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Sinodo speciale: Artime: «Investiamo sui giovani per salvare l’Amazzonia»

Si riporta l’articolo pubblicato da La Voce e il Tempo a cura di Marina Lomunno con l’intervista al Rettor Maggiore don Ángel Fernández Artime sul Sinodo Speciale sull’Amazzonia indetto da Papa Francesco.

Don Ángel Fernández Artime, classe 1960, spagnolo originario delle Asturie, dal 2014 è il Rettore maggiore dei salesiani, il 10° successore di don Bosco. È alla guida della seconda congregazione più diffusa nel mondo presente in 132 nazioni dei cinque continenti, con 14.614 confratelli, di cui 128 Vescovi e 430 novizi.

Lo abbiamo incontrato nei giorni scorsi a Valdocco, in occasione della 150a spedizione missionaria salesiana, alla vigilia dell’avvio del Sinodo sull’Amazzonia dove sono presenti molte opere salesiane: era l’11 novembre 1875 quando nella Basilica di Maria Ausiliatrice don Giovanni Bosco benediceva i primi 5 missionari, guidati da don Giovanni Cagliero, primo vescovo e cardinale salesiano con destinazione Patagonia. Da allora i salesiani che hanno ricevuto la croce missionaria nella Basilica di Maria Ausiliatrice sono 9.553. Dall’Argentina i figli di don Bosco si diffusero negli stati più a Nord dell’America Latina dove ancora oggi sono una presenza importante nelle missioni in Amazzonia.

Don Artime, nella 150a spedizione missionaria lei ha consegnato la croce a 36 confratelli, 9 dei quali verranno inviati nelle vostre opere in Amazzonia (Brasile, Ecuador, Perù e Venezuela). Lei ha visitato molte volte quei Paesi anche di recente. Quali sono i problemi più urgenti soprattutto per i giovani?

Noi siamo una congregazione riconosciuta nella Chiesa per l’educazione e l’evangelizzazione dei giovani, questa è la nostra identità carismatica. Allo stesso tempo don Bosco è stato un grande missionario: lui stesso ha inviato i primi confratelli in Patagonia. Per questo ci riconosciamo come una congregazione missionaria. In America Latina abbiamo opere destinate a 63 popoli originari, nessun’altra congregazione è accanto a tanti nativi come lo siamo noi. Il primo beato del Sud America è un giovane salesiano laico argentino, Zeffirino Namuncurá, della tribù dei Mapuce, un popolo amerindo dell’Argentina del Sud.

Parlando e ascoltando i miei confratelli che vivono lì, molti hanno dedicato tutta la loro vita, emerge che il problema più grave è l’abbandono dell’Amazzonia da parte dei giovani nativi per emigrare nelle grandi città. Così i popoli originari perdono le nuove generazioni e nello stesso tempo la propria identità perché nella foresta rimangono solo gli anziani.

In questo contesto la Chiesa come può fare sentire la propria voce?

In Brasile, per esempio, abbiamo fatto una scelta di congregazione: non abbandoneremo mai la nostra presenza tra i popoli originari e in secondo luogo cerchiamo di sostenere con l’educazione i giovani nativi in modo che servano il loro popolo e non lo abbandonino. Un segno di questo impegno è la nostra Università a Campogrande, la capitale dello Stato del Mato Grosso, in Brasile, frequentato da più di 12 mila giovani, tra cui 100 giovani delle popolazioni originarie, tra cui i Chavante, inviati dalle nostre opere e sostenuti negli studi a nostre spese sia per la formazione che per l’alloggio. Questo è un modo per tener fede alla nostra missione, è un investi- mento sui giovani nativi per il futuro e la sopravvivenza dei popoli dell’Amazzonia. Ma non solo in Amazzonia siamo impegnati sul fronte dell’educazione, come per esempio in Bolivia e ad Haiti con le esperienze delle scuole popolari frequentate da migliaia di ragazzi che senza le nostre opere non potrebbero ricevere nessun tipo di istruzione. In tutto il mondo abbiamo 58 Università salesiane dove, sulle orme di don Bosco, chiedo come Rettore Maggiore di garantire studi gratuiti ad una percentuale di ragazzi tra i più poveri. L’altro tema è l’ambiente: certamente anche noi siamo preoccupati, non soltanto dal punto divista ecologico, per la cura del Creato in pie- na sintonia con la Chiesa e in modo particolare con Papa Francesco a partire dai contenuti dell’enciclica Laudato si’.

