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Forti nella tribolazione: il testo della Via Crucis del Papa

La Libreria Editrice Vaticana ha pubblicato il testo con le meditazioni della Via Crucis che Papa Francesco farà venerdì santo in Piazza San Pietro. Il testo, scaricabile, è disponibile in cinque lingue.

Cinque detenuti, una famiglia vittima di omicidio, la figlia di un ergastolano, un’educatrice, un magistrato di sorveglianza, la madre di un carcerato, una catechista, un sacerdote accusato ingiustamente, un frate volontario, un poliziotto, tutti collegati alla Cappellania della casa di Reclusione “Due Palazzi” di Padova: sono questi gli autori delle meditazioni.

Il libro pensato dal Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede  è disponibile gratuitamente sul sito internet della Libreria Editrice Vaticana: un compendio ausiliario per condividere, meditare e pregare assieme. “La fede – scrive Andrea Tornielli nell’introduzione – non annulla il dolore, non annulla la sofferenza e non toglie automaticamente l’angoscia. Però aiuta ad avere una speranza”.

La Via Crucis si svolgerà venerdì santo e verrà trasmessa in diretta TV su Rai Uno, a partire dalle ore 21.

 

Venerdì 27 marzo – Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia

Papa Francesco ha annunciato che oggi, venerdì 27 marzo 2020, alle ore 18.00, da Piazza San Pietro, completamente vuota, il Papa, esporrà il SS. Sacramento e sarà impartita a tutto il mondo la Benedizione “Urbi et Orbi” a cui sarà annessa la possibilità di ricevere l’indulgenza plenaria.

È un fatto epocale di importanza cruciale. L’invito è di fermarsi in quel momento per seguire la preghiera del Papa.

Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia

Ore 18.00  – Piazza San Pietro

“Opzione Valdocco”: il messaggio del Papa ai Capitolari

Ai partecipanti al 28° Capitolo generale dei Salesiani sul tema «Quali salesiani per i giovani di oggi?» il Papa ha inviato il seguente messaggio, letto durante i lavori di venerdì 6 marzo.

Cari fratelli!

Vi saluto con affetto e ringrazio Dio di poter, pur a distanza, condividere con voi un momento del cammino che state percorrendo.

È significativo che, dopo alcuni decenni, la Provvidenza vi abbia condotto a celebrare il Capitolo Generale a Valdocco – il luogo della memoria – dove il sogno fondativo si concretizza e fece i primi passi. Sono sicuro che il rumore e il vociare degli oratori sarà la musica migliore, la più efficace perché lo Spirito ravvivi il dono carismatico del vostro fondatore. Non chiudete le finestre a questo rumore di sottofondo… Lasciate che vi accompagni e che vi mantenga inquieti e intrepidi nel discernimento; e permettete che queste voci e questi canti, a loro volta, evochino in voi i volti di tanti altri giovani che, per varie ragioni, si trovano come pecore senza pastore (cfr Mc 6,34). Questo vociare e questa inquietudine vi terranno attenti e svegli davanti a qualunque tipo di anestesia autoimposta e vi aiuteranno a rimanere in una fedeltà creativa alla vostra identità salesiana.

Ravvivare il dono che avete ricevuto

Pensare alla figura di salesiano per i giovani di oggi implica accettare che siamo immersi in un momento di cambiamenti, con tutto ciò che di incertezza questo genera. Nessuno può dire con sicurezza e precisione (se mai qualche volta si è potuto farlo) che cosa succederà nel prossimo futuro a livello sociale, economico, educativo e culturale. L’inconsistenza e la “fluidità” degli avvenimenti, ma soprattutto la velocità con cui si susseguono e si comunicano le cose, fa sì che ogni tipo di previsione diventi una lettura condannata ad essere riformulata al più presto (cfr Cost. ap. Veritatis gaudium, 3-4). Tale prospettiva si accentua ancor più per il fatto che le vostre opere sono orientate in modo particolare al mondo giovanile che in sé stesso è un mondo in movimento e in continua trasformazione. Questo ci chiede una doppia docilità: docilità ai giovani e alle loro esigenze e docilità allo Spirito e a tutto quello che Egli voglia trasformare.

Assumere responsabilmente questa situazione – a livello sia personale sia comunitario – comporta l’uscire da una retorica che ci fa dire continuamente “tutto sta cambiando” e che, a forza di ripeterlo e ripeterlo, finisce col fissarci in un’inerzia paralizzante che priva la vostra missione della parresia propria dei discepoli del Signore. Tale inerzia può anche manifestarsi in uno sguardo e un atteggiamento pessimistici di fronte a tutto ciò che ci circonda e non solo rispetto alle trasformazioni che avvengono nella società ma anche in rapporto alla propria Congregazione, ai fratelli e alla vita della Chiesa. Quell’atteggiamento che finisce per “boicottare” e impedire qualunque risposta o processo alternativo, oppure per far emergere la posizione opposta: un ottimismo cieco, capace di dissolvere la forza e novità evangelica, impedendo di accettare concretamente la complessità che le situazioni richiedono e la profezia che il Signore ci invita a portare avanti. Né il pessimismo né l’ottimismo sono doni dello Spirito, perché entrambi provengono da una visione autoreferenziale capace solo di misurarsi con le proprie forze, capacità o abilità, impedendo di guardare a ciò che il Signore attua e vuole realizzare tra di noi (cfr Esort. ap. postsin. Christus vivit, 35). Né adattarsi alla cultura di moda, né rifugiarsi in un passato eroico ma già disincarnato. In tempi di cambiamenti, fa bene attenersi alle parole di San Paolo a Timoteo:

«Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza» (2 Tm 1,6-7).

Queste parole ci invitano a coltivare un atteggiamento contemplativo, capace di identificare e discernere i punti nevralgici. Questo aiuterà ad addentrarsi nel cammino con lo spirito e l’apporto proprio dei figli di Don Bosco e, come lui, sviluppare una «valida rivoluzione culturale» (Enc. Laudato si’, 114). Questo atteggiamento contemplativo permetterà a voi di superare e oltrepassare le vostre stesse aspettative e i vostri programmi. Siamo uomini e donne di fede, il che suppone l’essere appassionati di Gesù Cristo; e sappiamo che tanto il nostro presente quanto il nostro futuro sono impregnati di questa forza apostolico-carismatica chiamata a continuare a permeare la vita di tanti giovani abbandonati e in pericolo, poveri e bisognosi, esclusi e scartati, privati di diritti, di casa… Questi giovani attendono uno sguardo di speranza in grado di contraddire ogni tipo di fatalismo o determinismo. Attendono di incrociare lo sguardo di Gesù che dice loro «che in tutte le situazioni buie e dolorose […] c’è una via d’uscita» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 104). È lì che abita la nostra gioia.

Né pessimista né ottimista, il salesiano del sec. XXI è un uomo pieno di speranza perché sa che il suo centro è nel Signore, capace di fare nuove tutte le cose (cfr Ap 21,5). Solo questo ci salverà dal vivere in un atteggiamento di rassegnazione e sopravvivenza difensiva. Solo questo renderà feconda la nostra vita (cfr Omelia, 2 febbraio 2017), perché renderà possibile che il dono ricevuto continui ad essere sperimentato ed espresso come una buona notizia per e con i giovani di oggi. Questo atteggiamento di speranza è capace di instaurare e inaugurare processi educativi alternativi alla cultura imperante che, in non poche situazioni – sia per indigenza e povertà estrema sia per abbondanza, in alcuni casi pure estrema –, finiscono con l’asfissiare e uccidere i sogni dei nostri giovani condannandoli a un conformismo assordante, strisciante e non di rado narcotizzato. Né trionfalisti né allarmisti, uomini e donne allegri e speranzosi, non automatizzati ma artigiani; capaci di «mostrare altri sogni che questo mondo non offre, di testimoniare la bellezza della generosità, del servizio, della purezza, della fortezza, del perdono, della fedeltà alla propria vocazione, della preghiera, della lotta per la giustizia e il bene comune, dell’amore per i poveri, dell’amicizia sociale» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 36).

