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Valsalice: i ragazzi de “Il Salice” intervistano il Direttore in occasione della Festa di don Bosco

Notizia a cura di Tommaso D’Onofrio e Pietro Montariolo per “Il Salice”.

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Mercoledì 31 gennaio si è tenuta la Festa di San Giovanni Bosco. Per l’occasione, abbiamo intervistato il direttore di Valsalice, don Alessandro Borsello, al quale abbiamo chiesto qualche approfondimento sulla festa, su don Bosco e sul mondo salesiano.

Cosa significa questo giorno per i Salesiani?

La festa del 31 è un modo per rendere evidente un evento molto particolare per i salesiani. Fare festa è un’occasione di confronto anche con altre esperienze: per il triennio quest’anno è venuto il Sindaco mentre il biennio è andato al San Giovannino. Tutto questo ci porta a dire che fare festa per noi significa che la scuola non è solo avere lezioni in cattedra ma anche incontrare diversi punti di crescita, stravolgendo ogni tanto la dinamica delle lezioni. Infatti, anche quando c’è una festa si apprende con la Messa, con il confronto e, nel caso di quest’anno, con il sindaco Lorusso. Dunque divertirsi insieme fa capire l’idea di festa e di don Bosco che difatti la considerava molto importante per trasmettere l’educazione ai giovani.

Quale aspetto o episodio della vita di don Bosco usa come ispirazione nella vita di tutti i giorni?

Ciò che più mi colpisce di don Bosco è il suo carattere molto forte sin da quando era un ragazzo. Infatti, si è lanciato in molte imprese non ordinarie e ha dato vita ad una congregazione che ancora oggi è conosciuta in tutto il mondo. Inizialmente un carattere come il suo può spaventare poiché ha una personalità unica e inimitabile e ci si può chiedere: chi di noi è come lui? Invece, ciò che colpisce in positivo è che lui nel tempo si è circondato di giovani ragazzi aiutandoli tutti; ad esempio don Rua e don Barberis, giusto per citarne alcuni. Però quest’ultimi non erano la fotocopia di don Bosco ed erano molto diversi tra di loro. Difatti, vivere come un salesiano non significa essere identici a don Bosco, ma significa proseguire il suo grande progetto con il proprio carattere. Quindi questo suo progetto si può vedere in tutti i salesiani anche se ognuno lo rende in maniera diversa seguendo la propria storia.

Sulle copertine dei diari dei quasi 1000 studenti di Valsalice è impressa questa frase di don Bosco: “Che sia scuola ma anche Casa, Casa che accoglie”. Un suo commento rispetto a questa affermazione. 

Don Bosco non ha mai sperimentato veramente il significato della parola Casa nel senso di focolare domestico; mi riferisco al fatto che lui si è spostato per tutta la vita: prima a Castelnuovo orfano di padre, poi per gli studi a Chieri e poi ancora a Torino e in tutta l’area della provincia. Ed è forse stata questa mancanza di Casa a far maturare in lui l’idea senza precedenti, non solo di dare una Casa a centinaia di ragazzi che non l’avevano ma di pensare a questa Casa come quel contesto in cui ti trovi bene, in cui riesci a portare avanti i tuoi doveri, a perseguire i tuoi obiettivi e a crescere personalmente. Quindi a trovare il meglio di te da condividere con gli altri; tutto ciò in un ambiente in cui senti di essere accolto e amato. Ogni presenza salesiana, non è solo scuola, ma è Casa perché cerca di creare un ambiente, a partire dal semplice cortile per esempio, fatto di relazioni, non sempre facili da instaurare, che ti mettono nelle condizioni di crescere come persona ma anche spiritualmente. Ecco, questa è la Casa di don Bosco.

Cosa pensa della  famosa citazione attribuita a Domenico Savio “La Santità consiste nello stare sempre allegri”?

Don Bosco parlava tanto di Santità, quella Santità che lo stesso Papà Francesco definisce “La Santità della porta accanto” cioè quel modo ordinario di vivere in pienezza la propria vita: nelle relazioni, nel proprio impegno e nella fede cristiana con un orizzonte chiaro che è quello dell’Eternità. Don Bosco diceva proprio “Vi voglio felici nel tempo e nell’Eternità”. Sono sincero, oggi quei concetti di Eternità, di felicità terrena ma soprattutto perpetua e del “vivere in pienezza la propria vita”, non sono sempre così chiari a noi. Oggi inevitabilmente si tende a scambiare questa idea “della pienezza della vita” e della “ricerca della felicità”, come un’esigenza di perseguire la propria autorealizzazione. Ecco, io ritengo che invece don Bosco in un modo unico avesse conciliato un concetto così distante da una qualsiasi persona comune, come lo è la santità, con qualcosa di quotidiano: essere felici. Ma di quella felicità che deriva dal “fare bene” nella propria vita. Per capirci, quello che don Bosco intendeva come essere “buoni cristiani ed onesti cittadini”, ma soprattutto essere felici di quella allegria che non è unilaterale, ma è da donare, accrescere e condividere con il prossimo. Questa è una grande sfida, direi culturale. La nostra società fa difficoltà a comprendere questi concetti, come è evidente dall’accezione spesso negativa che si associa all’idea di “eterno”. Ma ripeto, questa è una sfida che per noi educatori è da affrontare ogni giorno.

Quest’anno è il secondo centenario dopo che il piccolo Giovannino fece il suo celebre “sogno dei nove anni”. Cosa possiamo trarre da questo episodio per la nostra vita di tutti i giorni?

Senza dubbio nell’esperienza di don Bosco, del suo sogno e di come ha saputo realizzarlo, da una parte c’è la tenacia di un ragazzo, poi giovane e poi uomo, di non lasciarsi sopraffare dalle fatiche ma di sapere guardare più in là, prendendo forse anche quelle difficoltà che aveva, come occasione di crescita; lui, per esempio orfano di padre, e poi diventato per antonomasia Padre dei giovani. D’altra parte dobbiamo tornare all’aspetto religioso e spirituale del Santo, che ha sempre saputo intuire che quello che faceva,  che quella “goccia di infinito” che stava creando, non era forse frutto solamente di un suo sogno ma del sogno di Qualcun altro. Ecco, il sogno di Dio è più grande delle mie idee e delle mie aspettative, e questo mi permette di avere una speranza che non viene messa in discussione da nessuna fatica o da nessuna difficoltà. Il sogno di don Bosco è la perfetta unione tra la forza umana e la speranza, che diventa fede in un Dio che crede in noi più di quanto facciamo noi; e quindi mette nel nostro cuore dei sogni perfino più grandi delle nostre aspirazioni.

