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Vestiva i bisognosi e curava le anime: il grande esempio salesiano di don Elio Arcostanzo

Il quotidiano Corriere della Sera riporta la notizia della scomparsa del salesiano don Elio Arcostanzo, 76 anni, vicario parrocchiale da settembre 2017 nella Chiesa Sacro Cuore di Maria di Torino – San Salvario. Si riporta l’articolo pubblicato in data odierna dal quotidiano, a cura di Antonio Chiera.

San Salvario – Vestiva i bisognosi e curava le anime, il grande esempio salesiano di don Elio

Antonio Chiera

«Io sono la Resurrezione e la vita».

Così la comunità Salesiana San Giovanni Evangelista e la chiesa parrocchiale Sacro Cuore di Maria di Torino hanno comunicato l’annuncio della morte di don Elio Arcostanzo, 76 anni, salesiano dal 1960 e sacerdote dal 1971. Era vicario parrocchiale da settembre 2017 nella Chiesa Sacro Cuore di Maria, in precedenza gestita dalla fraternità dei monaci apostolici diocesani di Torino ed ora curata dai salesiani.

Don Elio arrivò nel quartiere San Salvario in città, ed ebbe una grande attenzione, una forte sensibilità per la formazione di gruppi giovanili e di adulti verso la vita cristiana, curando anche personalmente alcuni rapporti e instaurando amicizie profonde. Il suo obiettivo è stato quello di dare forma, insieme alle altre realtà, a un’unica comunità cristiana impegnata al servizio del territorio per renderlo sempre più umano e solidale. Fu proprio la parrocchia Sacro Cuore di Maria a collaborare con la parrocchia SS. Pietro e Paolo di Torino, con lo scopo di sviluppare soprattutto la raccolta e distribuzione di abiti per le persone più bisognose, con un’attenzione particolare verso le singole persone e le famiglie numerose, anche se ancora oggi viene sempre meno l’attenzione per questi; il progetto di Don Elio è stato ampiamente raggiunto in modo solidale, tenendo conto delle richieste di tutti.

Per queste sue qualità oggi tutti lo ricordano con affetto, ammirazione e gratitudine, soprattutto per la sua testimonianza di fedeltà al Signore e per la sua lunga vita donata all’educazione dei giovani, alla formazione di chi frequenta gli oratori salesiani e nel servizio di guida delle comunità cristiane. Don Elio ha collaborato per molto tempo con Don Mauro, che lo ricorda con queste parole:

«Pastore animato da zelo missionario, guida competente e appassionata dei credenti verso il Signore».

Don Elio era amato dai giovani per il suo spirito vivace: amava scherzare e sorridere, per lui il tempo del divertimento non era mai uno spreco.

La celebrazione delle esequie oggi alle 11.30 nella chiesa parrocchiale Sacro Cuore di Maria di via Morgari 11, a Torino.

Missioni don Bosco – Fiona May, il salto più lungo accanto ai bambini dell’Africa

Si riporta la notizia pubblicata martedì 5 novembre su corriere.itCorriere della Sera – con il racconto di Fiona May, ex campionessa di atletica, riguardo all’esperienza vissuta ad Addis Abeba nella scuola delle Missioni don Bosco. Articolo a cura di Paolo Baldini.

Si commuove mentre ripensa a una bambina di 3-4 anni incontrata in Etiopia in un caldo pomeriggio di giugno. La piccola, racconta, si stava portando un biscotto alla bocca, golosa merenda di una giornata di stenti. «Con un gesto gentile, improvviso mi ha fatto capire: ne vuoi un pezzetto? Non possedeva niente ma era disposta a dividere il suo biscotto con una sconosciuta». Quell’immagine, dice, è «la sintesi di un continente, l’Africa, dove vivere costa molta fatica ma la dignità è un bene comune».