L’“opzione Valdocco” del vostro 28° Capitolo Generale è una buona occasione per confrontarsi con le fonti e chiedere al Signore: “Da mihi animas, coetera tolle”.[1] Tolle soprattutto ciò che durante il cammino si è andato incorporando e perpetuando e che, sebbene in un altro tempo è potuto essere una risposta adeguata, oggi vi impedisce di configurare e plasmare la presenza salesiana in maniera evangelicamente significativa nelle diverse situazioni della missione. Questo richiede, da parte nostra, di superare le paure e le apprensioni che possono sorgere per aver creduto che il carisma si riducesse o identificasse con determinate opere o strutture. Vivere fedelmente il carisma è qualcosa di più ricco e stimolante del semplice abbandono, ripiego o riadattamento delle case o delle attività; comporta un cambio di mentalità di fronte alla missione da realizzare.[2]

L’“opzione Valdocco” e il dono dei giovani

L’Oratorio salesiano e tutto ciò che sorse a partire da esso, come racconta la biografia dell’Oratorio, nacque come risposta alla vita di giovani con un volto e una storia, che misero in moto quel giovane sacerdote incapace di rimanere neutrale o immobile davanti a ciò che accadeva. Fu molto più di un gesto di buona volontà o di bontà, e persino molto più del risultato di un progetto di studio sulla “fattibilità numerico-carismatica”. Lo penso come un atto di conversione permanente e di risposta al Signore che, “stanco di bussare” alle nostre porte, aspetta che andiamo a cercarlo e a incontrarlo… O che lo lasciamo uscire, quando bussa da dentro. Conversione che implica (e complica) tutta la sua vita e quella di coloro che gli stavano attorno. Don Bosco non solo non sceglie di separarsi dal mondo per cercare la santità, ma si lascia interpellare e sceglie come e quale mondo abitare.

Scegliendo e accogliendo il mondo dei bambini e dei giovani abbandonati, senza lavoro né formazione, ha permesso loro di sperimentare in modo tangibile la paternità di Dio e ha fornito loro strumenti per raccontare la loro vita e la loro storia alla luce di un amore incondizionato. Essi, a loro volta, hanno aiutato la Chiesa a re-incontrarsi con la sua missione:

«La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo» (Sal 118,22).

Lungi dall’essere agenti passivi o spettatori dell’opera missionaria, essi divennero, a partire dalla loro stessa condizione – in molti casi “illetterati religiosi” e “analfabeti sociali” – i principali protagonisti dell’intero processo di fondazione.[3] La salesianità nasce precisamente da questo incontro capace di suscitare profezie e visioni: accogliere, integrare e far crescere le migliori qualità come dono per gli altri, soprattutto per quelli emarginati e abbandonati dai quali non ci si aspetta nulla. Lo disse Paolo VI: «Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa… Ci vuole dire, in una parola, che essa ha sempre bisogno d’essere evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunziare il Vangelo» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 15). Ogni carisma ha bisogno di essere rinnovato ed evangelizzato, e nel vostro caso soprattutto dai giovani più poveri.

Gli interlocutori di Don Bosco ieri e del salesiano oggi non sono meri destinatari di una strategia progettata in anticipo, ma vivi protagonisti dell’oratorio da realizzare.[4] Per mezzo di loro e con loro il Signore ci mostra la sua volontà e i suoi sogni.[5] Potremmo chiamarli co-fondatori delle vostre case, dove il salesiano sarà esperto nel convocare e generare questo tipo di dinamiche senza sentirsene il padrone. Un’unione che ci ricorda che siamo “Chiesa in uscita” e ci mobilita per questo: Chiesa capace di abbandonare posizioni comode, sicure e in alcune occasioni privilegiata, per trovare negli ultimi la fecondità tipica del Regno di Dio. Non si tratta di una scelta strategica, ma carismatica. Una fecondità sostenuta in base alla croce di Cristo, che è sempre ingiustizia scandalosa per quanti hanno bloccato la sensibilità davanti alla sofferenza o sono scesi a patti con l’ingiustizia nei confronti dell’innocente. «Non possiamo essere una Chiesa che non piange di fronte a questi drammi dei suoi figli giovani. Non dobbiamo mai farci l’abitudine, perché chi non sa piangere non è madre. Noi vogliamo piangere perché anche la società sia più madre» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 75).

L’“opzione Valdocco” e il carisma della presenza

È importante sostenere che non veniamo formati per la missione, ma che veniamo formati nella missione, a partire dalla quale ruota tutta la nostra vita, con le sue scelte e le sue priorità. La formazione iniziale e quella permanente non possono essere un’istanza previa, parallela o separata dell’identità e della sensibilità del discepolo. La missione inter gentes è la nostra scuola migliore: a partire da essa preghiamo, riflettiamo, studiamo, riposiamo. Quando ci isoliamo o ci allontaniamo dal popolo che siamo chiamati a servire, la nostra identità come consacrati comincia a sfigurarsi e a diventare una caricatura.

In questo senso, uno degli ostacoli che possiamo individuare non ha tanto a che vedere con una qualsiasi situazione esterna alle nostre comunità, ma piuttosto è quello che ci tocca direttamente per un’esperienza distorta del ministero…, e che ci fa tanto male: il clericalismo. È la ricerca personale di voler occupare, concentrare e determinare gli spazi minimizzando e annullando l’unzione del Popolo di Dio. Il clericalismo, vivendo la chiamata in modo elitario, confonde l’elezione con il privilegio, il servizio con il servilismo, l’unità con l’uniformità, la discrepanza con l’opposizione, la formazione con l’indottrinamento. Il clericalismo è una perversione che favorisce legami funzionali, paternalistici, possessivi e perfino manipolatori con il resto delle vocazioni nella Chiesa.

Un altro ostacolo che incontriamo – diffuso, e perfino giustificato, soprattutto in questo tempo di precarietà e fragilità – è la tendenza al rigorismo. Confondendo autorità con autoritarismo, esso pretende di governare e controllare i processi umani con un atteggiamento scrupoloso, severo e perfino meschino di fronte ai limiti e alle debolezze propri o altrui (soprattutto altrui). Il rigorista dimentica che il grano e la zizzania crescono insieme (cfr Mt 13,24-30) e «che non tutti possono tutto e che in questa vita le fragilità umane non sono guarite completamente e una volta per tutte dalla grazia. In qualsiasi caso, come insegnava sant’Agostino, Dio ti invita a fare quello che puoi e a chiedere quello che non puoi» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 49). San Tommaso d’Aquino con grande finezza e sottigliezza spirituale ci ricorda che «il diavolo inganna molti. Alcuni attirandoli a commettere i peccati, altri invece all’eccessiva rigidità verso chi pecca, così che se non può averli con il comportamento vizioso, conduce alla perdizione quelli che ha già, utilizzando il rigore dei prelati, i quali, non correggendoli con misericordia, li inducono alla disperazione, ed è così che si perdono e cadono nella rete del diavolo. E questo capita a noi, se non perdoniamo ai peccatori».[6]

Coloro che accompagnano altri a crescere devono essere persone dai grandi orizzonti, capaci di mettere insieme limiti e speranza, aiutando così a guardare sempre in prospettiva, in una prospettiva salvifica. Un educatore «che non teme di porre limiti e, al tempo stesso, si abbandona alla dinamica della speranza espressa nella sua fiducia nell’azione del Signore dei processi, è l’immagine di un uomo forte, che guida ciò che non appartiene a lui, ma al suo Signore»[7]. Non ci è lecito soffocare e impedire la forza e la grazia del possibile, la cui realizzazione nasconde sempre un seme di Vita nuova e buona. Impariamo a lavorare e a confidare nei tempi di Dio, che sono sempre più grandi e saggi delle nostre miopi misure. Lui non vuole distruggere nessuno, ma salvare tutti.