“Niente più bello del Cristianesimo”, l’Arcivescovo di Torino Repole a Valsalice

In occasione dei 150 anni della presenza salesiana a Valsalice, la redazione de Il Salice ha intervistato Mons. Roberto Repole, ex allievo di Valsalice. Di seguito l’articolo completo.

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In occasione dei 150 anni di presenza della comunità salesiana a Valsalice, abbiamo avuto il piacere e onore di incontrare e intervistare l’Arcivescovo di Torino, Mons. Roberto Repole, tra l’altro ex allievo di Valsalice.

Per cominciare, don Silvano Oni ha proposto un breve ricordo storico dei Salesiani a Valsalice, dalla scelta, alla nascita come collegio, alla sepoltura e successiva traslazione del corpo di don Bosco, fino alla nascita del liceo e alle personalità passate nella nostra scuola.

Subito dopo un’introduzione del Direttore don Alessandro ed un saluto del Preside Pace, i redattori presenti hanno potuto intervistare l’Arcivescovo.

Che reazione ha avuto quando è stato nominato dal Papa Vescovo di Torino?

Avevo già sentito qualche avvisaglia nei mesi prima, ma non avevo mai messo veramente in conto la possibilità. Ero ad Assisi il 15 febbraio 2022 quando il Nunzio del Papa mi ha chiamato. Avevo detto sì al Signore e non c’era motivo per rifiutare, anche se la mia vita sarebbe cambiata.

Come descriverebbe la sua vita in cinque parole?

Bellezza, gratitudine, trepidazione, responsabilità, e soprattutto fede.

Ha mai avuto ripensamenti circa la sua carriera ecclesiastica?

No, ma momenti di fatica ci sono stati e ci sono ancora oggi: è normale nell’affrontare la vita e le responsabilità.

Ci racconti una sua giornata tipo. Quali sono le principali attività svolte da un Vescovo?

La mia agenda è sempre piena, tra momenti di preghiera, incontri, udienze, celebrazioni, visite a Torino e Susa: le mie giornate sono sempre diverse, ma con la presenza costante di preghiera, pasti e famiglia.

Quando e perché ha deciso di diventare sacerdote?

Un prete di Druento, dove sono cresciuto, mi ha suggerito già a 11 anni di entrare in seminario. Però la decisione definitiva l’ho presa al terzo anno di Teologia, ma non in occasione di un evento particolare.

Da giovane faceva parte di un gruppo parrocchiale?

Sì, degli “Amici del pozzo” a Druento: è stato importante perché da ragazzo adolescente ci si deve staccare dalla famiglia, e se si ottiene da ciò un’autonomia sana si ha l’occasione di un potenziale di crescita grandioso.

Pensa che Valsalice abbia influenzato la sua scelta di studiare Teologia e di diventare prete?

In parte: già in seminario a Druento dagli 11 anni avevo una mezza idea, ma a Valsalice ho avuto l’esempio di molti preti che davano la vita per noi. Anche lo studio della filosofia e della letteratura greca e latina metteva comunque il gusto per un percorso teologico.

Cosa ne pensa della nostra scuola oggi? È cambiata da quando la frequentava lei?

Non la frequento abbastanza per dirlo, però qualche differenza c’è di sicuro: ad esempio gli insegnanti erano quasi tutti preti e in classe si era tutti maschi, fino all’anno successivo alla mia maturità, nell’86.

Si può fare scuola mantenendo un carisma e un messaggio cristiano? 

Secondo me in Italia fare scuola senza riferimenti alla tradizione cristiana è non fare cultura: ciò che siamo è impregnato di pensieri e pensatori cristiani.

Che ruolo hanno i social oggi nell’educazione alla fede di un giovane? I social possono essere il campo di azione di una nuova evangelizzazione?

I social sono molto utili per veicolare velocemente le proposte della Chiesa in rete. Però non dobbiamo illuderci che l’incontro con il Signore possa avvenire con qualche messaggio on line: l’incontro avviene tra persone vive. E poi bisogna far attenzione perché i rapporti li strutturiamo con il filtro dei social, quindi sono incontri frequenti ma non reali: l’abbraccio di un amico è diverso da un messaggio.

Che relazione esiste oggi tra i giovani e la fede? La fede di oggi è meno salda di un tempo o solo più “distratta”?

Gli adulti devono smettere di dire che a voi giovani non interessa. Semplicemente avete una gioventù diversa dalla nostra e certamente ci sono stati dei cambiamenti: prima era normale avere un riferimento nella Chiesa, oggi non più, ma non vuol dire che sia carente l’apertura alla fede. Vedo potenzialità nella ricerca di qualcosa di solido sul piano spirituale: è la Chiesa che deve adattare la proposta della fede a voi e alle vostre esigenze.

Il cristiano e la partecipazione politica: quale deve essere il criterio di avvicinamento e di partecipazione alle tematiche sociali? 

Bisogna sentire il dovere di partecipare anche attivamente alla vita pubblica, e il criterio deve essere il Vangelo, che riguarda la vita. E quindi anche come viviamo insieme e ci strutturiamo. Dalla fede si comprende un nuovo modo di strutturare i rapporti, con amore, giustizia e misericordia, recuperando la parte migliore di noi, non solo come cristiani, ma anche come uomini e cittadini.

Cosa legge negli occhi dei giovani oggi?

Tanta bellezza. L’attenzione al rispetto di tutti, mentre prima si creavano spesso barriere. Poi un’attenzione “pratica” alla natura e alla terra, mentre noi eravamo figli del grande sviluppo. Ma ci sono anche paure: è meno scontata la certezza di essere sostenuti da un affetto stabile, il che è una paura normale nell’adolescenza, ma per voi sembra essere più presente e duratura. Inoltre sembra che il vostro valore dipenda dalle prestazioni richieste più che da voi stessi: ci sono grandi attese su di voi che forse potrebbero schiacciarvi.

Un insegnamento di don Bosco che ha sempre avuto caro?

Alle medie leggevo raccolte di molti santi, poi ho aperto le biografie. Bisogna prendere la persona, non le sue frasi: Don Bosco era un prete intelligente e intraprendente, che ha visto nei giovani il futuro.