Nella memoria di Fiona May, campionessa di un’atletica di leggende, con due medaglie d’oro ai Mondiali, due d’argento alle Olimpiadi (Atlanta 1996 e Sydney 2000) e la gemma di un salto in lungo da record agli Europei di Budapest 1998 (7 metri e 11 centimetri), scorrono i volti e le voci dei ragazzi «dagli occhi e dai sorrisi grandi» incontrati ad Addis Abeba nella scuola delle Missioni Don Bosco, la nuova frontiera del suo impegno multitasking. Anzitutto, c’è la mamma attenta di Larissa (campionessa di atletica a sua volta, vive con il papà-manager Gianni Iapichino) e Anastasia («lei invece fa tennis e abita con me»). Poi l’attrice di fiction e di teatro, protagonista de La Maratona di New York di Edoardo Erba che sarà ripresa nel 2020.

E adesso anche la testimonial salesiana. «Ad Addis Abeba, nella scuola delle Missioni che raggruppa centinaia di alunni dalle elementari fino alla soglia dell’università, ho vissuto giorni intensi e bellissimi. Ho imparato che tendere la mano agli ultimi, ai bambini senza nulla è un impegno meraviglioso. Io, mamma, mi sono ritrovata con tanti ragazzi che il calore di una famiglia non l’hanno mai sentito. Ho incontrato le madri-bambine. Ho camminato sulle strade senza asfalto della capitale sugli altopiani, oltre 3 milioni di abitanti. Sono andata nei mercati dove si vendono mucche e capre, nei negozi con le merci da pochi soldi. Ho visto taxi con 10-15 persone stipate nell’abitacolo per dividere la spesa. Ho ascoltato i discorsi di coloro che ogni giorno a testa alta si recano al lavoro, un lavoro spesso massacrante, e sperano in un avvenire migliore».

Missioni Don Bosco opera in 133 Paesi e assomma 3.500 case per bisognosi, 4.469 tra scuole e centri di formazione e un totale di un milione 140mila ragazzi formati in Europa, Asia, Africa, America, Oceania. Fiona May si appassiona: «Ero con loro durante la stagione degli esami, tra i professori che sono in maggioranza ex studenti. Ho verificato la qualità dell’assistenza. Ho mangiato nella mensa di quei ragazzi in divisa, ben pettinati, educati, preparati. Ne ho constatato la voglia di riscatto». Oltre alle materie tradizionali nella scuola salesiana ci sono corsi di cucina, agricoltura, meccanica. «E per tutti i mestieri che servono nei villaggi e nelle città a creare occupazione e a gettare le basi per lo sviluppo».

Dice Fiona che quei giovani «chiedono solo un po’ di normalità, di poter investire le conoscenze che acquisiscono per aiutare il loro territorio e il Paese». Nella lettera che ha segnato il suo ingresso nel mondo delle Missioni Don Bosco sottolinea: «La prima volta che ci siamo incontrati è stato alla Corsa dei Santi a Roma. Sport e solidarietà stanno bene insieme. Lo sforzo di raggiungere un obiettivo che corona mesi e anni di allenamenti ha qualcosa che somiglia a quello di chi svolge azioni di aiuto ai poveri, come i missionari salesiani. Il risultato nasce dalla dedizione, dalla competenza, dalla pianificazione». Il dialogo con i volontari, sostiene, le ha dato una nuova consapevolezza. «Sono andata a Valdocco in aprile per vedere da vicino l’operato delle Missioni: come l’organizzazione dialoga con i suoi benefattori, aiuta i religiosi a progettare interventi sostenibili, risponde alle emergenze. Un’importante lezione di vita».

La bella signora di origini giamaicane ma nata in Inghilterra e naturalizzata italiana che al curriculum sportivo ha aggiunto gli studi di economia parla dell’atletica come di «un vecchio amore, di quelli che riescono a darti tanto, compresa qualche delusione». Non ancora ventenne, nella Londra degli Anni 80, ruppe molti tabù per cercare la propria identità. La trovò nell’atletica: «Da quando ho smesso, nel 2005, è cambiato poco. La federazione italiana è costretta a una complicata rincorsa: restare indietro ora sarebbe grave».