È urgente, pertanto, trovare uno stile di formazione capace di assumere in modo strutturale il fatto che l’evangelizzazione implica la partecipazione piena, e con piena cittadinanza, di ogni battezzato – con tutte le sue potenzialità e i suoi limiti – e non solo dei cosiddetti “attori qualificati” (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 120); una partecipazione dove il servizio, e il servizio al più povero, sia l’asse portante che aiuti a manifestare e a testimoniare meglio nostro Signore, «che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20,28). Vi incoraggio a continuare a impegnarvi per fare delle vostre case un “laboratorio ecclesiale” capace di riconoscere, apprezzare, stimolare e incoraggiare le diverse chiamate e missioni nella Chiesa.[8]

In questo senso, penso concretamente a due presenze della vostra comunità salesiana, che possono aiutare come elementi a partire dai quali confrontare il posto che occupano le diverse vocazioni tra di voi; due presenze che costituiscono un “antidoto” contro ogni tendenza clericalista e rigorista: il Fratello Coadiutore e le donne.

I Fratelli Coadiutori sono espressione viva della gratuità che il carisma ci invita a custodire. La vostra consacrazione è, innanzitutto, segno di un amore gratuito del Signore e al Signore nei suoi giovani che non si definisce principalmente con un ministero, una funzione o un servizio particolare, ma attraverso una presenza. Prima ancora che di cose da fare, il salesiano è ricordo vivente di una presenza in cui la disponibilità, l’ascolto, la gioia e la dedizione sono le note essenziali per suscitare processi. La gratuità della presenza salva la Congregazione da ogni ossessione attivistica e da ogni riduzionismo tecnico-funzionale. La prima chiamata è quella di essere una presenza gioiosa e gratuita in mezzo ai giovani.

Che ne sarebbe di Valdocco senza la presenza di Mamma Margherita? Sarebbero state possibili le vostre case senza questa donna di fede? In alcune regioni e luoghi «ci sono comunità che si sono sostenute e hanno trasmesso la fede per lungo tempo senza che alcun sacerdote passasse da quelle parti, anche per decenni. Questo è stato possibile grazie alla presenza di donne forti e generose: donne che hanno battezzato, catechizzato, insegnato a pregare, sono state missionarie, certamente chiamate e spinte dallo Spirito Santo. Per secoli le donne hanno tenuto in piedi la Chiesa in quei luoghi con ammirevole dedizione e fede ardente» (Esort. ap. postsin. Querida Amazonia, 99). Senza una presenza reale, effettiva ed affettiva delle donne, le vostre opere mancherebbero del coraggio e della capacità di declinare la presenza come ospitalità, come casa. Di fronte al rigore che esclude, bisogna imparare a generare la nuova vita del Vangelo.

Vi invito a portare avanti dinamiche in cui la voce della donna, il suo sguardo e il suo agire – apprezzato nella sua singolarità – trovino eco nel prendere le decisioni; come un attore non ausiliare ma costitutivo delle vostre presenze.

L’“opzione Valdocco” nella pluralità delle lingue

Come in altri tempi, il mito di Babele cerca di imporsi in nome della globalità. Interi sistemi creano una rete di comunicazione globale e digitale capace di interconnettere i vari angoli del pianeta, col grave pericolo di uniformare monoliticamente le culture, privandole delle loro caratteristiche essenziali e delle loro risorse. La presenza universale della vostra famiglia salesiana è uno stimolo e un invito a custodire e a preservare la ricchezza di molte delle culture in cui siete immersi senza cercare di “omologarle”. D’altra parte, sforzatevi affinché il cristianesimo sia capace di assumere la lingua e la cultura delle persone del luogo. È triste vedere che in molte parti si sperimenta ancora la presenza cristiana come una presenza straniera (soprattutto europea); situazione che si riscontra anche negli itinerari formativi e negli stili di vita (cfr ibid., 90).[9] Al contrario, agiremo come ci ispira questo aneddoto che Don Bosco, alla domanda in quale lingua gli piacesse parlare, rispose: “Quella che mi ha insegnato mia madre: è quella con cui posso comunicare più facilmente”. Seguendo questa certezza, il salesiano è chiamato a parlare nella lingua materna di ognuna delle culture in cui si trova. L’unità e la comunione della vostra famiglia è in grado di assumere e accettare tutte queste differenze, che possono arricchire l’intero corpo in una sinergia di comunicazione e interazione dove ognuno possa offrire il meglio di sé per il bene di tutto il corpo. Così la salesianità, lungi dal perdersi nell’uniformità delle tonalità, acquisterà un’espressione più bella e attrattiva… saprà esprimersi “in dialetto” (cfr 2 Mac 7,26-27).

Nello stesso tempo, l’irruzione della realtà virtuale come linguaggio dominante in molti dei Paesi in cui voi svolgete la vostra missione esige, in primo luogo, di riconoscere tutte le possibilità e le cose buone che produce, senza sottovalutare o ignorare l’incidenza che possiede nel creare legami, soprattutto sul piano affettivo. Da ciò non siamo immuni neppure noi adulti consacrati. La tanto diffusa (e necessaria) “pastorale dello schermo” ci chiede di abitare la rete in modo intelligente riconoscendola come uno spazio di missione,[10] che richiede, a sua volta, di porre tutte le mediazioni necessarie per non rimanere prigionieri della sua circolarità e della sua logica particolare (e dicotomica). Questa trappola – pur in nome della missione – ci può rinchiudere in noi stessi e isolarci in una virtualità comoda, superflua e poco o per niente impegnata con la vita dei giovani, dei fratelli della comunità o con i compiti apostolici. La rete non è neutrale e il potere che possiede per creare cultura è molto alto. Sotto l’avatar della vicinanza virtuale possiamo finire ciechi o distanti dalla vita concreta delle persone, appiattendo e impoverendo il vigore missionario. Il ripiegamento individualistico, tanto diffuso e proposto socialmente in questa cultura largamente digitalizzata, richiede un’attenzione speciale non solo riguardo ai nostri modelli pedagogici ma anche riguardo all’uso personale e comunitario del tempo, delle nostre attività e dei nostri beni.

L’“opzione Valdocco” e la capacità di sognare

Uno dei “generi letterari” di Don Bosco erano i sogni. Con essi il Signore si fece strada nella sua vita e nella vita di tutta la vostra Congregazione allargando l’immaginazione del possibile. I sogni, lungi dal tenerlo addormentato, lo aiutarono, come accadde a San Giuseppe, ad assumere un altro spessore e un’altra misura della vita, quelli che nascono dalle viscere della compassione di Dio. Era possibile vivere concretamente il Vangelo… Lo sognò e gli diede forma nell’oratorio.

Desidero offrirvi queste parole come le “buone notti” in ogni buona casa salesiana al termine della giornata, invitandovi a sognare e a sognare in grande. Sappiate che il resto vi sarà dato in aggiunta. Sognate case aperte, feconde ed evangelizzatrici, capaci di permettere al Signore di mostrare a tanti giovani il suo amore incondizionato e di permettere a voi di godere della bellezza a cui siete stati chiamati. Sognate… E non solo per voi e per il bene della Congregazione, ma per tutti i giovani privi della forza, della luce e del conforto dell’amicizia con Gesù Cristo, privi di una comunità di fede che li sostenga, di un orizzonte di senso e di vita (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 49).

Sognate… E fate sognare!

Roma, San Giovanni in Laterano, 4 marzo 2020

Le Messe e altre preghiere tutti i giorni in tv: come (e dove) seguirle

Pubblichiamo un articolo di Avvenire con le indicazioni per seguire le Messe e le altre preghiere in tv e in radio ogni giorno.

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Le chiese sono aperte ma in tutta Italia le celebrazioni sono sospese fino al 3 aprile. Ecco come si può seguire da casa ogni giorno la Messa e le altre devozioni:

Tv2000, in palinsesto 3 Messe al giorno

Tv2000 incrementa gli appuntamenti religiosi: le Messe quotidiane in diretta su Tv2000 (canale 28, 157 Sky e in streaming https://www.tv2000.it/live/) diventano tre.