 

Segnaliamo anche la notizia a cura di Marina Lomunno apparsa su La Voce e il Tempo:

Il ritorno a Valsalice dell’Arcivescovo Roberto

«Bentornato a Valsalice caro Vescovo Roberto». È il saluto proiettato sullo schermo del grande teatro dell’Istituto salesiano, gremito da una rappresentanza dei 900 studenti del Liceo e delle Medie, insegnanti, genitori, ex allievi.

«Avremmo voluto partecipare tutti ma non si stavamo», ha precisato il direttore don Alessandro Borsello, che venerdì 3 marzo ha accolto mons. Roberto Repole, tornato nel «suo liceo». L’occasione, come ha introdotto don Silvano Oni ripercorrendo la storia dell’Istituto, il 150° anniversario della presenza a Valsalice dei salesiani: fu il predecessore di mons. Repole, l’Arcivescovo Lorenzo Gastaldi, a chiedere a don Bosco di aprire uno studentato in viale Thovez e il santo dei giovani fu seppellito qui dal 1988 al 1929, quando in seguito alla beatificazione l’urna con le sue spoglie fu trasferita nella Basilica di Maria Ausiliatrice.

Cresciuto con la sua famiglia a Druento, come ha spiegato rispondendo alle numerose domande preparate dagli allievi e dalle allieve della redazione de «Il Salice» il giornale web dell’Istituto, mons. Repole è entrato in Seminario a 11 anni e nella sua formazione scolastica giovanile i salesiani hanno avuto un ruolo importante: dopo il ginnasio a Valdocco ha conseguito la maturità classica nel 1986 presso il Liceo Valsalice. Commovente l’incontro con il suo insegnante di Filosofia e Storia, don Giovanni Fontana che ha ringraziato: «Qui ho incontrato insegnanti che mi hanno ‘fatto i muscoli’, ho imparato un metodo di studio serio e rigoroso, elementi importanti anche per il lavoro intellettuale», ha ricordato l’Arcivescovo rispondendo ai ragazzi che gli hanno chiesto cosa è rimasta nella sua formazione di prete e teologo, insegnante ed ora Arcivescovo del carisma salesiano. «Mi è rimasta l’attenzione alle persone più giovani anche perché ho passato molti anni ad insegnare e come eredità salesiana ho in mente alcuni professori, anche anziani, che avevano ancora il gusto di intrattenersi di spendere del tempo con noi allievi. Una testimonianza che poi ho cercato a mia volta di trasfondere con i miei studenti».

Tra le tante domande a 360° a cui l’illustre ex allievo non si è sottratto («perché si è fatto prete», «cosa ha pensato quando Papa Francesco l’ha nominato Arcivescovo», «quali libri sono fondamentali da leggere per ragazzi come noi», «quale musica ascolta») quella centrale: «Cosa legge negli occhi dei giovani oggi e cosa è per lei più importante?»: «Leggo tanta bellezza, l’attenzione al rispetto di tutti ma anche paure perché per voi è meno scontata la certezza di un affetto stabile. E noi adulti non vi dobbiamo schiacciare con le grandi attese che abbiamo su di voi. Ma innanzi tutto, come faceva don Bosco amarvi e cercare di rispondere alle vostre domande di senso». Infine «La cosa più importante per me? Non ho ancora trovano nulla nella mia vita che sia più bello del cristianesimo».

 

Valsalice: per loro siamo tutto – Il Salice

I ragazzi della redazione de Il Salice raccontano il confronto fra gli studenti dell’Istituto Salesiano Valsalice e la vicedirettrice del Ferrante Aporti Gabriella Picco, un poliziotto penitenziario del carcere, don Silvano Oni, cappellano dell’IPM e don Gianmarco Pernice, Responsabile dell’accoglienza comunitaria per minori stranieri non accompagnati all’oratorio San Luigi. Di seguito la notizia a cura del sito de Il Salice.

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Il modello di Don Bosco ha plasmato personalità che oggi operano per i più giovani. In occasione della Festa di Don Bosco, l’Istituto Salesiano Valsalice ha ospitato per un confronto con i ragazzi del Liceo la vicedirettrice del Ferrante Aporti Gabriella Picco, un poliziotto penitenziario del carcere, don Silvano Oni, cappellano dell’IPM e don Gianmarco Pernice, Responsabile dell’accoglienza comunitaria per minori stranieri non accompagnati all’oratorio San Luigi. Le loro testimonianze hanno permesso agli studenti del Triennio di conoscere una realtà delicata e, anche se non sembra, vicina. Un incontro da seguire tutto d’un fiato. Don Oni presenta la figura di Don Bosco, che nel 1844 avviava il suo progetto educativo a Torino, dove i primi oratori accoglievano i ragazzi che vivevano per strada.

La dottoressa Gabriella Picco, con anni di lavoro alle spalle nell’IPM Ferrante Aporti, uno dei 17 in Italia, ci spiega poi che il D.P.R 448/1988 ha riformato la modalità di gestione dei ragazzi che commettono un reato. Qualunque esso sia, il ragazzo non può interrompere il processo educativo in atto. “Il processo penale per minorenni è l’ultima ratio”, spiega, a sottolineare la centralità del recupero ancor prima della punizione. Un iter non semplice e che può lasciare cicatrici profonde: dopo un fermo il minore è accompagnato in un centro di prima accoglienza dove rimane per 96 ore. Il giorno del processo la magistratura e i servizi sociali forniscono al giudice un progetto di recupero individualizzato e nell’attesa del processo sono messe in atto misure cautelari come l’assistenza sociale o gli arresti domiciliari. In situazioni difficili, avviene il collocamento in comunità. I ragazzi che hanno commesso reati gravi o quelli i cui tentativi di recupero sono falliti, entrano in carcere. Insomma, per chi viene da lontano con una storia magari drammatica alle spalle, un ulteriore prova da superare.

L’agente penitenziario ci dice poi che i ragazzi al Ferrante frequentano corsi di cucina, informatica, corsi di alfabetizzazione e percorsi di istruzione superiore. Confida: “Quando entrano per loro è il momento più difficile”. Sono spaesati, non sanno quanto tempo restano. Molti sono tossicodipendenti e la barriera linguistica è forte. Noi non siamo solo poliziotti, siamo le persone che ci sono per loro: “Siamo tutto”. In questo lavoro, dice, ci vuole coraggio perchè si affrontano situazioni delicate: alcuni ragazzi si fanno del male ma il dialogo resta la cosa più importante. Sentirsi dire un grazie è tutto, sentirselo dire da un ragazzo fa venire i brividi. E chiude: “Noi non decidiamo la loro colpevolezza, ma li salvaguardiamo in quanto le regole servono per la loro crescita: in queste situazioni siamo tutti educatori”.