Continuate a scommettere sull’educazione…

Certamente è così in Amazzonia, in India dove abbiamo molti college, e in Africa dove stiamo facendo i primi passi. È un grande sforzo perché i docenti vanno pagati e occorre mantenere le strutture ma è una scelta di congregazione che ci pare – e lo diciamo con molta umiltà – un contributo essenziale per dare futuro ai giovani più fragili e per contribuire alla sopravvivenza dei popoli originari. Come stiamo facendo, ad esempio in Paraguay con il popolo Ayioreo, nel Gran Chaco: qui, quando sono arrivati i primi salesiani 60 anni fa, abbiamo iniziato a investire sulla scuola e sulla formazione professionale. Sono stato di recente in visita ai miei confratelli e alla loro gente che vive lungo il fiume Paraguay. Oggi parecchi giovani Ayioreo frequentano la nostra università: il maestro del popolo ha studiato nelle nostre scuole così hanno fatto altri nativi. Crediamo molto nell’educazione: il Papa nel 2015, quando è venuto a Valdocco in occasione del Bicentenario di don Bosco, ha invitato i salesiani ad essere persone concrete sulle orme del loro fondatore che cerca- va di risolvere i problemi dei giovani che gli venivano affidati. Credo che stare accanto ai giovani nativi dell’Amazzonia per noi significhi anche investire sulla loro educazione e formazione scolastica perché possano avere gli strumenti per fare sentire presso le sedi opportune la loro voce.

Cosa si aspettano i suoi confratelli che vivono in Amazzonia e le chiese locali da questo Sinodo offuscato dagli incendi che devastano il polmone del mondo con la complicità di un capo di Stato che sostiene che la foresta amazzonica è solo del Brasile?

Io credo che attendano da tutta la Chiesa una parola evangelica, coraggiosa. I mei confratelli salesiani si aspettano prima di tutto vicinanza come Chiesa e come congregazione, vicinanza a questi popoli che spesso non hanno voce o hanno una voce troppo flebile. E poi da noi come Chiesa hanno bisogno di coerenza e non soltanto di parole «politicamente corrette»: non prendere posizione è spesso una tentazione anche per noi. In questo senso noi salesiani ci sentiamo pienamente in linea con la parola profetica e coraggiosa di Papa Francesco che ha indetto questo Sinodo: oggi e come ha fatto don Bosco anche noi diciamo «Siamo con il Papa».

Il Sinodo dell’Amazzonia cade proprio nei giorni in cui milioni di ragazzi e ragazze sono scesi in piazza per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla salvaguardia del Pianeta. Cosa avrebbe detto don Bosco a questi giovani che, seguendo anche l’invito del Papa, stanno diventando protagonisti del loro futuro?

Io sono convinto che don Bosco avrebbe senza dubbio incoraggiato i suoi giovani a difendere l’ambiente invitandoli a preservare la bellezza della Creazione, avrebbe sottolineato l’azione di Dio nel Creato, li avrebbe incoraggiati a diffondere presso i loro coetanei e gli adulti questa sensibilità perché è evidente che custodire il dono della creazione è un dovere per tutti, significa assicurare futuro alle nuove generazioni. E don Bosco ha fatto esattamente questo: la sua vita per i giovani. Sono spaventato dalla mancanza di una visione in prospettiva di tanti politici e governanti: una mancanza colpevole non perché non ritengano che sia un tema importante ma perché non è utile al loro «potere». Per questo sono convinto che, come credenti nel Signore Gesù, non pos- siamo essere neutrali: sulla cura del Creato non ci può essere neutralità, non è possibile.

Il Papa fin dall’inizio del suo Pontificato invita tutti a stare accanto agli scartati della terra: i suoi appelli, la sua voce – spesso l’unica – si è levata spesso invitando i giovani «a non farsi rubare il futuro». Le stesse parole contenute nella Laudato si’ sono quelle che spingono milioni di giovani a scendere in piazza per salvare il pianeta. Eppure anche tra i credenti – anche in questi giorni in cui si celebra il Sinodo non mancano le polemiche – ci sono frange di insofferenza nei confronti del magistero di Francesco…

La storia della Chiesa ci insegna che anche i più piccoli segni profetici non sono mai stati accettati in modo pacifico. Per questo dobbiamo pregare per questo Sinodo perché – e lo dico perché ho avuto la fortuna di partecipa-re al Sinodo precedente sulla famiglia – ho la sensazione che saranno lavori complessi sia per i temi dell’organizzazione delle comunità cristiane dei popoli originari, sia perché la pressione sociale e di alcuni Governi sui temi dell’ambiente è molto forte. Lasciamo che lo Spirito Santo possa veramente guidare i lavori e la riflessione dei sinodali, viviamo questo tempo nella fede. Non lasciamoci spaventare dagli attacchi: non sarà tutto facile ma sono convinto che da questi grandi eventi ecclesiali nascono sempre luce e nuove opportunità per favorire i credenti e le chiese che vivono nelle zone di frontiera come l’Amazzonia affinché possano sentirsi sostenuti, rafforzati, ascoltati. Questa è la grande ricchezza del Sinodo.

