrestre un veicolo spaziale – dicono invece i ragazzi dell’Istituto Comprensivo di Govone . «Anche noi abbiamo progettato un sistema di propulsione per la messa in orbita di una nave spaziale – aggiungono gli studenti dell’Istituto Comprensivo Vistrorio di Vico – Il nostro sogno? Diventare ingegneri aerospaziali: quello che abbiamo visto qua in ALTEC è straordinario, e ci fa comprendere ancora di più l’importanza delle missioni spaziali».

A gruppi i ragazzi hanno visitato una riproduzione del terreno marziano, il centro di test dei rover marziani e il centro di controllo che segue le missioni con astronauti. A tutti gli studenti che hanno portato a termine il progetto verranno riconosciute 40 ore di alternanza scuola lavoro, che possono estendersi fino a 80 nel caso gli studenti abbiano contribuito attivamente a migliorare la visibilità dell’iniziativa a livello nazionale.

Antonio Lo Campo

Don Domenico Ricca, cappellano del carcere minorile di Torino: «Dietro le sbarre ho imparato a non giudicare»

Si riporta la notizia pubblicata sul Corriere della Sera di lunedì 27 maggio 2019 redatta da Dario Basile, in merito all’esperienza di don Domenico Ricca da 40 anni Cappellano del carcere minorile di Torino.

«Dietro le sbarre ho imparato a non giudicare»

È diventato il cappellano del carcere minorile di Torino esattamente quarant’anni fa e, da dietro le sbarre, ha visto la città cambiare. Don Domenico Ricca, per tutti Meco, ha uno sguardo severo che si scioglie in un sorriso gentile. Oggi, settantaduenne, continua a dedicare la sua vita ai ragazzi reclusi.

Che ricordo ha del suo primo ingresso nel carcere nel 1979?

«La prima impressione fu traumatica. Il direttore mi accolse dicendomi: caro reverendo io non insegnerò mai a lei come si fa il cappellano e lei non mi insegnerà come si fa il direttore. Gli interni del penitenziario erano veramente brutti, era una struttura molto simile a quella degli adulti. Mi trovai davanti ottanta detenuti, tutti maschi».

Chi erano i ragazzi incarcerati?

«Una ventina provenivano dai campi nomadi della città, gli altri erano tutti italiani. Principalmente ragazzi di periferia, provenivano da Vallette, Falchera e Mirafiori».

Perché i ragazzi finiscono in carcere?

«In quegli anni c’era ancora molta povertà, degrado, mancanza di cultura. Io, da chierico, passavo davanti al carcere Le Nuove e vedevo i parenti che facevano la fila per le visite. Erano persone povere, sofferenti. Se tu oggi vai davanti al Ferrante, in quei due giorni alla settimana in cui ci sono i colloqui, il panorama non è molto cambiato. Il carcere è la discarica. Lì vanno a finire quelli che non hanno avuto risorse o che non sono stati in grado di saperle cogliere. Perché gli mancano gli strumenti. Io prima di entrare al Ferrante, insegnavo in una scuola di periferia e molte mattine andavo a svegliare i ragazzi per portarmeli a scuola, perché nessuno badava a loro».

Qual è la responsabilità dei genitori?

«Io vado sempre cauto nel dare delle responsabilità ai genitori perché so quanto sia faticoso il mestiere di allevare i figli, ieri come oggi. Forse si può dire che il problema è l’incapacità di capire cosa stia cambiando nei loro ragazzi. Quello che i genitori non fanno mai abbastanza è indagare la vita relazionale dei loro figli, che incide tantissimo. Ma questo vale anche per i ceti medi. Gli omicidi in ambito famigliare avvengono in quegli ambienti. A volte i ragazzi non si fan seguire, a volte il rapporto si è rotto fin dall’infanzia. Il papà di un ragazzo omicida mi ha chiesto: padre dove abbiamo sbagliato? Io non gli ho risposto niente, l’ho abbracciato e abbiamo pianto insieme».

Lei è stato vicino ad Erika ed Omar, protagonisti di un fatto di cronaca che ha scosso l’opinione pubblica

«In quel periodo la gente mi chiedeva se quei due ragazzi erano normali. Perché volevano sentirsi dire che non erano normali, così i loro figli erano salvi. Ma in queste cose distinguere la normalità dall’anormalità è un assurdo, perché quei due ragazzi potevano essere i nostri figli. Quella vicenda mi ha insegnato che non bisogna mai giudicare».