Don Gianmarco parla infine della comunità che ospita 16 minori stranieri. La situazione a Torino, ci racconta, è critica: esistono liste d’attesa per emergenza freddo e molti ragazzi stranieri sono sfruttati. La cosa bella però è che vogliono vivere, sbagliare da soli, sperimentare la loro libertà. La comunità garantisce ai giovani stranieri l’insegnamento di una lingua, una formazione professionale e un affiancamento da parte degli educatori. Negli ultimi due anni, aggiunge, delle 80 persone nella comunità in San Salvario, solo tre sono in carcere. Come al tempo di don Bosco, anche oggi a Torino si avverte il bisogno di aiuto e solidarietà: “Vai per le strade e guardati intorno”, le parole di Don Cafasso a Don Bosco sono foriere di carità e arrivano dritte a noi giovani.

Se vuoi leggere l’intervista a don Gianmarco Pernice di Margherita Finello e Claudio Galloclicca qui.

Ecco l’articolo di Cecilia uscito sulle pagine del giornale La Voce e il Tempo con cui il Salice collabora per il progetto di PCTO:

 

Valsalice: 5 domande a don Leonardo Mancini – Il Salice

La Redazione de Il Salice del liceo salesiano di Torino-Valsalice ha avuto modo di intervistare nelle scorse giornate l’Ispettore ICP don Leonardo Mancini.
Di seguito la notizia riporta sul sito dell’opera con il video-intervista.
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Intervista a cura di Lodovica Naddeo e Federico BasagliaVideo a cura di Serena Xu, consulenza tecnica di Alice Correndo, Carlotta Marian, Federica Molinero.
Durante il suo regolare programma di visite nelle realtà salesiane tra Piemonte, Valle d’Aosta e Lituania l’Ispettore Salesiano Don Leonardo Mancini ha fatto tappa anche nella nostra Valsalice, ventisettesima visita da inizio mandato.

 

Ovviamente i nostri redattori non si sono fatti sfuggire l’occasione di fargli alcune domande i cui temi spaziano dal suo ruolo istituzionale al rapporto con i giovani, tenendo comunque un occhio di riguardo per l’attualità, il tutto in cinque rapide domande.

I 700 anni di Dante a Valsalice su la Voce e il Tempo

Quest’anno Dante compie 700 anni e La Voce e il Tempo, nel numero di questa settimana, ha dato voce alle idee che Il Salice ha elaborato durante lo scorso Dantedì. Inoltre, grazie all’iniziativa del prof. Accossato, è nato un nuovo profilo Instagram, @lanostraeffige, che riporta delle pillole giornaliere su Dante. Di seguito l’articolo pubblicato su “Accade a Valsalice“, ripreso da “La Voce e il Tempo“.

Nell’anno dell’anniversario della morte di Dante anche Valsalice, per quanto per ora a distanza, ha programmato una serie di eventi per ricordare l’autore della Divina Commedia.

Il settimanale La Voce e il Tempo con cui Il Salice collabora nell’ambito del progetto di PCTO nel numero di questa settimana ha dato voce alle nostre idee partite simbolicamente il 25 marzo, il cosiddetto Dantedì, e che continueranno negli ultimi mesi dell’anno scolastico. Ovviamente per proseguire in autunno alla ripresa della scuola con altre idee ed happening che coinvolgeranno docenti, allievi, ex allievi e genitori.

In particolare La Voce e il Tempo ha parlato dell’iniziativa del prof. Accossato che ha creato un profilo Instagram (@lanostraeffige) per commentare ogni giorno per 3 minuti una parola, un tema o una terzina dantesca. Una sorta di Dante in pillole per tutti.

Citate anche Valsonair che ha mandato in onda interventi dei prof. di Italiano (il podcast si trova ancora sul sito) e le prossime iniziative (un Ipertesto dantesco presto on line a cura della 1 classico A e 3 scientifico Scienze Applicate e una maratona dantesca con la lettura di tutti i canti della Divina a cura di allievi, ex allievi e docenti).

L’Esame al giudizio dei maturandi – Il Salice

I ragazzi della redazione Il Salice hanno sottoposto un sondaggio in tutte le classi del Liceo salesiano di Valsalice dell’ultimo anno in merito allo svolgimento del nuovo Esame di Stato. Di seguito un estratto della notizia con riportate le prime due domande del sondaggio.

L’Esame al giudizio dei maturandi

a cura di Elena Battaglia, Beatrice Benadì, Silvia Bravi, Paula Carballo, Leonardo De Rosa, Agnese Donna, Beatrice Mattioli, Luciasole Melgara, Chiara Milone, Mariano Piazza, Diletta Pogliano, Giovanni Ricci, Giorgia Versino

Anche quest’anno, a seguito della pandemia mondiale, l’Esame di Stato si terrà diversamente da come prevede la tradizione: niente scritti, solo un esame orale in cui gli studenti potranno mostrare le loro conoscenze e capacità. I ragazzi hanno dovuto attendere parecchio prima di avere notizie sicure dell’esame che dovranno affrontare e dopo dubbi e preoccupazioni a metà febbraio sono venuti a conoscenza di quello che li attenderà. Noi del Salice ci siamo chiesti cosa davvero ne pensano e abbiamo sottoposto a tutti gli allievi del quinto anno un sondaggio con le domande più frequenti. Ecco i risultati

Domanda 1

A causa della diffusione della pandemia del Covid-19 la maggior parte delle ore scolastiche di quest’ultimo anno sono state svolte a distanza. La Dad ha permesso agli studenti di non perdere l’anno e soprattutto, come si può osservare dal grafico, è riuscita a garantire una preparazione discreta, per il 75%delle persone. La problematica nasce dal fatto che il 20% degli studenti si sente molto insicura e pone molti dubbio al riguardo della preparazione acquisita.