1) Alle ore 7.00 la Messa celebrata da papa Francesco nella cappella di Santa Marta.

2) Alle 8.30 dalla Cappella del Policlinico Gemelli dal lunedì al venerdì e dalla Chiesa del Crocifisso di Cosenza il sabato e la domenica

3) Da mercoledì 11 marzo alle ore 19.00 ci sarà una Messa dal Santuario del Divino Amore celebrata per tutta la prima settimana dal vicario del Papa per la Diocesi di Roma, il cardinale Angelo De Donatis.

Su Tv2000 si può seguire anche il Rosario alle 5.00, alle 6.50, alle 18.00 in diretta da Lourdes e alle 20.00 a Maria che scioglie i nodi.

Nuovo programma di Radio Vaticana

“In prima linea – vivere con fede al tempo del coronavirus”. È il nuovo programma di Radio Vaticana per dar voce alle tante persone che in questi giorni testimoniano il Vangelo aiutando gli altri. “Ci siamo lasciati interrogare dal Papa – sottolinea Massimiliano Menichetti, Responsabile di Radio Vaticana Vatican News – che oggi ha deciso di celebrare in diretta la Messa a Casa Santa Marta, permettendo a tutto il mondo di pregare con lui. Francesco ha offerto la Messa per ‘gli ammalati, per i medici, gli infermieri, i volontari che tanto aiutano, i familiari, per gli anziani che stanno nelle case di riposo, per i carcerati che sono rinchiusi‘”: saranno loto i protagonisti di “In prima linea”. Il nuovo programma audio che si potrà ascoltare da questa sera alle 17:05 sulle frequenze di 105 Fm e 103.8 Fm, sulla radio digitale (DAB+) in tutta Italia, e sarà anche scaricabile in podcast e sulle nostre App ‘RADIO VATICANA’ e ‘VATICAN NEWS'”.
“Non vogliamo raccontare solamente le tante situazioni che l’Italia, il mondo vive a causa di questa epidemia da COVID-19, a ascoltare, raccogliere, condividere storie e voci, soprattutto portare quello sguardo più grande che sgorga dal Vangelo, capace di riempire i cuori, per non lasciare nessuno da solo. Un programma che abbiamo pensato per tutti, anche se guarderà in particolare agli anziani, ai carcerati, agli ammalati, e soprattutto a chi è in ‘Prima Linea’ contro l’epidemia”.

Salesiani San Salvario: XXVIII Giornata Mondiale del MALATO

In occasione della XXVIII Giornata Mondiale del Malato, il Direttore della Casa Salesiana di San Salvario, don Claudio Durando, dedica un articolo al ruolo delle parrocchie e della comunità cristiana nei confronti dei più bisognosi e dei malati. Si riporta di seguito l’articolo pubblicato sul sito dell’opera.

Notizie dalle Parrocchie: “XXVIII Giornata Mondiale del MALATO”

La parrocchia è una comunità in cui si vivono rapporti di prossimità, con vincoli concreti di conoscenza-accoglienza-amore. Nessuno dovrebbe rispondere come Caino:

«Sono forse io il custode di mio fratello?».

Non possiamo dirci comunità cristiana se non progrediamo nell’amore vicendevole.

«Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35).

La parrocchia, inoltre, è una comunità in cui ci si fa carico degli abitanti di tutto il territorio, senza esclusione di nessuno, senza possibilità di elitarismo, sentendosi mandati a tutti. E il nostro quartiere, San Salvario, è costellato da molte situazioni di dolore e di sofferenza: malati che soffrono nelle proprie abitazioni, negli ospedali, nelle cliniche; anziani e non autosufficienti che vivono soli o abbandonati nelle Case di Riposo; bambini, troppo piccoli per comprendere il mistero della sofferenza, ma abbastanza grandi per farne esperienza; giovani dipendenti dall’alcool e dalla droga; disabili fisici e psichici; coniugi separati e persone che vivono nella solitudine e nell’abbandono; coloro che, angosciati, piangono la persona cara che non c’è più. In queste situazioni “la persona sente compromessa non solo la propria integrità fisica, ma anche le dimensioni relazionale, intellettiva, affettiva, spirituale; e attende perciò, oltre alle terapie, sostegno, sollecitudine, attenzione… insomma, amore. Inoltre, accanto al malato c’è una famiglia che soffre e chiede anch’essa conforto e vicinanza”. In queste persone la comunità scopre la sua missione di curare i malati. In esse trova le modalità del suo divenire prossimo di chi soffre ed è nel dolore.

“La Chiesa vuole e deve essere sempre più e sempre meglio la “locanda” del Buon Samaritano che è Cristo (cfr Lc 10,34), cioè la casa dove trovare la sua grazia che si esprime nella familiarità, nell’accoglienza, nel sollievo.”
(Papa Francesco, Messaggio per la XXVIII Giornata Mondiale del Malato).

Nella parabola, 10 verbi caratterizzano il comportamento del Samaritano. E questi dovrebbero caratterizzare il nostro agire. Il passare accanto e vedere, cioè l’accorgersi di chi soffre, fatica, vive situazioni difficili, superare l’indifferenza che fa comportare come il sacerdote e levita, cioè il passare oltre. Il farsi vicino, fasciare le ferite e versare olio e vino, che nasce dall’accostarsi all’altro e fermarsi accanto a chi soffre, è imparare ad ascoltare il grido di sofferenza, di solitudine, di angoscia e spesso di disperazione e di stanchezza.

A volte non abbiamo un ascolto attento delle persone; pensiamo più a rispondere, che ascoltare l’altro. Il prendere con sé, portare alla locanda, prendersi cura, consegnare due denari e affidare all’albergatore, cioè il caricarselo addosso che dice mi interesso di te, sei importante per me, mi curvo su di te e ti tendo la mano. Ma soprattutto l’ avere compassione. Il Buon Samaritano “ebbe compassione”, ecco il senso del nostro prenderci cura dell’altro. Essa non si identifica con il semplice sentimentalismo o pietismo che dinanzi ad una situazione di sofferenza e di dolore fa’ affiorare la nostra emotività che, essendo momentanea e superficiale, si esaurisce con un sospiro o un’alzata di spalla. Avere compassione è partecipare alla commozione di Dio per ogni uomo, specie se ferito; è lasciarsi ferire, toccare dalle situazioni umane di dolore e di sofferenza; è uscire da se stessi per condividere i dolori e le angosce dell’altro; è impegnarsi a favore dell’altro con tutte le proprie forze.

La comunità, come accoglie il Samaritano, è chiamata a ricevere e servire ogni uomo in difficoltà, perché in ognuno di loro è presente il Signore (cfr. Mt 25, 31-45). In questa opera tutta la comunità è coinvolta.

L’attenzione ai malati nella nostra comunità non può essere demandato solo ad alcuni, ma deve essere il banco di prova di un cammino di fede, di evangelizzazione, di comunione, di amore.

Questo servizio è fondamentale, unico, insostituibile,

«non sopporta né indifferenza, né accomodamenti»
(Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, 5).

don Claudio Durando

54a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali: il messaggio di Papa Francesco

Nel giorno della festa di San Francesco di Sales, avvenuta il 24 gennaio, Papa Francesco ha dedicato un messaggio ai giovani per la 54a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali riguardo al tema delle narrazioni, affinchè possano comprendere la bellezza e la necessità di raccontare storie.

Si riporta l’articolo pubblicato in data odierna dell’Agenzia Info SalesianaAns“.

Fin dalle origini l’umanità ha coltivato l’arte della narrazione. Le storie sono un’attività che è alla base di ogni relazione umana. Negli ultimi anni, l’industria della comunicazione ha preso in mano quest’arte, rendendola nota con il nome di “storytelling”. Il 24 gennaio 2020, festa di San Francesco di Sales, Papa Francesco ha inviato un messaggio per la 54a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, dal titolo: “Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria. La vita si fa storia”. “Desidero dedicare il Messaggio di quest’anno al tema della narrazione”, afferma il Papa in apertura.