Come ha visto cambiare la città da dentro il carcere?

«Quando sono arrivato, il territorio soffriva ancora molto. Erano anche anni di grandi proteste. Ricordo i picchetti davanti alla Fiat, la marcia dei quarantamila. Poi alla fine degli anni Ottanta la riforma del Codice penale ha letteralmente svuotato il carcere, siamo arrivati ad avere un solo detenuto. Nel decennio successivo, gli arrivi erano legati principalmente al dilagare della droga. Sono anni di reati molto gravi, come gli omicidi. In quel periodo si sentiva forte la collaborazione del territorio. C’erano diversi artigiani che assumevano questi ragazzi per fargli fare dei tirocini, la gente era abituata a venire a vedere i tornei in carcere, a partecipare. Poi il cambiamento più grosso arriva negli anni Duemila. Con l’immigrazione sono arrivati i ragazzi stranieri e la cittadinanza ha incominciato a distaccarsi. Come è cambiata la città così sono cambiati i ragazzi: rispetto a ieri, oggi sono molto meno violenti. Io dico sempre che i giovani del Ferrante non sono tanto diversi da quelli che sono fuori».

Chi sono oggi i ragazzi reclusi?

«In questo momento abbiamo una quarantina di ragazzi. Uno su tre è italiano. Gli altri sono stranieri, anche comunitari. Gli immigrati sono più esposti perché hanno meno risorse, meno tutele, meno garanzie di diritti».

Servirebbe lo ius soli?

«Avessimo lo ius soli potremmo lavorare più facilmente sulla prevenzione».

Non deve essere semplice fare il cappellano tra i ragazzi musulmani.

«All’inizio alle mie celebrazioni venivano solo i cattolici, adesso partecipano un po’ tutti. Anche se mi sono battuto e ho ottenuto che avessimo un imam una volta ogni quindici giorni».

Il carcere minorile andrebbe superato?

«Io sono dell’idea che per i reati come i furti, dove non ci sono violenze sulle persone, dovrebbe essere totalmente superato. E per gli altri reati bisognerebbe pensare di più alla giustizia riparativa. Ti accorgi che certi sono proprio piccoli, ma che cosa ci stanno a fare là? Invece per alcuni, paradossalmente, è un momento di pace, dove si fermano un po’. I ragazzi hanno una grandissima adattabilità e così si abituano anche al carcere. È la loro salvezza».

La magia della vita: don Silvio Mantelli (Mago Sales) e don Luca Barone su Rai Due

La magia ed il miracolo del sorriso al centro della puntata andata in onda su Rai Due domenica 26 Maggio nel programma “Sulla Via di Damasco“, in compagnia del salesiano don Silvio Mantelli, in arte Mago Sales. Mago per passione, don Silvio è riuscito a sorprendere la conduttrice e i telespettatori con uno dei suoi tanti giochi di prestigio, raccontando dei suoi spettacoli e della missione di essere gioia in un mondo triste, individualista, aiutando le persone, nel solco del messaggio di Don Bosco, a riscoprirsi bambini recuperando la capacità di meravigliarsi, di stupirsi, di sognare.

Ed il carisma salesiano ha conquistato anche il primo protagonista della puntata, don Luca Barone, che ha presentato Colle Don Bosco (Asti), il luogo dove è iniziata la missione del santo e amico dei giovani, raggiungendo 134 nazioni del mondo. Nell’altro servizio, Christopher Castellini, amico del Mago Sales e illusionista mentale, ha raccontato la sua sfida personale contro la distrofia muscolare.

E dopo le sorprese di un altro mago, Walter Rolfo, il programma di Vito Sidoti si è concluso con l’illusionista, Arturo Brachetti, e la magia che Dio ha operato su di lui con la vocazione di far sognare e di far sorridere uomini, donne e bambini di tutto il mondo.

L’asilo della Sacra Famiglia in visita al CNOS-FAP Savigliano

Si riporta la notizia proveniente dal settimanale d’informazione Il Saviglianese in merito la visita al CNOS-FAP di Savigliano da parte della scuola d’infanzia della Sacra Famiglia.