Coraggio

Durante il viaggio ad Addis Abeba, spiega, ha ripensato a se stessa, ai successi raggiunti. «Oggi più di allora per una donna di colore il cammino è difficile. Le discriminazioni di genere e di razza esistono. Anche quando sei in cima il modo per colpirti è facile. Diranno che non tieni alla famiglia, che non sei una brava madre. Ci vuole forza per affrontare tutto questo. Lo dico alle mie figlie: dovrete essere tre volte coraggiose. E chi ha coraggio fa paura». Lei ne sa qualcosa: «Ho iniziato a saltare a 12 anni. A 17 ho capito che potevo fare sul serio. L’atletica era il mio sogno. Ho vissuto anni di sfida e miglioramento personale. Convinta che la felicità non è solo una medaglia». Fiona assicura che l’Italia non è razzista. «Ci vivo da oltre vent’anni e posso dirlo. Tuttavia in giro prevalgono l’ignoranza e la cattiva informazione. C’è un lungo percorso culturale da compiere. Con il viaggio in Etiopia e il nuovo impegno per le Missioni ho avuto la conferma che ogni progetto può essere realizzato, se ci si crede davvero».

Scuola Media San Benigno: Il Prof Pagani, campione de L’Eredità lascia il programma per tornare dai suoi studenti: «La cultura vince sull’ignoranza»

Niccolò Pagani, giovane docente della Scuola Media Don Bosco di San Benigno, ha scelto di abbandonare a sorpresa la trasmissione TV “L’Eredità” con un discorso dedicato ai suoi allievi. La notizia è stata divulgata non solo dal Corriere della sera (il primo quotidiano italiano per diffusione e per lettorato) – della quale riportiamo di seguito l’articolo dedicato – ma anche da Il Giornale (con una intervista dedicata) e dal “il caffè” del giornalista ed editorialista Massimo Gramellini. Si riportano le notizie pubblicate sul sito dell’opera.

Il campione de L’Eredità lascia il programma per tornare dai suoi studenti: «La cultura vince sull’ignoranza»

Niccolò Pagani, giovane docente del torinese, ha scelto di abbandonare a sorpresa la trasmissione con un discorso di commiato che ha commosso gli spettatori

«Il mio posto è là: ogni mattina in prima linea nella missione quotidiana dell’educazione e dell’onestà»: il campione in carica de «L’Eredità» Niccolò Pagani, giovane docente di San Benigno Canavese, ha scelto a sorpresa di abbandonare la trasmissione per tornare in cattedra.

Il messaggio agli studenti

Il professore ha annunciato la sua decisione leggendo un discorso di commiato, condiviso in occasione della Giornata Mondiale della Gentilezza dal conduttore Flavio Insinna sul suo profilo Facebook, in cui spiega che il suo compito come insegnante è dimostrare «ai giovani, che la gentilezza vince sulla violenza, la cultura vince sull’ignoranza, il sorriso sconfigge la rabbia e l’ironia batte l’odio, insegnando loro a non impugnare i coltelli, ma i libri, e a sostituire gli spintoni con gli abbracci».

«La scuola va protetta e va curata»

Il messaggio, importante soprattutto in questo periodo storico, si chiude con un invito a proteggere l’istituzione scolastica (e con un ringraziamento ai colleghi che dividendosi le supplenze gli hanno permesso di partecipare al programma): «Come ogni creatura fragile, anche la scuola va protetta e va curata. Per questo starò sempre dalla parte di tutti quegli insegnanti, preparati e costanti, che ogni giorno, con amore, fanno questo mestiere».

13 novembre 2019 (modifica il 13 novembre 2019 | 18:04) – di Arianna Ascione

L’eredità

 

Giancarlo l’insegnante di religione che ha consacrato la vita a Don Bosco

Si riporta l’articolo oggi pubblicato dal Corriere della Sera a cura di Floriana Rullo in merito alla recente scomparsa di don Giancarlo Casati della Casa Salesiana di Lombriasco.

Giancarlo l’insegnante di religione che ha consacrato la vita a Don Bosco

(Floriana Rullo) – Con la sua dolcezza ha coinvolto i ragazzi dell’oratorio nelle sue molteplici iniziative.