Domanda 2

In molti Paesi dell’Unione Europea la maturità è stata abolita e questa soluzione è stata condivisa dal70% degli studenti dell’ultimo anno di Valsalice, i quali vorrebbero verosimilmente che in Italia succedesse qualcosa di analogo. Il 30% di loro ritiene che non sia possibile valutare sufficientemente la preparazione sul programma scolastico in seguito alla Dad, mentre il 41% pensa che basti basarsi sulle valutazioni periodiche valutando il percorso dell’anno. I restanti studenti ritengono che l’Esame di Stato non debba essere eliminato poiché sancisce la fine del percorso liceale, rappresentando dunque qualcosa di significativo piuttosto che, come pensa solamente il 3% circa,  di essenziale.

Personaggi in cerca d’autore: Carolina Kostner – Il Salice

Nasce una nuova rubrica in collaborazione con Valsonair dal titolo “Personaggi in cerca di autore“. La prima storia ad essere raccontata è quella di Carolina Kostner, campionessa del pattinaggio su ghiaccio. La parte più interessante della sua storia sta nel suo percorso, nel duro cammino che si trova dietro alle sue vittorie. Riportiamo l’articolo pubblicato il 20 febbraio 2021 su “Il Salice“, di Carola Cogno.

Inizia con Carolina Kostner una rubrica in collaborazione con Valsonair. Si intitola “Personaggi in cerca d’autore” ed è uno storytelling che settimana dopo settimana i nostri redattori scriveranno su una personalità a loro cara nell’ambito dello sport, della politica, della società o della letteratura. Dopo alcune lezioni propedeutiche sul racconto, ogni redattore scriverà uno storytelling che poi leggerà ed interpreterà in radio a Valsonair prima di essere intervistato dai dj. Di seguito trovate lo script e al fondo il podcast da ascoltare se preferite la voce alla parola scritta.

La pista è un po’ come un palcoscenico. Ci sono gli spettatori, ci sono i giudici: mille sguardi puntati su di te e milioni di occhi che ti seguono da lontano, da uno schermo. Ma diversamente dai teatri, dove il pubblico si nasconde nell’ombra, nel pattinaggio domina la luce. Luce che illumina gli spalti, che illumina la pista e si riflette sul ghiaccio. Puoi vedere tutti, incrociare ogni sguardo.

Altra differenza: nei teatri ci si aspetta che gli attori e i ballerini si muovano e recitino su un palco, in una posizione rialzata rispetto agli spettatori che li possono osservare solo frontalmente.  Nel pattinaggio non è così: ti ritrovi invece risucchiata in una voragine, al centro di un cono rovesciato, circondata dal pubblico. Dai tutta te stessa perché sei osservata nella tua totalità, proprio a trecentosessanta gradi. Ti tremano le gambe, ti viene la nausea e hai veramente freddo con quel vestitino di tulle. Per fortuna hai i guanti, ma non servono a molto: tremi lo stesso, (più per la paura che per la temperatura in realtà).

Ecco allora che entri lentamente in pista, un piede dopo l’altro, ma improvvisamente non ti ricordi nemmeno più come si faceva ad andare avanti ed è come se dovessi reimparare a pattinare. Sei a Vancouver nel 2010, stai partecipando alle Olimpiadi.  Ti chiami Carolina, Carolina Kostner. Hai lavorato tanto per essere lì, in Canada: ti è costato tanto sudore, tanta fatica e allenamento. Ma ormai sei arrivata. Sei pronta, sei preparata. La musica inizia, ma qualcosa non va. Cadi, cadi, cadi e cadi di nuovo.  Cadi per quattro volte e scivoli all’ultimo posto. Non puoi fare altro che prenderti la testa tra le mani e scoppiare in lacrime. Hai deluso tutti: il tuo paese, i tuoi cari, i tuoi genitori e soprattutto te stessa.

I Media, tra testate giornalistiche e Social, non fanno che scagliarsi contro di te, criticare e mettere in dubbio le tue capacità, tanto che su Facebook vieni addirittura definita Cadolina. Cosa farne allora di questo pattinaggio? Perché non smettere e mollare tutto? Voi cosa avreste fatto, vi sareste rialzati? Perché Carolina l’ha fatto, mossa da una passione infinita per lo sport, da un amore che ha sempre fatto trasparire in tutti i modi. Non solo a parole, ma proprio anche nei gesti, nel suo modo di pattinare. Proprio quell’ amore senza cui non sarebbe andata avanti e non avrebbe raggiunto grandi risultati anche dopo Vancouver.

Si perché dovete sapere che Carolina è caduta tante volte, letteralmente e metaforicamente, nel corso della sua carriera. Carriera che è stata proprio costellata di vittorie e sconfitte e che potremmo immaginare, non come una linea retta sempre in crescendo, ma come un’onda con tutte le sue discese e salite. Successi incredibili ma anche ultimi posti, squalifiche, cadute su cadute e tante, tante critiche. Carolina, prima italiana a vincere l’oro ai mondiali, terza a Sochi, campionessa italiana per nove volte e europea per cinque, medagliata altre cinque volte ai Campionati del mondo. E potremmo andare avanti, ma non basterebbe a elencarne le vittorie, così, senza un contesto, senza contestualizzare. Sarebbe troppo arido, troppo scialbo.

La parte più bella della sua storia sta nel suo percorso, in quel duro cammino che si cela dietro i suoi podi conquistati. Prendiamo il 2012 per esempio, quando ha vinto i mondiali. È stata perfetta. Non una caduta, non una mano per terra o un piede fuori posto. Eppure era la decima volta che partecipava ai mondiali. La decima! Ciò significa che dopo dieci anni di tentativi, per quell’unica volta è riuscita a salire sul podio più alto.  E usciva tra l’altro da un periodo molto difficile della sua carriera, dopo le olimpiadi di Vancouver del 2010.  Una Vancouver che per lei è stata un disastro totale, come sappiamo.

Ma dopo Vancouver la rinascita nel 2012, con la vittoria ai mondiali e agli europei. Poi Sochi e la medaglia di bronzo. Immaginatevi la gioia per una vittoria così significativa, un vero e proprio riscatto dopo Vancouver. Un 2014 che quindi sembrava essere la stagione di Carolina, l’anno in cui aveva raggiunto l’apice della sua carriera, ma che in realtà si rivelò lungi dall’essere tutto rosa e fiori.  Finite le Olimpiadi infatti si innescò tutto un complesso meccanismo che portò Carolina alla squalifica. Un anno e quattro mesi senza gareggiare per un atleta che in dodici anni non aveva perso un mondiale.  Per una sua azione, un suo errore? Sì e No. Carolina fu infatti accusata di complicità e di omessa denuncia nel caso di doping del suo ex-fidanzato, Alex Schwazer. Alex, marciatore dei 50 km e vincitore a Pechino nel 2008, risultò positivo al test anti-doping effettuato poco prima dell’inizio delle olimpiadi di Londra 2012.