SCUOLA – I bambini della scuola dell’infanzia Sacra Famiglia, presso la scuola professionale salesiana Cnos-Fap di Savigliano, hanno messo le “mani in pasta” e, per un giorno, sono stati protagonisti di un vero e proprio laboratorio di “arte bianca”. Sotto l’esperta guida del professore Matteo Sorasio e degli allievi, dalle manine dei bambini hanno iniziato a prendere forma dolci biscotti alla marmellata e deliziosi salatini. Istruiti nei vari passaggi che vanno dalla conoscenza degli ingredienti, all’impasto e alla cottura, i bimbi sono tornati a scuola con il frutto del loro lavoro e, soprattutto, entusiasti di aver fatto un’esperienza oltre che bella anche… molto buona!

«Ringraziamo tutto lo staff del Cnos-Fap – fanno sapere dalla scuola dell’infanzia – in particolare i dirigenti don Lele e Andrea Trucco, gli allievi e i collaboratori, per aver permesso ai nostri bambini di vivere momenti come questi, che arricchiscono il loro bagaglio di conoscenza, alimentano la voglia di sapere e sprigionano lo stupore della loro tenera età!».

“Pedalare insieme” – L’iniziativa salesiana a Lombriasco

Si riporta la notizia proveniente dal Corriere di Saluzzo con la presentazione dell’attività estiva proposta dalla casa salesiana di Lombriasco: una biciclettata estiva per le strade della Valtellina.

LOMBRIASCO – Ottavio Forzatti, un dinamico coadiutore salesiano, introduce il programma del prossimo giro della Valtellina che si svolgerà nelle vacanze estive e che, fin da ora potrebbe interessare chi volesse condividere questa interessante esperienza. Il consiglio per chi desiderasse saperne di più, è di contattare Ottavio presso l’istituto dei Salesiani a Lombriasco.

«Tutti i nostri giri in sella alla bici – racconta Ottavio – ebbero inizio dal terribile incidente, nel 1979, costato la vita a tre salesiani coadiutori del Colle Don Bosco: Nane Bernardi, Leo Defend e Bepi Scremin».

Quest’anno ricorre il 40° della loro morte, e Ottavio ricorda:

«Nane era colui che mi diceva continuamente: dobbiamo organizzare un giro in bicicletta fino a Venezia, per occupare i ragazzi durante l’estate, come faceva Don Bosco nelle passeggiate autunnali, facendoli sia faticare che divertire, per toglierli dall’ozio delle vacanze estive» .

Tre anni dopo quella data, si è realizzato il sogno di Nane, non solo andando in bici fino a Venezia, ma andandoli a trovare nei loro cimiteri e visitando le loro famiglie a Bassano del Grappa, Salzano e a S. Vito al Tagliamento. Con i ragazzi e con alcuni volenterosi genitori, i nostri infaticabili ciclisti sono tornati da loro dopo 10, 20, 30 anni, sempre accolti in maniera favolosa. Sono 35 anni che ogni anno viene organizzato un giro ciclistico molto speciale in Italia e in Europa con lo spirito di Don Bosco, per essere fedeli a Don Bosco, il quale, per le colline del Monferrato, compiva delle autentiche imprese, movendo a piedi centinaia di ragazzi. Nei paesi dove passavano, improvvisavano spettacoli vari, teatrini, canti e suoni con la banda. E alla sera quella buona gente non faceva mancare loro un piatto di minestra e una fetta di polenta e per dormire… bastavano i fienili!

“Pedalare Insieme per Costruire Insieme” è il motto che guida questi ardimentosi, fin dal primo giro, ed è bello vedere di quali cose sono capaci i giovani… anche quelli di oggi!

Gianni Varetto

M’interesso di te – Salvati dai Salesiani 114 minori «invisibili»

Si pubblica qui a seguire un articolo proveniente da “La Voce e il Tempo” riguardo il progetto M’interesso di te, di cui è stato il report annuale a Roma, il 31 gennaio 2019. Articolo a cura di Stefano Di Lullo.

Centoquattordici minori stranieri soli che vagavano per le strade della città, senza alcuna protezione, grazie all’impegno dei Salesiani ora non sono più «invisibili»: alcuni hanno un lavoro, altri sono inseriti nei percorsi formativi e professionali, soprattutto sono lontani dal pericolo di cadere nei circuiti criminali e dello sfruttamento sessuale.