Don Giancarlo Casati è morto nell’infermeria di Valdocco dove era stato ricoverato nei giorni scorsi per l’aggravamento delle sue condizioni di salute. Aveva 85 anni. Classe 1934, la sua vita è trascorsa al servizio degli altri. Prima in Valle di Lanzo, poi a Lombriasco, nel Torinese. Si era consacrato tra i Salesiani, nella famiglia di Don Bosco, sin da giovane. Prima ha studiato in seminario. E ha sempre pensato che la pastorale e il servizio dovesse passare attraverso i giovani.

Perché loro sono il futuro e il pilastro della Chiesa. Come per Don Bosco, e anche per Padre Juan Bertolone, missionario che aveva conosciuto da giovane e di cui aveva seguito le tracce e gli insegnamenti, l’oratorio rappresentava un luogo dove accogliere i giovani cercando di salvarli che avevano bisogno di un aiuto.

«Era un uomo sempre gentile e disponibile – racconta Alberto, amico del sacerdote-. Persona simpatica e solare. Affrontava la vita con il sorriso e consigliava a chiunque di fare altrettanto. Aveva un’anima dolce ed un carattere tranquillo».

Amante della cultura, sapeva dialogare di ogni argomento con chiunque gli si avvicinasse. Anche chi non conosceva. Per anni, fino alla pensione, è stato insegnante di religione nelle scuole. Soprattutto in quelle superiori dove i ragazzi lo ricordano ancora per le sue interessanti lezioni che andavano oltre l’insegnamento.

«Era sempre circondato di giovani e con loro partecipava a molte iniziative sia di preghiera sia sociali- raccontano i ragazzi della parrocchia-. Coinvolgeva tutti con grande passione. Credeva in ciò che faceva. Pensava che il modo per avvicinare i ragazzi alla Chiesa fosse proprio quello di stare tra loro».

Una volta in pensione si era trasferito a vivere a Lombriasco. Non aveva mai smesso di frequentare i suoi fedeli che, ancora oggi, lo andavano a trovare per avere una parola di conforto. Una preghiera recitata insieme.

I funerali oggi alle 10.30 nella casa salesiana di Lombriasco.

Don Domenico Ricca, cappellano del carcere minorile di Torino: «Dietro le sbarre ho imparato a non giudicare»

Si riporta la notizia pubblicata sul Corriere della Sera di lunedì 27 maggio 2019 redatta da Dario Basile, in merito all’esperienza di don Domenico Ricca da 40 anni Cappellano del carcere minorile di Torino.

«Dietro le sbarre ho imparato a non giudicare»

È diventato il cappellano del carcere minorile di Torino esattamente quarant’anni fa e, da dietro le sbarre, ha visto la città cambiare. Don Domenico Ricca, per tutti Meco, ha uno sguardo severo che si scioglie in un sorriso gentile. Oggi, settantaduenne, continua a dedicare la sua vita ai ragazzi reclusi.

Che ricordo ha del suo primo ingresso nel carcere nel 1979?

«La prima impressione fu traumatica. Il direttore mi accolse dicendomi: caro reverendo io non insegnerò mai a lei come si fa il cappellano e lei non mi insegnerà come si fa il direttore. Gli interni del penitenziario erano veramente brutti, era una struttura molto simile a quella degli adulti. Mi trovai davanti ottanta detenuti, tutti maschi».

Chi erano i ragazzi incarcerati?

«Una ventina provenivano dai campi nomadi della città, gli altri erano tutti italiani. Principalmente ragazzi di periferia, provenivano da Vallette, Falchera e Mirafiori».

Perché i ragazzi finiscono in carcere?

«In quegli anni c’era ancora molta povertà, degrado, mancanza di cultura. Io, da chierico, passavo davanti al carcere Le Nuove e vedevo i parenti che facevano la fila per le visite. Erano persone povere, sofferenti. Se tu oggi vai davanti al Ferrante, in quei due giorni alla settimana in cui ci sono i colloqui, il panorama non è molto cambiato. Il carcere è la discarica. Lì vanno a finire quelli che non hanno avuto risorse o che non sono stati in grado di saperle cogliere. Perché gli mancano gli strumenti. Io prima di entrare al Ferrante, insegnavo in una scuola di periferia e molte mattine andavo a svegliare i ragazzi per portarmeli a scuola, perché nessuno badava a loro».