Chi è educatore per natura e vocazione sa che raccontare storie a bambini, adolescenti e giovani è un elemento fondamentale. Don Bosco stesso, nelle Memorie dell’Oratorio scrive: “Ho continuato a occuparmi dei ragazzi, intrattenendoli con racconti…”.

Le narrazioni oggi sono di moda. Tutti ci raccontano storie. Tutti fanno racconti. E la rete è piena di storie che catturano. Ma è questo che chiede il Papa nel suo messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali?

“Nella confusione delle voci e dei messaggi che ci circondano, abbiamo bisogno di una narrazione umana, che ci parli di noi e del bello che ci abita”.

Il documento presenta in modo didattico e chiaro la bellezza e la necessità di raccontare storie, o meglio, di “tessere storie”, perché “immergendoci nelle storie, possiamo ritrovare motivazioni eroiche per affrontare le sfide della vita”.

Non tutte le storie sono uguali, avverte il Papa:

“Quante storie ci narcotizzano, convincendoci che per essere felici abbiamo continuamente bisogno di avere, di possedere, di consumare. Quasi non ci accorgiamo di quanto diventiamo avidi di chiacchiere e di pettegolezzi, di quanta violenza e falsità consumiamo”.

Per questo c’è bisogno di pazienza e di discernimento per riscoprire le storie che trasformano.

Il messaggio specifica che “non si tratta perciò di inseguire le logiche dello storytelling, né di fare o farsi pubblicità, ma di fare memoria di ciò che siamo agli occhi di Dio, di testimoniare ciò che lo Spirito scrive nei cuori”.

Il messaggio si concentra sul fatto che l’uomo è chiamato a raccontare e a fissare nella sua memoria la grande storia d’amore tra Dio e l’umanità, che ha al centro Gesù,

“la sua storia porta a compimento l’amore di Dio per l’uomo e al tempo stesso la storia d’amore dell’uomo per Dio”.

Come Don Bosco, tutti sono invitati ad apprendere a “raccontare storie edificanti”, le “storie meravigliose” di Dio.

La vita si fa storia: 54° Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali

Lo scorso 28 settembre, Papa Francesco ha reso noto il tema della prossima 54° Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali che si terrà nel 2020: “Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria” (Es 10,2). La vita si fa storia.

Si riporta l’articolo pubblicato in merito dall’Agenzia d’informazione Salesiana ANS.

(ANS – Città del Vaticano) – Con questo bellissimo titolo, Papa Francesco ha presentato, lo scorso 28 settembre, la 54° Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, che sarà celebrata nel 2020. Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria di tuo figlio (Es 10,2). La vita si fa storia. Scegliendo questo tema, il Papa sottolinea quanto sia prezioso il patrimonio della “memoria” nella comunicazione e la capacità di raccontare belle storie alle generazioni future. Non c’è dubbio che “educare con le storie ci aiuta ad affrontare situazioni diverse in un mondo complesso, mutevole e sconcertante”, ha scritto D. Chomskim.

Il Papa ha sottolineato in molte occasioni che non c’è futuro senza memoria della storia vissuta. Ci ha aiutato più volte a capire che la memoria non deve essere considerata come qualcosa di “statico”, ma piuttosto come una “realtà dinamica”. Attraverso la memoria si passa da una generazione all’altra: storie, speranze, sogni ed esperienze. Ci ricorda anche che ogni storia nasce dalla vita e dall’incontro con l’altro.

Gesù ricorreva alle “Parabole” per comunicare la forza vitale del Regno di Dio, lasciando gli ascoltatori liberi di ascoltarle e di relazionarsi poi con loro stessi. La forza di una storia si esprime nella sua capacità di generare un cambiamento. Una storia esemplare ha infatti un grande potere di trasformazione.

In un contesto come quello attuale, in cui ci sono innumerevoli interazioni attraverso i social network, si parla di un’informazione che si ottiene attraverso le storie. Afferma C. Cox che “il formato delle storie sta per diventare il modo principale in cui gli utenti condivideranno le informazioni”.

Leggendo il titolo della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali ci si pone una domanda: “Cosa avremo da dire alle prossime generazioni?”. In questi anni, Papa Francesco ci ha proposto cinque storie:

  • “Che ogni essere umano, uomo, donna, ragazzo, ragazza è l’immagine di Dio”: noi siamo l’immagine di Dio.
  • “Che vivere insieme è un’arte, un cammino paziente, bello e affascinante”: siamo nati per vivere in comunità e in comunione.
  • “Che ognuno ha la sua idea del bene e del male e deve scegliere di seguire il bene e combattere contro il male. Questo basterebbe a rendere il mondo un posto migliore”: che le nostre azioni vanno a beneficio degli altri.
  • “Che la natura non è una proprietà di cui possiamo abusare a nostro piacimento, tanto meno la proprietà di pochi, ma un dono di tutti, che dobbiamo custodire”: che il nostro mondo è la nostra casa.
  • “Paradiso è una delle ultime parole pronunciate da Gesù sulla Croce, rivolta al buon ladrone”: che il nostro posto è il paradiso.

Ancora una volta, il Pontefice pone al centro della sua riflessione la persona, con le sue relazioni e la sua innata capacità di comunicazione.

Cile, lo scandalo degli abusi – Le parole di Mons. Lorenzelli

Riportiamo la notizia di giovedì 18 luglio proveniente da “La Voce e il Tempo”. Una intervista a cura di Marina Lomunno al salesiano Mons. Lorenzelli, inviato dal Papa a Santiago del Cile come Vescovo ausiliare dopo lo scandalo degli abusi e le dimissioni della Conferenza Episcopale cilena. A metà luglio Lorenzelli era a Torino e ha raccontato a «La Voce e Il Tempo» la sfida che lo attende: lenire le ferite del popolo cileno e riconciliarlo alla Chiesa.

Papa Francesco ha ordinato lo scorso 22 giugno nella Basilica di San Pietro come vescovo ausiliare di Santiago del Cile il salesiano don Alberto Ricardo Lorenzelli Rossi. Classe 1953, nato nella provincia di Buenos Aires da genitori italiani, già direttore della Comunità Salesiana in Vaticano e Cappellano della Direzione dei Servizi di Sicurezza e Protezione Civile dello Stato della Città del Vaticano, ha ricoperto numerosi incarichi nella sua congregazione, tra cui Ispettore della Provincia cilena e in Italia di è stato fra l’altro presidente del Cism (Conferenza italiana dei superiori maggiori).

Con mons. Lorenzelli è stato nominato vescovo ausiliare di Santiago, (diocesi governata da un amministratore apostolico) don Carlos Eugenio Irarrázaval Errázuriz, del clero diocesano di Santiago. Il mandato a mons. Lorenzelli giunge in un momento di grave difficoltà della Chiesa cilena la cui Conferenza episcopale, dopo la scoperta di abusi sui minori ad opera di alcuni prelati, ha rassegnato le dimissioni al Papa nel maggio 2018. Lo abbiamo incontrato venerdì 12 luglio scorso, al termine della Messa nella Basilica di Maria Ausiliatrice dove è venuto a pregare alla vigilia della partenza per il Cile.

Il Papa la invia in Cile dove la Chiesa sta vivendo una crisi profonda. Con che spirito si accosta a partire con un mandato di così grande responsabilità?

La nomina a Vescovo ausiliare di Santiago è stata una sorpresa e ho manifestato subito a Papa Francesco il mio smarrimento e le mie perplessità. Il Papa mi confermato che certamente è un incarico delicato e ho percepito l’atto di grande fiducia verso la mia persona che ritengo, e non per falsa umiltà, eccessiva. Mi hanno molto commosso le sue parole: «Guarda che accettare questa nomina è da incoscienti, l’avessero proposto a me non so se l’avrei accettata: però ti chiedo di fare una scelta da incosciente. E non farlo come un piacere a me ma per il bene della Chiesa». E mi è sembrato che più che il Papa mi stesse parlando mio padre. E così i suoi gesti, le sue parole, hanno fatto cadere le mie resistenze. E mi sono detto con spirito di fede: ‘ciò che il Papa mi sta chiedendo lo voglio leggere come una richiesta del Signore’. E così mi sono inginocchiato e gli ho chiesto di benedirmi. Anche durante la celebrazione dell’ordinazione mi sono sentito come un figlio che riceve un mandato da suo padre. Quel giorno e poi in altre occasioni mi ha detto: ‘Ti ringrazio di avere accettato’.