Si tratta di «M’interesso di te», il progetto nazionale partito un anno fa in forma sperimentale a Torino, Napoli e Catania, finanziato dalla Federazione Scs/Cnos, Salesiani per il Sociale, grazie al fondo di beneficienza di Intesa Sanpaolo, rivolto ai quei ragazzi migranti soli usciti da qualsiasi servizio di accompagnamento.

Il report del primo anno è stato presentato a Roma presso la sede dell’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza (Agia) il 31 gennaio nella festa di Don Bosco.

«Mentre vivevo per strada attorno alla stazione di Porta Nuova un amico mi ha telefonato segnalandomi delle persone che potevano aiutarmi. Così ho incontrato un’educatrice, Giulia, che mi ha suggerito di andare in oratorio. Grazie all’aiuto di don Mauro e degli altri operatori mi sono iscritto a scuola e adesso sto svolgendo un tirocinio come addetto per lo stampaggio».

È la testimonianza di Ousman, partito dal Gambia e approdato in Sicilia nel 2017. Dopo aver vissuto 8 mesi nelle strade di Torino è stato intercettato dagli educatori dell’oratorio San Luigi a San Salvario che seguono il progetto «M’interesso di te». La scorsa estate Ousman ha anche prestato servizio come animatore nelle attività dei centri estivi. In Italia secondo l’Atlante minori stranieri accompagnati di Save the children nel 2017 sono arrivati 17.337 minori di cui 15.779 senza alcun accompagnatore. A questa cifre vanno aggiunti i Msna che non vengono intercettati alla frontiera: si tratta di oltre 5 mila ragazzi, a Torino diverse decine, un quarto dei minori accolti nelle strutture di accoglienza.

«Si tratta di adolescenti», sottolinea don Mauro Mergola, direttore dell’oratorio salesiano San Luigi, «che non sono mai entrati nelle comunità di accoglienza dedicate o che le hanno abbandonate perché troppo ‘strette’ per loro».

Molti di essi vivono in precarie condizioni igieniche in alloggi di fortuna. Tutto parte da «Spazio Anch’io», la postazione dei Salesiani al Parco del Valentino dove gli educatori tutti i pomeriggi  stanno accanto ai ragazzi che si incontrano sulla strada accompagnandoli a riprendere in mano la propria vita. È lì che avviene il primo approccio. Presso l’oratorio Ss. Pietro e Paolo è allestita un’accoglienza diurna dove i minori tutti i giorni possono trovare riparo, un luogo dove fare due chiacchiere, mangiare qualcosa, fare una doccia, lavarsi i vestiti.

«Oltre a ciò», spiega don Mergola, «abbiamo strutturato percorsi di inserimento lavorativo per offrire ai ragazzi opportunità di crescita che tengano presente l’orizzonte occupazionale su cui poter impostare un cammino strutturato verso l’autonomia».

I giovani, attraverso il centro CnosFap dei Salesiani, hanno svolto tirocini nelle aziende Astelav di Vinovo, seguendo il progetto di rigenerazione di elettrodomestici usati, e Stige di Mappano, attraverso un la tipografia industriale.

Tre ragazzi sono stati accolti nel progetto di housing sociale presso la casa parrocchiale del Sacro Cuore di Maria (via Campana 8). Dopo l’esperienza positiva del primo anno il progetto è stato rifinanziato dal fondo di Intesa Sanpaolo coinvolgendo anche i neo maggiorenni (18-25 anni)

«che spesso», evidenzia don Mergola, «si trovano ad interrompere i percorsi formativi in quanto la legge, in particolare con l’entrata in vigore del Decreto Sicurezza voluto dal Ministro Salvini, non può più tutelarli».

Stefano Di Lullo

La Voce e il Tempo
Tutte le info sul Progetto

 

Caselli: La toga e le altre tappe della mia vita

 Si pubblica qui un articolo proveniente da “La Repubblica” riguardo l’intervista fatta a Gian Carlo Caselli, in cui racconta i suoi anni con la toga, le indagini prima sulle Br e poi sulla mafia. Ma anche il mestiere di piazzista all’Olivetti quando era uno studente lavoratore. E poi l’amicizia con don Ciotti, gli insegnamenti dei salesiani. E la scelta di continuare anche in pensione a occuparsi di frodi.

Intervista a cura di Francesca Bolino.