Qual è la responsabilità dei genitori?

«Io vado sempre cauto nel dare delle responsabilità ai genitori perché so quanto sia faticoso il mestiere di allevare i figli, ieri come oggi. Forse si può dire che il problema è l’incapacità di capire cosa stia cambiando nei loro ragazzi. Quello che i genitori non fanno mai abbastanza è indagare la vita relazionale dei loro figli, che incide tantissimo. Ma questo vale anche per i ceti medi. Gli omicidi in ambito famigliare avvengono in quegli ambienti. A volte i ragazzi non si fan seguire, a volte il rapporto si è rotto fin dall’infanzia. Il papà di un ragazzo omicida mi ha chiesto: padre dove abbiamo sbagliato? Io non gli ho risposto niente, l’ho abbracciato e abbiamo pianto insieme».

Lei è stato vicino ad Erika ed Omar, protagonisti di un fatto di cronaca che ha scosso l’opinione pubblica

«In quel periodo la gente mi chiedeva se quei due ragazzi erano normali. Perché volevano sentirsi dire che non erano normali, così i loro figli erano salvi. Ma in queste cose distinguere la normalità dall’anormalità è un assurdo, perché quei due ragazzi potevano essere i nostri figli. Quella vicenda mi ha insegnato che non bisogna mai giudicare».

Come ha visto cambiare la città da dentro il carcere?

«Quando sono arrivato, il territorio soffriva ancora molto. Erano anche anni di grandi proteste. Ricordo i picchetti davanti alla Fiat, la marcia dei quarantamila. Poi alla fine degli anni Ottanta la riforma del Codice penale ha letteralmente svuotato il carcere, siamo arrivati ad avere un solo detenuto. Nel decennio successivo, gli arrivi erano legati principalmente al dilagare della droga. Sono anni di reati molto gravi, come gli omicidi. In quel periodo si sentiva forte la collaborazione del territorio. C’erano diversi artigiani che assumevano questi ragazzi per fargli fare dei tirocini, la gente era abituata a venire a vedere i tornei in carcere, a partecipare. Poi il cambiamento più grosso arriva negli anni Duemila. Con l’immigrazione sono arrivati i ragazzi stranieri e la cittadinanza ha incominciato a distaccarsi. Come è cambiata la città così sono cambiati i ragazzi: rispetto a ieri, oggi sono molto meno violenti. Io dico sempre che i giovani del Ferrante non sono tanto diversi da quelli che sono fuori».

Chi sono oggi i ragazzi reclusi?

«In questo momento abbiamo una quarantina di ragazzi. Uno su tre è italiano. Gli altri sono stranieri, anche comunitari. Gli immigrati sono più esposti perché hanno meno risorse, meno tutele, meno garanzie di diritti».

Servirebbe lo ius soli?

«Avessimo lo ius soli potremmo lavorare più facilmente sulla prevenzione».

Non deve essere semplice fare il cappellano tra i ragazzi musulmani.

«All’inizio alle mie celebrazioni venivano solo i cattolici, adesso partecipano un po’ tutti. Anche se mi sono battuto e ho ottenuto che avessimo un imam una volta ogni quindici giorni».

Il carcere minorile andrebbe superato?

«Io sono dell’idea che per i reati come i furti, dove non ci sono violenze sulle persone, dovrebbe essere totalmente superato. E per gli altri reati bisognerebbe pensare di più alla giustizia riparativa. Ti accorgi che certi sono proprio piccoli, ma che cosa ci stanno a fare là? Invece per alcuni, paradossalmente, è un momento di pace, dove si fermano un po’. I ragazzi hanno una grandissima adattabilità e così si abituano anche al carcere. È la loro salvezza».