Un’altra sfida quindi per Carolina, questa volta giudiziaria. Ma indovinate un po’? Nel Dicembre del 2016 aveva già ripreso gli allenamenti, pronta a rientrare in gara a gennaio dello stesso anno.  E ha continuato a pattinare, partecipando alle gare delle stagioni successive e alle olimpiadi di Pyongyang. Nemmeno la pandemia e un infortunio all’anca l’hanno fermata, per cui ad oggi non si è ancora ritirata.  Vancouver, la squalifica, la pandemia, l’infortunio. Eventi che non l’hanno allontanata dal ghiaccio, ma che certamente hanno lasciato il loro segno, un segno che si percepisce anche nel suo modo di pattinare.  Forse è semplicemente dovuto alla maggiore età, o a una maggiore esperienza, ma io credo che anche le sconfitte subite abbiano giocato un ruolo decisivo nella sua maturazione.

Sebbene infatti abbia sempre avuto un’eleganza innata, è stata comunque capace di coltivare la sua artisticità e accrescerla con il tempo, tanto da essere capace di toccarti, di emozionarti.  E questo è cruciale. Non dimentichiamoci infatti che in questa disciplina l’interazione con il pubblico è fondamentale, perché il pattinaggio non è solo uno sport, ma anche un’arte, molto vicina al teatro e alla danza. Non parliamo infatti solo di una serie di movimenti e virtuosismi fini a se stessi, ma un’armonia di gesti che sono in qualche modo volti ad emozionare. Ecco Carolina ha sempre insistito tanto su questo aspetto, migliorando tantissimo a livello di interpretazione ed espressività e diventando la portavoce del lato più artistico del pattinaggio. Forse anche grazie alle sue cadute, alle sue sconfitte.

Ed eccolo, il potere della sconfitta. Ti distrugge, ti lascia a pezzi, ma è potente. Credo che Carolina sia ben conscia di questo e anche ben consapevole di quanto alcune esperienze siano state significative per lei. Significative perché le hanno permesso di crescere, di raggiungere altri obiettivi.

D’altronde le sconfitte possono lasciarci un qualcosa di positivo: tutto sta in come le affrontiamo. Lei non è rimasta ferma, statica, non ha mollato. È andata avanti, stagione dopo stagione.  Qualche volta è stato il suo momento ed è stata capace di afferrarlo, altre volte invece non è andata altrettanto bene. Molti per questo l’hanno definita incostante, io la definirei umana.  Cosa sarebbe infatti il pattinaggio senza le cadute?  Chiedete a qualsiasi pattinatore: dietro ogni salto eseguito alla perfezione, si celano migliaia di cadute. Cadere vuol dire imparare, vuol dire prendere confidenza con il ghiaccio. Senza caduta non c’è tecnica, non ci sono salti, né trottole né passi. Senza cadute non c’è nulla.  Mi ricordo ancora una delle mie prime lezioni sui pattini: ci sedevamo sul ghiaccio, per imparare a conoscerlo e a non temerlo.

Ecco credo che cadere abbia lo stesso effetto, ti aiuta semplicemente ad affrontare la paura.  Vedete Carolina è sempre stata definita come un angelo, una libellula, perché lei non pattina, ma vola, levita. E forse questa sua capacità deriva proprio dal suo percorso: è caduta, caduta, caduta e ricaduta, ma poi ha  imparato a volare.

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Intervista al Direttore del Liceo Valsalice

Sulle pagine web de ‘Il Salice‘ viene pubblicata un’intervista al Direttore del Liceo Valsalice, don Pier Majnetti, ricoverato in ospedale da un mese, che ha deciso di parlare del futuro e degli obiettivi da raggiungere.

Di seguito il testo integrale dell’intervista:

Vogliamo aprire il 2021 con un’intervista a cuore aperto con il Direttore per parlare di questo anno appena trascorso, segnato dall’epidemia. Un covid che ha colpito anche Valsalice in tutte le sue componenti e che non ha risparmiato lo stesso don Pier, ricoverato per un mese in ospedale. Con però ora un unico obiettivo: ripartire.

Allora Direttore, come sta?

Tutto bene, mi sono finalmente ricongiunto alla mia famiglia dopo l’ultimo intenso periodo.

Cominciamo con qualche considerazione generale sul 2020

La fragilità in cui improvvisamente ci siamo ritrovati immersi ci ha portati alla consapevolezza che siamo ben piccola cosa se anche qualcosa di invisibile come questo virus ha messo in ginocchio l’umanità intera.

Quale può essere un messaggio positivo che si può trarre da tutto quello che è successo quest’anno?

La consapevolezza che ciò che di più prezioso abbiamo non sono le cose, gli eventi, gli hobby o i divertimenti ma le persone che abbiamo al nostro fianco.

Cosa succederà in futuro?

Presto o tardi torneremo a stare insieme come prima ma spero sinceramente con il desiderio di essere più belli per chi abbiamo a fianco, più autentici e delicati. Non c’è nulla di più prezioso nella vita, nemmeno il benessere materiale, se ci sono l’amore e l’amicizia, beni preziosissimi.

Dal punto di vista cristiano?

Per i credenti una prospettiva positiva per il 2021 è che Dio c’è, ci vuol bene e condivide le sorti dell’umanità. Ho sperimentato la sua vicinanza non solo quando le cose van bene (con il pericolo di dimenticarsi di Lui e di ringraziarlo dando tutto per scontato) ma anche quando tutto va male e invochiamo il Suo aiuto. Lui in ogni caso condivide le nostre sorti anche in questo momento così faticoso.

Una speranza per il 2021?

Il 2021 nasce dalla consapevolezza che abbiamo il Signore Gesù al nostro fianco.

Abbiamo tutti sperimentato una solitudine forzata quest’anno

La solitudine non è solo tua ma anche delle persone che ti vogliono bene e che non possono fare nulla se non aspettare una telefonata che tra l’altro può andare in una direzione o nell’altra.

Come ha vissuto la solitudine di questo 2020?