Di Gian Carlo Caselli sappiamo tutto della sua vita pubblica, molto meno di come ha vissuto intimamente le scelte che hanno determinato un impegno di quarant’anni: dalle inchieste sul terrorismo, a quelle sulla mafia e i rapporti con la politica, fino ai massimi gradi. Caselli è giustamente geloso di quell’intimità famigliare che gli ha consentito scelte difficili, ma ricevendoci nella sua casa insieme alla signora Laura, ci permette di comprendere qualcosa in più.

Dottor Caselli, partiamo dall’inizio.

«Sono nato ad Alessandria ma ho frequentato la prima e la seconda elementare a Vignale Monferrato, dove la mia famiglia si era stabilita per lavoro durante la guerra. E nel 1946 siamo tornati a Torino».

Dove siete andati ad abitare?

«In via Vigone in un alloggio all’interno della fabbrica dove lavoravano i miei genitori. In seguito ci siamo trasferiti in via Borgone presso la sede principale della fabbrica».

Di cosa si occupava suo padre?

«Era l’autista personale del padrone».

Dove ha proseguito le scuole?

«All’istituto Cesare Battisti. Poi è cominciata la mia lunga esperienza presso le scuole salesiane, dove frequentato la quarta e la quinta elementare. E poi ho continuato a studiare a Valsalice. Dai salesiani ho imparato molte cose e hanno contribuito notevolmente alla formazione della mia identità. La celebre frase di don Bosco “l’educazione salesiana deve tendere a formare bravi cristiani e onesti cittadini” è stata ed è ancora per me un principio fondamentale».

Dunque ha un grande debito di riconoscenza verso i salesiani?

«Certo. E non solo etico e religioso. Poiché la mia famiglia era economicamente modesta, mi hanno consentito di proseguire gli studi e di frequentare il liceo, accettandomi a mezza retta. Forse il mio destino sarebbe stato diverso: avrei studiato in una scuola tecnica per poi entrare in Fiat, per esempio come operaio specializzato».

È mai vacillata la sua fede in quegli anni?

«È accaduto, sì. Ho attraversato un momento di crisi, quando avevo diciotto anni. Durante la messa solenne di Pasqua, in chiesa, tutti gli alunni si alzavano per fare la comunione. Mentre o e altri due siamo rimasti fermi, immobili, seduti sulla panca. Pensavamo che saremmo stati puniti».

E invece?

«Nessuno ci ha detto nulla. La grande capacità pedagogica dei salesiani consisteva nel fatto che ciascuno potesse maturare le sue convinzioni liberamente. Senza costrizione alcuna…».

Ricorda qualche compagno di scuola?

«Certamente. Il grande teologo Ermis Segatti».

Si è poi laureato in Giurisprudenza…

«Sì, nel 1958. Con un po’ di ritardo perché ho fatto, per un breve periodo, lo studente- lavoratore per non gravare sulla mia famiglia».

E dove ha lavorato?

«All’Olivetti come produttore. Vendevo macchine per scrivere, calcolatrici e mobili da ufficio. E devo ammettere, vendevo molto bene…».

Dopo la laurea cosa è accaduto?

«Aspetti. Ho conosciuto l’amore…”.

Ah! Chi, dove?

«Era il 1963. Nell’atrio del cinema Lux dove proiettavano “Che fine ha fatto BabyJane?” con Bett Davis e Joan Crawford, allora considerato un grande film dell’orrore, ho incontrato Laura. Mi è stata presentata da amici comuni».

E cosa l’ha colpita?

«Beh, era una donna bellissima e intelligente. Si avvertivano in lei grande calma e serenità, qualità che sarebbero servite poi nel futuro, nel corso della nostra vita, complicata…».

E quando vi siete sposati?

«Nel 1967 a Valsalice. Siamo andati ad abitare in via Domodossola. Lei insegnava matematica. Pensi, all’inizio della nostra vita matrimoniale (avevo vinto il concorso per la magistratura nel dicembre del 1967) il mio stipendio era nettamente inferiore a quello di Laura che faceva l’insegnante. Poi le cose sono cambiate…».

Perché mi racconta questo aneddoto?