Cosa le chiede Francesco?

Il Papa non mi ha dato indicazioni particolari: mi ha invitato ad andare e a mettermi a disposizione dell’amministratore apostolico al servizio della Chiesa cilena che in questo momento soffre, ha perso la fiducia del popolo di Dio. E mi riferisco alla Chiesa istituzionale mentre nella gente la religiosità e la fede sono ancora molto vive. È di qui che bisogna ripartire.

E come?

Bisogna prima di tutto costruire comunione con il popolo di Dio: io non vado a Santiago né con un’agenda, né con un programma, nulla. Il mio programma è l’omelia di papa Francesco, molto impegnativa, pronunciata durante la mia ordinazione: «Riflettiamo attentamente a quale alta responsabilità viene promosso questo nostro fratello. Il Signore nostro Gesù Cristo mandò a sua volta nel mondo i dodici apostoli, perché, pieni della potenza dello Spirito Santo annunziassero il Vangelo a tutti i popoli e riunendoli sotto un unico pastore, li santificassero e li guidassero alla salvezza». Ecco il mio mandato. Prima di tutto mi impegnerò a vedere, in secondo luogo ad ascoltare e infine a stare vicino ai sacerdoti. Credo che in questo momento di smarrimento e di solitudine del clero, come Vescovo devo offrire ai preti la mia disponibilità. E poi il dialogo e la vicinanza al popolo di Dio, in modo che tutti riprendiamo il nostro cammino di fede.

Quali risposte si aspettano i credenti e la società civile cilena per recuperare fiducia nella Chiesa?

Realizzare il mandato del Papa significa mettermi accanto alle persone che hanno più bisogno, ai più poveri, a quelli che hanno smarrito la strada, la fede. E poi, proprio perché sono un figlio di don Bosco, i primi che avvicinerò sono i giovani perché sono coloro che si sono allontanati di più da una Chiesa in cui non si sono sentiti rispettati ma feriti. È naturale che i giovani pensino, di fronte a fatti gravi come gli abusi, che non ci sia più nulla di credibile: spirito di fede, autenticità, radicalità del Vangelo e sappiamo come i giovani cerchino questa radicalità. E poi l’altro aspetto per me molto importante è la vicinanza alle vittime degli abusi che hanno lanciato un grido di dolore. Non dobbiamo considerarli come nemici ma come persone che davvero portano impressa nella loro carne una ferita: mentre si aprivano alla vita non si sono sentiti rispettati, non si sono create le relazioni giuste e sane che un sacerdote e un vescovo devono instaurare con chi gli è affidato. È fondamentale aprire con loro un dialogo, far capire che gli sono vicino e che riconosco il loro dolore. Ma non solo: dirò loro che «voglio impegnarmi a cercare di sanare le ferite profonde che vi abbiamo creato». Cercherò di incontrarli e guardarli con un occhio di attenzione, di misericordia, di affetto, riconoscendo gli errori. E, a nome della Chiesa, chiederò veramente e sinceramente perdono.

Papa Francesco nel 2015, nel bicentenario di don Bosco davanti alla Basilica di Maria Ausiliatrice, invitò i salesiani ad essere gente concreta come il loro fondatore, che cercava di risolvere i problemi dei giovani che gli venivano affidati. Cosa significano per lei essere «concreto» ora che si appresta a questo nuovo incarico?

La concretezza fa parte del nostro modo di lavorare, della nostra formazione, significa avere i piedi per terra. Per questo non parto per il Cile con un programma predisposto ma cercherò di capire cosa chiede il popolo di Dio alla Chiesa cilena. Il Papa apprezza i salesiani – per un periodo ha studiato nelle nostre scuole, la stessa che ho frequentato anche io – e ci invita a vivere a pieno il nostro carisma, che è una spiritualità dell’allegria, della speranza. Per questo ho scelto nel mio stemma episcopale un passo di san Paolo ai Filippesi (4,4) «Gioite nel Signora sempre»: non una gioia disincarnata ma quella gioia che parte dal cuore, dove ritroviamo i motivi di speranza e della ricostruzione anche quando viviamo situazioni difficili e che qualche volta ci portano alla disperazione. Essere concreti significa che, con l’aiuto di Dio, si possono trovare sempre delle soluzioni. Essere concreti in questo momento per la Chiesa cilena significa non ripetere più i danni che abbiamo commesso. Il nostro slogan dovrebbe essere «mai più», un impegno concreto che si traduce in una formazione del clero seria, un discernimento chiaro della vocazione di coloro che chiedono di entrare in seminario perché abbiamo bisogno di preti che veramente rispondano a quello che il Signore ci indica. Occorre dire no a situazioni che creano confusione, disorientamento, danni e addirittura atti criminali. Essere concreti significa non insabbiare la verità, non possiamo più nasconderci dietro ad un dito. Le indagini dicono che gli abusi sono realmente avvenuti e non si possono più coprire. Per recuperare credibilità dobbiamo dialogare anche con le istituzioni, bisogna rispondere anche alla giustizia in risposta alla dignità delle vittime.

Mons. Lorenzelli, lei è stato superiore dell’Ispettoria salesiana in Cile e Gran cancelliere dell’Università cattolica del Cile. Ora ritorna da Vescovo…

Già 7 anni fa prima di partire per il Cile io sono venuto a Valdocco per chiedere l’aiuto prima di tutto di Maria Ausiliatrice perché don Bosco aveva una fede illimitata nella Madonna: durante la celebrazione in Basilica ho chiesto che Lei «faccia là dove io non potrò fare e non riuscirò a fare». E poi ho invocato don Bosco perché è stato un profeta che ha aperto da Valdocco una finestra sul mondo mandando i missionari prima di tutto in America Latina…

Da argentino di origini italiane, anche per la sua storia personale, è molto vicino a Francesco. Come giudica gli attacchi ad un Papa che non fa altro che invitare al mondo di essere accoglienti e di mettere prima al centro l’uomo?

Io sono in completa sintonia con il Papa anche perché come lui sono nato a Buenos Aires, figlio di migranti italiani partiti per l’Argentina nel Dopoguerra: so cosa significa vivere lontano dal proprio Paese e dalla famiglia. Io vissuto lo sforzo che hanno dovuto fare i miei genitori, imparare una lingua nuova, introdursi in una cultura diversa, dedicare tanto tempo al lavoro, crescere ed educare i figli. Ora l’Argentina è cosmopolita ma allora era diverso: i miei genitori sono partiti lasciando il loro paese distrutto dalla guerra, le famiglie di mia mamma e mio papà erano numerose e così con tanti sacrifici mettevano da parte un po’ di soldi da mandare in Italia per aiutarle. Il problema dell’emigrazione non è solo italiano o europeo: non si sbarca solo a Lampedusa, succede nell’Asia dell’Est, negli Stati Uniti, in America latina. Il Cile stesso è terra di emigrazione, soprattutto dal Venezuela dove la situazione è drammatica. Oggi stiamo vivendo la stessa esperienza delle grandi emigrazioni del Primo Novecento e del Dopoguerra. I popoli si muovono per povertà, fame, guerra, conflitti tribali, persecuzioni. E allora credo che oggi alzare muri, chiudere dei porti o chiudere porte è antistorico. E gli attacchi nei confronti del Papa sono ingiusti perché spesso sono ideologici: Francesco non fa ideologia ma risponde a ciò che il Signore ci chiede nel Vangelo e cioè di essere aperti e accoglienti come lo è stato lui.