Ho cercato di imparare, vedere Valsalice vuota dei suoi ragazzi è stata ed è ancora durissima da sopportare. Presto o tardi finirà, siamo stati costretti e abbiamo sperimentato quanto la solitidune sia dura e tragica; sarebbe interessante imparare a non crearla attorno a noi né con atteggiamenti che distruggono le altrui personalità né facendo terra bruciata con orgoglio e arroganza perché da soli si soffre veramente.

Dare più importanza ai piccoli gesti, alle piccole cose, ad essere più gentili?

Questo è un bell’augurio. Parte dell’umanità lo sta già facendo, molti invece si dimenticheranno in fretta perché l’arroganza non sparirà.

Siamo mai veramente soli?

Nessuno è mai così solo da essere poi privo dell’amore di Dio; l’unico problema è che il cuore deve essere aperto ad accoglierlo altrimenti vede solo solitudine.

Cosa si porta dietro da questa esperienza?

Dalla mia esperienza di malato grave mi porto il fatto che sono tornato a casa e a vivere. Dei miei compagni di stanza tre sono morti, li ho visti morire.

Cosa hanno pensato di lei?

Qualcuno mi ha dato del miracolato perché Gesù ha ascoltato le preghiere mie e per me. Ma anche per gli altri hanno pregato con la stessa intensità. Ricordiamo che non è la quantità che conta. Alla morte di Luigi, il mio primo compagno di stanza, il figlio alle 10 di sera era nel parcheggio dell’ospedale che camminava avanti e indietro con la corona del rosario in mano.

Molti hanno sentito l’assenza di Dio anziché la sua vicinanza in questo periodo?

Non so come ragiona Dio, credo che qualcuno nella disperazione abbia sentito una Sua apparente assenza. In realtà il credente crede che Lui sia comunque la risposta alla preghiera. Io ho chiesto al Signore di aprire una porta tra due: o quella del Paradiso o quella di Valsalice.

Per molti i malati sono solo numeri sulla carta e non volti, ma quali sono i loro desideri?

Adesso rispetto a prima ho dei volti davanti e so che il primo desiderio che accomuna tutti è quello di uscire quanto prima dall’ospedale. Il mio era di uscir guarito, in realtà. L’altro desiderio è quello di non soffrire. Oltre ovviamente a voler rivedere le persone care.

Per quanto riguarda il personale ospedaliero?

I volti che rivedo di più, gli occhi in realtà poiché somigliavano ad astronauti così bardati, sono proprio i loro, gli O.S.S. (operatore socio sanitario) in particolare poiché in quella solitudine sono loro che cercavano in ogni modo di riempire quella sensazione di vuoto. Dei veri e propri angeli: rivedo i loro occhi e ricordo gli incoraggiamenti e le battute. Senza dimenticare ovviamente i medici e gli infermieri. Si è stretto un bel rapporto con me che avrei potuto attaccar bottone anche con le flebo. Abbiamo anche fatto dei selfie.

Quest’ultimo anno l’ha cambiata?

Il desiderio adesso è quello di avere ancora più cura delle persone che ho accanto e che mi sono affidate. Poi vi è il desiderio ancora più ardente di essere più Salesiano in mezzo ai ragazzi. Vorrei spendere ancora di più la mia vita totalmente per voi ragazzi. Questo mi ha dato la spinta per cercare di essere ciò che fu don Bosco ai suoi tempi.

Il 2020 ci ha fatto diffidare gli uni degli altri e ci ha fatti allontanare?

Quando incontri una persona istintivamente ti viene voglia di andare dall’altra parte della strada. Mi sono detto che non scappiamo dalla persona ma da un potenziale contagio. Questo diventa un comportamento di salvaguardia per noi e per gli altri: allontanandoci fisicamente ci avviciniamo ancora di più.

Prospettive future di Valsalice?

Sono meravigliose! Saremo pieni di ragazzi! Abbiamo raggiunto nelle iscrizioni il massimo di ciò che può contenere Valsalice. Non ci sta più nessuno! Stiamo terminando di mettere a posto l’ultima aula nell’ex WebRadio. Saranno 30 classi di liceo e 9 di medie.

Due parole sulla DAD?

La Dad non è scuola, che è invece fatta di relazione e vicinanza con compagni e professori. Detto ciò, meno male che c’è perché ha permesso di mantenere quel sottile filo rosso che continua a unirci ad una parvenza di normalità permettendo di continuare a livello didattico. È uno strumento e come tale va usato né osannato né vituperato.

Ha già ricominciato a fare scuola?

Ho fatto un’ora in tutte le classi del liceo prima delle vacanze, mentre le terze medie le ho incontrate con i loro genitori. Quando torneremo si farà religione cercando di recuperare quanto si è perso.

Una parola per descrivere la vita?

“La vita è una cosa meravigliosa” e io preferisco vederla così, come un dono meraviglioso di Dio. Nessuno di noi ha scelto di nascere, siamo un dono, ci siamo ritrovati a vivere. Dopo aver visto la morte in faccia mi rendo conto di quanto dovremmo essere più felici di quello che siamo proprio perché siamo in vita. Vita che però senza i legami, con Dio e tra noi, per quanto dono meraviglioso non ha senso.

Una parola per la morte?

Una porta, che grazie a Dio si spalanca su una vita ancora più bella, la vita eterna. L’uomo è l’essere per la vita e non l’essere per il nulla come sostenevano i filosofi nichilisti.

Dal punto di vista cristiano?

Questo è il motivo per non perdere mai la speranza. La vita eterna. Il cristiano non può essere disperato, ossia senza speranza, perché comunque dopo la morte c’è la vita.

Cosa possono fare ora i giovani?

Potrebbero smettere di essere narcisisti e salvaguardarsi per apparire come vorrebbero gli altri. Scendere dal divano e andare incontro a chi è più in difficoltà. Non possiamo abbellirci davanti allo specchio e dimenticarci di chi soffre. Inoltre potrebbero tornare ad un impegno socio-politico per cercare di cambiare quello che è il volto delle nostre città, prendendosi cura del bene comune.

Un consiglio per tutti?

Dovremmo fare di tutto per essere delle belle persone per gli altri, questo genera allegria e l’allegria a sua volta genera ottimismo. Perché in fondo la ricchezza più grande siamo noi stessi per gli altri.

La scienza?

L’umanità vincerà, grazie all’intervento della scienza, la comunità scientifica internazionale che si è battuta insieme per trovare il rimedio a questo virus. Spero che questo ci insegni che la scienza al servizio dell’umanità è una cosa meravigliosa.

In una parola il 2020?