«C’è un motivo. Devo fare un passo indietro. Prima di sposarmi, ho fatto il servizio militare a Lecce. Era per me impossibile tornare a Torino in licenza. La distanza e il poco tempo a disposizione non mi consentivano di incontrare Laura. Così lei, insieme a sua madre, hanno deciso di venirmi a trovare durante le vacanze estive a Santa Maria di Leuca. Scherzando le dico spesso (ma lei si arrabbia ancora e non gradisce l’ironia) che l’ho sposata per riconoscenza».

Quando sono arrivati i figli?

«Paolo nel 1970 e Stefano nel 1975. Anni, come sappiamo, molto delicati. I miei figli sono cresciuti in mezzo ai mitra e al filo spinato. Ho la scorta dal 1974 ed è in quegli anni che sono esplose le BR. Sono diventato uno dei giudici delle Br e di Prima Linea un po’ per caso. Mentre il mio incarico a Palermo… è stata una scelta».

Perché un po’ per caso?

«Mi erano stati assegnati il sequestro del sindacalista Bruno Labate e quello di Ettore Amelio, quest’ultimo un dirigente della Fiat. Quando affermo per caso, intendo dire che il sequestro a Genova del magistrato Mario Sossi nel 1974 è finito sul mio tavolo, per connessione. Mi spiego meglio: proprio perché stavo seguendo i due casi di cui parlavo prima. Nessuno allora poteva pensare che le Br potessero diventare un fenomeno criminale di portata nazionale».

E invece quel fenomeno è durato quindici anni…

«Sì, fino al 1983. Ecco, i miei figli sono cresciuti in questo clima. Vedevano il loro papà accompagnato dalla scorta che è stata efficiente e spietata. Un ossimoro. Ma sono loro che ci hanno aiutato andare avanti in mezzo, superando le innumerevoli difficoltà».

Arriviamo al 1992, l’anno terribile delle stragi di mafia, vengono uccisi Falcone e Borsellino. È vero che in quel momento lei ha detto “Ora tocca a me”?

«Non so se ho detto proprio questa frase, ma l’ho pensata sicuramente. Devo tornare indietro però. Quando è finita la fase dell’antiterrorismo, dal 1986 al 1990 sono stato al Consiglio Superiore della Magistratura. Ed è in quel periodo che ho iniziato a conoscere Palermo, in quanto ci occupavamo continuamente di casi gravissimi. Quando si è conclusa quell’esperienza, nel 1991 sono tornato a Torino e per alcuni mesi ho lavorato all’ufficio studi del Gruppo Abele. Il punto è che lì, don Ciotti ospitava in semi libertà Susanna Ronconi e Sergio Segio, due big di Prima Linea che avevo contribuito a processare per gli omicidi dei due magistrati Galli e Alessandrini».

E allora?

«Don Ciotti è riuscito a fare il miracolo di farci trovare tutti nella stessa sede».

Cosa può fare la fede…

«Certo, ma anche il carisma di Don Ciotti. In seguito sono stato nominato magistrato di Cassazione e poi sono diventato presidente della prima sezione della Corte di Assise di Torino».

Ritorniamo al giorno in cui è stato ucciso Borsellino…

«Uno dei miei figli ha chiamato mia moglie e le ha detto: “Mamma, davvero hanno ucciso anche Borsellino? E ora che succede? Papà andrà a Palermo?”. In effetti, io pensavo di fare domanda…».

Ma?

«Questa questione è stata ampiamente discussa in famiglia, con gli amici e con Don Ciotti, generando preoccupazione».

Cosa le hanno suggerito i suoi figli?

«Uno dei due, dopo varie discussioni, forse anche esausto, mi ha detto: “Papà, in Italia siamo tutti bravi a dire cosa si deve fare, ma non altrettanto bravi a farlo davvero. Vuoi andare a Palermo? Vai”. Questa coerenza tra il dire e il fare, in bocca a mio figlio, ha certamente pesato insieme a molti ad altri fattori».

Intende dire etici? Morali? Ha considerato il suo lavoro come una missione?

«Certo, sono diventato magistrato per cercare di fare qualcosa di utile. E poi mi ricollego alla frase di don Bosco: per essere un buon cristiano e un buon cittadino… per difendere la nostra democrazia… Il mio impegno dipende dalla convinzione che ci si deve sporcare le mani, ci si deve mettere in gioco. Aggiungo un dettaglio…».

Quale?