Anche tra i credenti ci sono frange di insofferenza nei confronti del magistero del Papa…

Certo, accogliere chi è considerato scarto della società dove manca lavoro o si patisce per la crisi economica non è semplice e occorre che tutti i Paesi facciano la propria parte, ma ritengo che i credenti debbano essere fedeli al magistero del Papa perché sta rispondendo alle emergenze del momento. Non possiamo chiuderci o pensare di essere quelli che eravamo 30 anni fa, quel mondo non esiste più e nemmeno dobbiamo preoccuparci troppo per un futuro che non conosciamo: oggi dobbiamo rispondere a questo presente. Il Papa ci sta esortando a fare di questo presente parte della nostra vita. Per me, ora che sono Vescovo, questo significa non un’adesione al Papa così, solo perché è il Papa, ma perché il suo magistero sta rispondendo al Vangelo che il Signore ci ha annunciato. Francesco Papa dice: «annuncia il Vangelo» e questo è quello che sta facendo lui. Ed è quello che chiede anche a me.

 

 

Giornata Missionaria Mondiale 2019: il messaggio di Papa Francesco

Si riporta il messaggio di Papa Francesco dedicato alla Giornata Mondiale Missionaria 2019 che si celebrerà il 20 ottobre, dal titolo: “Battezzati e inviati: la Chiesa di Cristo in missione nel mondo“.

Cari fratelli e sorelle,
per il mese di ottobre del 2019 ho chiesto a tutta la Chiesa di vivere un tempo straordinario di missionarietà per commemorare il centenario della promulgazione della Lettera apostolica Maximum illud del Papa Benedetto XV (30 novembre 1919). La profetica lungimiranza della sua proposta apostolica mi ha confermato su quanto sia ancora oggi importante rinnovare l’impegno missionario della Chiesa, riqualificare in senso evangelico la sua missione di annunciare e di portare al mondo la salvezza di Gesù Cristo, morto e risorto.

Il titolo del presente messaggio è uguale al tema dell’Ottobre missionario: Battezzati e inviati: la Chiesa di Cristo in missione nel mondo. Celebrare questo mese ci aiuterà in primo luogo a ritrovare il senso missionario della nostra adesione di fede a Gesù Cristo, fede gratuitamente ricevuta come dono nel Battesimo. La nostra appartenenza filiale a Dio non è mai un atto individuale ma sempre ecclesiale: dalla comunione con Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo, nasce una vita nuova insieme a tanti altri fratelli e sorelle. E questa vita divina non è un prodotto da vendere – noi non facciamo proselitismo – ma una ricchezza da donare, da comunicare, da annunciare: ecco il senso della missione. Gratuitamente abbiamo ricevuto questo dono e gratuitamente lo condividiamo (cfr Mt 10,8), senza escludere nessuno. Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi arrivando alla conoscenza della verità e all’esperienza della sua misericordia grazie alla Chiesa, sacramento universale della salvezza (cfr 1 Tm 2,4; 3,15; Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 48).

La Chiesa è in missione nel mondo: la fede in Gesù Cristo ci dona la giusta dimensione di tutte le cose facendoci vedere il mondo con gli occhi e il cuore di Dio; la speranza ci apre agli orizzonti eterni della vita divina di cui veramente partecipiamo; la carità, che pregustiamo nei Sacramenti e nell’amore fraterno, ci spinge sino ai confini della terra (cfr Mi 5,3; Mt 28,19; At 1,8; Rm 10,18). Una Chiesa in uscita fino agli estremi confini richiede conversione missionaria costante e permanente. Quanti santi, quante donne e uomini di fede ci testimoniano, ci mostrano possibile e praticabile questa apertura illimitata, questa uscita misericordiosa come spinta urgente dell’amore e della sua logica intrinseca di dono, di sacrificio e di gratuità (cfr 2 Cor 5,14-21)! Sia uomo di Dio chi predica Dio (cfr Lett. ap. Maximum illud).

È un mandato che ci tocca da vicino: io sono sempre una missione; tu sei sempre una missione; ogni battezzata e battezzato è una missione. Chi ama si mette in movimento, è spinto fuori da sé stesso, è attratto e attrae, si dona all’altro e tesse relazioni che generano vita. Nessuno è inutile e insignificante per l’amore di Dio. Ciascuno di noi è una missione nel mondo perché frutto dell’amore di Dio. Anche se mio padre e mia madre tradissero l’amore con la menzogna, l’odio e l’infedeltà, Dio non si sottrae mai al dono della vita, destinando ogni suo figlio, da sempre, alla sua vita divina ed eterna (cfr Ef 1,3-6).

Questa vita ci viene comunicata nel Battesimo, che ci dona la fede in Gesù Cristo vincitore del peccato e della morte, ci rigenera ad immagine e somiglianza di Dio e ci inserisce nel corpo di Cristo che è la Chiesa. In questo senso, il Battesimo è dunque veramente necessario per la salvezza perché ci garantisce che siamo figli e figlie, sempre e dovunque, mai orfani, stranieri o schiavi, nella casa del Padre. Ciò che nel cristiano è realtà sacramentale – il cui compimento è l’Eucaristia –, rimane vocazione e destino per ogni uomo e donna in attesa di conversione e di salvezza. Il Battesimo infatti è promessa realizzata del dono divino che rende l’essere umano figlio nel Figlio. Siamo figli dei nostri genitori naturali, ma nel Battesimo ci è data l’originaria paternità e la vera maternità: non può avere Dio come Padre chi non ha la Chiesa come madre (cfr San Cipriano, L’unità della Chiesa, 4).

Così, nella paternità di Dio e nella maternità della Chiesa si radica la nostra missione, perché nel Battesimo è insito l’invio espresso da Gesù nel mandato pasquale: come il Padre ha mandato me, anche io mando voi pieni di Spirito Santo per la riconciliazione del mondo (cfr Gv 20,19-23; Mt 28,16-20). Al cristiano compete questo invio, affinché a nessuno manchi l’annuncio della sua vocazione a figlio adottivo, la certezza della sua dignità personale e dell’intrinseco valore di ogni vita umana dal suo concepimento fino alla sua morte naturale. Il dilagante secolarismo, quando si fa rifiuto positivo e culturale dell’attiva paternità di Dio nella nostra storia, impedisce ogni autentica fraternità universale che si esprime nel reciproco rispetto della vita di ciascuno. Senza il Dio di Gesù Cristo, ogni differenza si riduce ad infernale minaccia rendendo impossibile qualsiasi fraterna accoglienza e feconda unità del genere umano.

L’universale destinazione della salvezza offerta da Dio in Gesù Cristo condusse Benedetto XV ad esigere il superamento di ogni chiusura nazionalistica ed etnocentrica, di ogni commistione dell’annuncio del Vangelo con le potenze coloniali, con i loro interessi economici e militari. Nella sua Lettera apostolica Maximum illud il Papa ricordava che l’universalità divina della missione della Chiesa esige l’uscita da un’appartenenza esclusivistica alla propria patria e alla propria etnia. L’apertura della cultura e della comunità alla novità salvifica di Gesù Cristo richiede il superamento di ogni indebita introversione etnica ed ecclesiale. Anche oggi la Chiesa continua ad avere bisogno di uomini e donne che, in virtù del loro Battesimo, rispondono generosamente alla chiamata ad uscire dalla propria casa, dalla propria famiglia, dalla propria patria, dalla propria lingua, dalla propria Chiesa locale. Essi sono inviati alle genti, nel mondo non ancora trasfigurato dai Sacramenti di Gesù Cristo e della sua santa Chiesa. Annunciando la Parola di Dio, testimoniando il Vangelo e celebrando la vita dello Spirito chiamano a conversione, battezzano e offrono la salvezza cristiana nel rispetto della libertà personale di ognuno, in dialogo con le culture e le religioni dei popoli a cui sono inviati. La missio ad gentes, sempre necessaria alla Chiesa, contribuisce così in maniera fondamentale al processo permanente di conversione di tutti i cristiani. La fede nella Pasqua di Gesù, l’invio ecclesiale battesimale, l’uscita geografica e culturale da sé e dalla propria casa, il bisogno di salvezza dal peccato e la liberazione dal male personale e sociale esigono la missione fino agli estremi confini della terra.