Tremendo.

Il 2021?

Speranza.

Francesca Battaglia

Esami di Maturità a Valsalice: diciassette volte 100!

Ottimi risultati agli esami di maturità del Liceo Salesiano di Valsalice. Di seguito l’articolo pubblicato sul sito dell’opera con qualche scatto dei ragazzi e delle ragazze che quest’anno hanno affrontato l’esame di Stato.

Diciassette volte 100

Un Esame diverso, figlio del Covid. Non più facile ma semplicemente differente. La Matura seguìta alla chiusura per coronavirus ci ha fatto capire alcune cose, sicuramente prima scontate ma altrettanto certamente non pienamente comprese. Via, a ruota libera.

L’importanza del contatto. La necessità quasi fisica di riallacciare gli sguardi. Esame in presenza lo hanno chiamato: essere presente significa esserci e non demandare ad uno schermo la verifica della propria identità. Noi siamo in quanto persone, docenti ed allievi, non conglobati di pixel. “Vi ringrazio per l’attenzione e posso dire di essere contento di avervi rivisto dopo tanto tempo” ha detto un ragazzo prima di lasciare l’aula al termine dell’esame. E’ stata la frase più intensa degli interi lavori di Maturità. “Contento di avervi rivisto” perchè per tre mesi quel contatto visivo attraverso lo schermo significava solo meccanicamente “vedersi”. La vista è altro, se no perchè Dante avrebbe demandato a questo organo la comprensione di Dio? Quel ragazzo era felice e lo eravamo anche noi. E non (solo) per l’esame.

L’utilità della Dad. Mai etimologia fu più opportuna. “Utile” deriva dal latino “utor” che significa usare, servirsi di. Della didattica a distanza ci siamo serviti, l’abbiamo utilizzata. Subito (in senso di tempo) e al meglio (in senso qualitativo). I docenti l’hanno utilizzata, gli allievi ne hanno fruito. La Dad è stato il meccanismo per non spegnere la luce, lo strumento piegato alla didattica e non viceversa. Non può che essere così in un sistema culturale di trasmissione di saperi in cui l’uomo è ancora al centro. Poteva essere un salto nel buio, alla maturità abbiamo sperimentato che non è stato così. La paura poteva essere che i concetti trasmessi durante la didattica a distanza non si fossero radicati, non fossero diventati “sapere”. Non è stato così e i ragazzi lo hanno dimostrato con esami tutti all’altezza.

L’emozione del ringraziamento. Tante volte si è detto che oggi i grazie non hanno più luogo nella società moderna. Tutto è dato per ovvio, anche nell’educazione, anche nell’insegnamento. Il riconoscimento di un cammino culturale ed umano compiuto insieme scivola nella superficialità della percezione di chi vede tutto per scontato. Per fortuna non è sempre così ed allora quando un presidente di commissione chiede al termine del colloquio ai maturati come questa scuola li ha educati, cosa di loro ha tratto fuori (e-ducere significa proprio quello), è corroborante sentire dalla parola sincera dei ragazzi il grazie per le iniziative culturali e formative, l’interesse per la crescita della persona, gli sforzi per l’aiuto nel cammino.

Giusto, anche i risultati. Parole, parole, parole. Perchè i numeri quest’anno sono un po’ più nascosti. Niente tabelloni affissi, il covid nega l’emozione della lettura diretta e dal vivo dei risultati finali. Un altro rito di passaggio che vola via come le sentenze della Sibilla portate via dal vento. I numeri però ci sono e oltre a definire, parlano. E ci dicono che di quattro sezioni (due di Scientifico tradizionale, una di Scienze Applicate, una di Classico) alla fine sono sbocciati diciassette 100 (6 con lode di cui 3 nella sola classe del Classico) su un totale di 82 maturandi, più del 20% dei candidati. Più altre 15 valutazioni comprese tra il 90 e il 99 a sottolineare la bontà del lavoro svolto.

(30 giugno 2020)

Valsalice: l’Ordine dei Giornalisti premia il Salice

Per la seconda volta negli ultimi tre anni “Il Salice“, la rivista scolastica del Liceo Valsalice di Torino è stato scelto tra i vincitori della XVII edizione del concorso “Il giornale e i giornalismi nelle scuole” bandito dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti. Si riporta di seguito l’articolo pubblicato sul sito dell’opera.

L’Ordine dei Giornalisti premia il Salice

Siamo lieti di comunicare che il giornale scolastico realizzato dai ragazzi della vostra scuola è stato scelto tra i vincitori della XVII edizione del concorso “Il giornale e i giornalismi nelle scuole” bandito anche quest’anno dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti.

Sul sito www.odg.it sono disponibili gli elenchi delle scuole vincitrici, suddivise per grado scolastico.

La notizia è stata pubblicata anche sulla pagina Facebook del Consiglio nazionale @ODG.OrdinedeiGiornalisti

A breve provvederemo all’invio, per posta ordinaria, del diploma e della medaglia intitolati alla scuola, che purtroppo quest’anno per l’emergenza sanitaria non abbiamo potuto consegnarvi nella tradizionale cerimonia.

Nel congratularmi, a nome dell’Ordine nazionale dei giornalisti, per il risultato ottenuto dal vostro giornale scolastico, invio gli auguri per una serena estate.

Già nel 2018 siamo andati a Cesena a ritirare il premio in un clima di grande amicizia e collaborazione con le altre scuole e con l’Ordine che, non dimentichiamolo, rappresenta i giornalisti italiani. E all’Ordine dei Giornalisti va il nostro grazie per aver saputo valorizzare il grande lavoro svolto. Un riconoscimento di questo tipo valorizza dunque il nostro impegno che si inserisce all’interno di un percorso iniziato 35 anni fa e interamente costruito, parola dopo parola, dai ragazzi della redazione.

Quest’anno sono più di 60, hanno fatto gruppo e squadra prima e dopo il lockdown continuando a partecipare alle redazioni anche quando la scuola era chiusa. Hanno scritto, postato, condiviso pareri ed impressioni. Hanno incontrato professionisti, creato opinione, usato ogni mezzo di comunicazione (da Instagram al web) per parlare di sè e del mondo.

Questa medaglia va a riconoscere il lavoro di Martina e Rachele, la straordinaria curiosità e il vivace desiderio di comunicare con professionalità ed abnegazione di un gruppo che si chiama tecnicamente redazione ma che non è difficile definire come qualcosa di più grande.