«Antonino Caponnetto (il magistrato che aveva guidato a Palermo il Pool antimafia, dal 1984 al 1990, ndr) quando è stato ucciso Borsellino, aveva detto ad un cronista: “È tutto finito, non c’è più nulla da fare.” Questa frase tragica, dettata dallo sconforto del momento, mi ha lavorato dentro… Pensavo che invece bisognasse darsi da fare e l’ho vissuta come una chiamata».

Che ha comportato una separazione dalla famiglia: lei è andato a Palermo e loro sono rimasti a Torino. Come ha vissuto questa scelta?

«Scelta giusta o sbagliata di lasciare la famiglia a Torino? Non so. In quel momento abbiamo preso quella decisione. A distanza di tempo, però posso affermare che certamente per loro è stata più dura. Hanno sofferto la distanza, vissuto nell’angoscia e nella preoccupazione».

E lei come l’ha vissuta?

«Gli accadimenti drammatici, terribili, angosciosi, se uno c’è dentro, li metabolizza. È stato per me un sacrificio necessario. Non soffrivo nella misura in cui ero convinto di fare una cosa utile e giusta. Ma certamente non ero più un uomo libero».

Non aveva paura?

«Pensavo spesso a una frase che aveva detto Borsellino: “Certo che ho paura quando si contrasta la mafia che uccide. L’importante è avere un po’ più di coraggio rispetto alla paura”. E questo coraggio l’ho avuto anche grazie alla scorta».

Ogni quanto riusciva a tornare a Torino?

«Due fine settimana al mese. Mia moglie, malignamente, diceva che tornavo a casa solo in coincidenza delle partire del Toro. (Sorride). Comunque Laura mi riforniva di prelibatezze».

Menu sabaudo?

«. Il cuore, rognone, carpione e il brasato. Il bollito misto è il mio piatto preferito, ma anche la bourguignonne: merito di mia moglie, un’ottima cuoca».

E parlando di cibo, arriviamo a uno dei suoi recenti impegni. È presidente del comitato scientifico dell’Osservatorio sulla Criminalità nell’Agricoltura e sul Sistema Agroalimentare di Coldiretti. Qual è il cibo sicuro?

«Aspetti. Devo raccontarle un aneddoto. Sono andato in pensione nel 2012. Gli amici di Libera Piemonte hanno deciso di farmi una festa. Mi hanno fatto due regali. Il primo è una pettorina con tanto di paletta segnaletica da vigile urbano, poiché una delle leggende metropolitane vuole che i pensionati vadano davanti alle scuole a regolare il traffico. Il secondo: una cartina di Torino con tante crocette ciascuna delle quali corrisponde a un cantiere… La proprietà intellettuale è riconducibile alla fonte specificata in testa alla pagina. Il ritaglio stampa è da intendersi per uso privato E anche qui si dice che i pensionati vadano a controllare l’avanzamento dei lavori».

Ma lei non si sentiva ancora pronto per fare il vigile…

«(Ride). Infatti. Insomma, Coldiretti (e c’entra sempre Don Ciotti) mi ha offerto quell’opportunità. E ho accettato anche perché era un modo di continuare l’impegno che ho assunto per tutta la mia vita».

Certo. E dunque quale è il cibo sicuro per lei?

«Un’etichetta narrante che ci informa e ci dice l’origine, la trasformazione, gli ingredienti, le qualità organolettiche e anche la data di scadenza. E, diciamo, se il cibo costa un po’ di più, è una garanzia».

E il suo piatto preferito?

«Il bollito senza dubbio. Ma anche la bourguignonne poiché Laura prepara tutte le salse. Qualche giorno fa, ne ha fatte quattordici diverse in occasione di un pranzo organizzato per riunire tutta la famiglia, nipoti compresi… Ah, queste salsine sono la fine del mondo».

Quanti nipoti ha?

«Giulia che ha 24 anni. È nata nel 1995 quando io ero a Palermo. È stata una grande sofferenza perché non sono riuscito a godermela. Poi c’è Emma nata nel 2001 e Leonardo nel 2015».

Dunque è ad Emma che è stata dedicata la ninna nanna scritta nel 2011 da Gianmaria Testa?

«Esatto. Eravamo molto amici. Quando è nata Emma ci ha fatto un regalo meraviglioso: ha composto questa splendida canzone e poi l’editore Gallucci ne ha fatto un libro».

Quali valori trasmette ai suoi nipoti?