La provvidenziale coincidenza con la celebrazione del Sinodo Speciale sulle Chiese in Amazzonia mi porta a sottolineare come la missione affidataci da Gesù con il dono del suo Spirito sia ancora attuale e necessaria anche per quelle terre e per i loro abitanti. Una rinnovata Pentecoste spalanca le porte della Chiesa affinché nessuna cultura rimanga chiusa in sé stessa e nessun popolo sia isolato ma aperto alla comunione universale della fede. Nessuno rimanga chiuso nel proprio io, nell’autoreferenzialità della propria appartenenza etnica e religiosa. La Pasqua di Gesù rompe gli angusti limiti di mondi, religioni e culture, chiamandoli a crescere nel rispetto per la dignità dell’uomo e della donna, verso una conversione sempre più piena alla Verità del Signore Risorto che dona la vera vita a tutti.

Mi sovvengono a tale proposito le parole di Papa Benedetto XVI all’inizio del nostro incontro di Vescovi latinoamericani ad Aparecida, in Brasile, nel 2007, parole che qui desidero riportare e fare mie:

«Che cosa ha significato l’accettazione della fede cristiana per i Paesi dell’America Latina e dei Caraibi? Per essi ha significato conoscere e accogliere Cristo, il Dio sconosciuto che i loro antenati, senza saperlo, cercavano nelle loro ricche tradizioni religiose. Cristo era il Salvatore a cui anelavano silenziosamente. Ha significato anche avere ricevuto, con le acque del Battesimo, la vita divina che li ha fatti figli di Dio per adozione; avere ricevuto, inoltre, lo Spirito Santo che è venuto a fecondare le loro culture, purificandole e sviluppando i numerosi germi e semi che il Verbo incarnato aveva messo in esse, orientandole così verso le strade del Vangelo. […] Il Verbo di Dio, facendosi carne in Gesù Cristo, si fece anche storia e cultura. L’utopia di tornare a dare vita alle religioni precolombiane, separandole da Cristo e dalla Chiesa universale, non sarebbe un progresso, bensì un regresso. In realtà, sarebbe un’involuzione verso un momento storico ancorato nel passato»

(Discorso nella Sessione inaugurale, 13 maggio 2007: Insegnamenti III,1 [2007], 855-856).

A Maria nostra Madre affidiamo la missione della Chiesa. Unita al suo Figlio, fin dall’Incarnazione la Vergine si è messa in movimento, si è lasciata totalmente coinvolgere nella missione di Gesù, missione che ai piedi della croce divenne anche la sua propria missione: collaborare come Madre della Chiesa a generare nello Spirito e nella fede nuovi figli e figlie di Dio.

Vorrei concludere con una breve parola sulle Pontificie Opere Missionarie, già proposte nella Maximum illud come strumento missionario. Le POM esprimono il loro servizio all’universalità ecclesiale come una rete globale che sostiene il Papa nel suo impegno missionario con la preghiera, anima della missione, e la carità dei cristiani sparsi per il mondo intero. La loro offerta aiuta il Papa nell’evangelizzazione delle Chiese particolari (Opera della Propagazione della Fede), nella formazione del clero locale (Opera di San Pietro Apostolo), nell’educazione di una coscienza missionaria dei bambini di tutto il mondo (Opera della Santa Infanzia) e nella formazione missionaria della fede dei cristiani (Pontifica Unione Missionaria). Nel rinnovare il mio appoggio a tali Opere, auguro che il Mese Missionario Straordinario dell’Ottobre 2019 contribuisca al rinnovamento del loro servizio missionario al mio ministero.

Ai missionari e alle missionarie e a tutti coloro che in qualsiasi modo partecipano, in forza del proprio Battesimo, alla missione della Chiesa invio di cuore la mia benedizione.

Dal Vaticano, 9 giugno 2019, Solennità di Pentecoste
FRANCESCO

XI Forum Internazionale dei Giovani: “Giovani in azione in una Chiesa sinodale”

Pubblichiamo la notizia a cura della redazione di AnsAgenzia iNfo Salesiana – del 1 luglio 2019, riguardo all’undicesimo Forum Internazionale dei Giovani che si è svolto dal 19 al 22 giugno tra Roma e Ciampino. Ecco le parole di Carina Baumgartner, austriaca rappresentante dell’MGS, con il racconto dell’esperienza vissuta:

(ANS – Ciampino) – Dal 19 al 22 giugno, tra Roma e Ciampino, si è svolto l’undicesimo Forum Internazionale dei Giovani, promosso dal Dicastero vaticano per i Laici, la Famiglia e la Vita. In rappresentanza del Movimento Giovanile Salesiano (MGS), ha partecipato l’austriaca Carina Baumgartner, che si è radunata insieme a circa 250 giovani delegati provenienti da più di 100 Paesi e circa 40 tra comunità, movimenti e associazioni ecclesiali. Ecco cosa ci racconta di quest’esperienza:

L’obiettivo era quello di promuovere la prosecuzione del cammino sinodale avviato dall’ultimo Sinodo dei Vescovi sul tema: “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale” e dall’Esortazione Apostolica di Papa Francesco “Christus Vivit”.

Ogni giornata iniziava con la preghiera, seguita da input specifici secondo il tema del giorno, tavole rotonde e discussioni aperte fra tutti i partecipanti, gruppi di lavoro e momenti di presentazione, e infine l’Eucaristia.

Il primo giorno è stato dedicato alla riflessione sul processo sinodale a livello locale, con domande sul coinvolgimento dei giovani come protagonisti di questo processo e sugli esempi di buone pratiche emerse da questo cammino comune. Il secondo giorno abbiamo affrontato invece la domanda “Quali aspetti di Christus Vivit sono più rilevanti per il nostro contesto specifico?”. Mentre il terzo giorno abbiamo trattato dei gesti concreti che potremmo attuare, a partire dalla domanda: “Come posso aiutare la mia comunità ecclesiale locale a procedere nell’attuazione delle proposte sinodali?”

Il Forum Internazionale della Gioventù si è concluso sabato con la celebrazione eucaristica nella Basilica di San Pietro e l’incontro con Papa Francesco che ha salutato personalmente ognuno di noi.

La partecipazione a questo Forum è stata per me un’esperienza unica, sia a livello personale, sia come rappresentante dell’MGS. Il Forum è stato un grande esempio di come continuare il cammino sinodale con i giovani, di come ascoltarci e renderci protagonisti di questo processo. All’inizio del Forum ogni delegato è stato presentato individualmente per nome e Paese/Movimento: è stato un gesto che ho vissuto come un segno di accoglienza, apprezzamento e importanza della nostra presenza. I momenti più forti sono stati quelli di condivisione con gli altri partecipanti, non solo nei gruppi di lavoro, ma soprattutto nelle fasi informali.

Gli argomenti sono rimasti gli stessi: “Cosa sperimentiamo nella nostra vita quotidiana nella Chiesa? Cosa sogniamo per la Chiesa? Come possiamo sostenere il cammino sinodale?” E quest’evento ha dimostrato che siamo tutti parte di una grande famiglia chiamata Chiesa, piena di diversità e di giovani che “bruciano” per essa.

“Impegniamoci ad essere agenti del cambiamento, di pace, gioia e speranza” è stata una delle frasi motivazionali presentate da uno dei gruppo di lavoro nell’ultimo giorno. “Vogliamo una Chiesa con e per i giovani” è stata un’altra di queste frasi, che magari potrebbe essere piuttosto nota nell’MGS, ma che non descrive la realtà di tutti i giovani. Ecco perché, insieme a tutti gli altri membri della Chiesa, abbiamo bisogno di continuare questo cammino sinodale, per essere una Chiesa accogliente, proiettata verso tutte le persone, specialmente i giovani e coloro che sono o si sentono lontani dalla Chiesa.

Voglio concludere con un’altra frase motivazionale ascoltata al forum: “Siamo il volto di Cristo, pienamente vivo!”