«Le stesse cose cui mi sono ispirato io: rispetto per gli altri, coerenza, coraggio, senso del dovere e cercare di fare qualcosa di utile. O almeno provarci…».

Da oltre un secolo con i giovani come famiglia

Si pubblica un articolo proveniente dal “settimanale della diocesi di Novara“, a cura di Andrea Gilardoni, riguardo ai cento anni di presenza della casa Salesiana sul territorio novarese:

La città che si trasforma, la società che muta e i giovani stessi, con le loro famiglie, che cambiano volto, fraglità, bisogni. Un secolo è un arco di tempo lungo per tracciare un bilancio di una presenza su un territorio, ma per la famiglia salesiana (che quest’anno festeggia proprio i cento anni di una delle sue scuole a Novara, l’Istituto di Maria Ausiliatrice), quello che emerge è ciò che non è mutato nel tempo: la forza, alimentata dal carisma trasmesso dal fondatore, nell’essere accanto alla nuove generazioni, accompagnandole a diventare adulti e dando loro gli strumenti per prendere in mano la propria vita. all’indomani della prima guerra mondiale, così come oggi, al tempo dei nativi digitali e della società liquida.

“Quando aprì la scuola era in viale Roma: si pensava ad un’altra presenza, dopo quella dell’Istituto Immacolata in centro – spiega la direttrice, suor Daniela Rei delle Figlie di Maria Ausiliatrice -. C’era il giardino di infanzia, corsi di cucito per le ragazze e poi l’attività di catechesi”. Negli anni ’50 la scuola si sposta in via Battistini, dove si trova oggi: nuova sede, nuove strutture – che oggi accolgono circa 470 alunni tra materna ed elementari -, ma con lo stesso stile. “Famiglia” e “casa” salesiane. Sono questi i termini che usiamo sin dalla nostra fondazione. E non a caso: l’idea è quella di esser come una seconda famiglia per i ragazzi e bambini – prosegue suor Daniela -. E’ un servizio ai genitori, ma è anche la nostra vocazione di attenzione ai giovani. La qualità della proposta formativa “curricolare” della Maria Ausiliatrice e di tutte le nostre scuole, non può prescindere da questo stile di relazione con i piccoli e con le famiglie.

Un servizio vissuto non come un’organizzazione sperata e chiusa, ma in stretta collaborazione con la comunità cristiana:

Collaboriamo al catechismo nella parrocchia del Sacro Cuore e siamo nel consiglio pastorale.

Ed è questo il secondo filo rosso che cuce la storia dei salesiani a Novara. Anche per l’istituto maschile, che ha appena terminato di festeggiare, nel 2018, il 125° della fondazione.

Il percorso insieme alla pastorale giovanile diocesana, ma anche con l’UPM Novara Sud. E poi il lavoro con Sant’Egidio per i giovani migranti e la collaborazione con le parrocchie della città e dei paesi vicini per dare risposte ad alcuni casi di bisogno. Non sono elementi residuali o marginali del nostro lavoro, ma un impegno costante,

spiega il direttore del San Lorenzo don Giorgio Degiori. In istituto che sin dalla fondazione e dalla scelta del nome – quello del santo, terzo vescovo della diocesi – dice di un stretto legame con Novara. E di una pervicacia e testardo coraggio evangelico, anch’essi ereditati dal fondatore:

Don Bosco venne a Novara nel 1865, per parlare con il Vescovo di allora su possibili sviluppi della Congregazione in questa Diocesi. Fu don Rua a decidere di fondare, nel 1893, la nostra casa. Il primo salesiano a giungere qui fu don Giovanni Ferrando. Arrivò da Torino: aveva 29 anni, 50 centesimi in tasca e chiese ospitalità agli oblati di San Marco,

racconta don Giorgio. Anni da pionieri, che oggi proseguono con un impegno su più fronti:

Oggi la nostra casa si sviluppa su quattro settori:

  • la scuola media ed il liceo scientifico;
  • l’oratorio;
  • il convitto universitario;
  • il Santuario di Maria Ausiliatrice.

C’è poi una grande attività sportiva pomeridiana. E oltre che con Sant’Egidio, abbiamo iniziato due progetti: uno con la comunità islamica della città ed uno con i giovani ucraini, la cui presenza è davvero significativa nella nostra città.