Marina LOMUNNO

La Voce e il Tempo: 150° Spedizione Missionaria, il mandato a 36 Salesiani e 12 Figlie di Maria Ausiliatrice

Si riporta l’articolo  di Marina Lomunno pubblicato su La Voce e il Tempo  in merito alla 150° Spedizione Missionaria tenutasi a Valdocco domenica 29 settembre.

CON IL RETTOR MAGGIORE – 150a SPEDIZIONE MISSIONARIA, IL MANDATO A 36 SALESIANI E 12 FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICE

Da Valdocco ai cinque continenti

Il tradizionale appuntamento che ogni anno riunisce la famiglia salesiana nella Casa madre per dare il via all’ottobre missionario con l’invio dei fi gli e delle figlie di don Bosco nei Paesi più poveri del mondo, quest’anno è stato speciale: «Harambee 2019», in lingua swahili «raduno festoso», è caduto nell’anniversario della 150a spedizione missionaria salesiana: era l’11 novembre 1875 quando nella Basilica di Maria Ausiliatrice don Giovanni Bosco benediceva i «suoi» primi 5 missionari, guidati da don Giovanni Cagliero, primo vescovo e cardinale salesiano, con destinazione la Patagonia.

E domenica 29 settembre, il 10° successore di san Giovanni Bosco, il Rettor maggiore don Ángel Fernández Artime, durante la solenne concelebrazione in Basilica, ha consegnato la croce missionaria a 36 salesiani (4 europei, 12 africani, 16 asiatici) in partenza per i Paesi dove c’è più necessità di educazione e del sistema preventivo di don Bosco.

Tunisia, Kosovo, Venezuela, Medio Oriente, Turchia, Mongolia e Papua Nuova Guinea, alcune delle destinazioni dei missionari che si aggiungono ai 9.523 inviati nelle 150 spedizioni a partire dalla prima «inaugurata» da don Bosco. Ha ricevuto la croce anche il vescovo emerito di Neuquén (Patagonia) mons.

Marcelo Angiolo Melani, 81 anni, che dopo una vita da missionario si è messo a disposizione «laddove c’è bisogno» – ha spiegato don Artime durante l’omelia:

«partirà per il Perù amazzonico, alla vigilia del Sinodo straordinario convocato da Papa Francesco».

Accanto al Rettor Maggiore, anche madre Yvonne Reungoat, madre generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice, che ha consegnato la croce a 12 consorelle in partenza per le missioni: una festa di famiglia che si rinnova ogni anno da quando il sogno di don Bosco ha iniziato a realizzarsi nelle periferie torinesi e che «oggi, sebbene il mondo sia cambiato, non ha mai smesso di dare frutti» ha sottolineato il Rettore, ricordando le 132 nazioni dove sono presenti i salesiani oggi.

«Noi siamo una congregazione il cui carisma ha al centro l’educazione e l’evangelizzazione soprattutto dei giovani più poveri per questo siamo una congregazione missionaria che, in linea con la parola profetica di Papa Francesco, continua ad inviare i fi gli nelle periferie del mondo».

A sottolineare il traguardo della 150a spedizione, il Rettor Maggiore ha anche inaugurato a Valdocco il museo Etnografico missioni don Bosco in cui sono esposti gli oggetti della vita quotidiana deli popoli che i salesiani hanno incontrato in un secolo e mezzo di evangelizzazione nei 5 continenti.

Torino alla prima udienza Nazionale di Papa Francesco: «Non chiudete in cella la speranza»

Si riporta l’articolo pubblicato da La Voce e il Tempo a cura di Marina Lomunno in merito alla prima udienza nazionale riservata al personale dell’amministrazione penitenziaria e della Giustizia minorile dal titolo «Insieme tessitori di giustizia e messaggeri di pace» tenutasi nella giornata di sabato 14 settembre a piazza San Pietro.

CARCERE – ANCHE TORINO ALLA PRIMA UDIENZA NAZIONALE DI PAPA FRANCESCO PER L’AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA E DELLA GIUSTIZIA MINORILE

«Non chiudete in cella la speranza»

Dal coraggio umile di chi non mente a se stesso rinasce la pace, fiorisce di nuovo la fiducia di essere amati e la forza per andare avanti.

Parole di speranza che il Papa ha rivolto sabato 14 settembre da piazza San Pietro ai detenuti, durante la prima udienza nazionale riservata al personale dell’amministrazione penitenziaria e della Giustizia minorile dal titolo «Insieme tessitori di giustizia e messaggeri di pace».

Parole che valgono per tutti, per chi è dietro le sbarre e per chi è libero e che Francesco ha indirizzato a cappellani, religiose, insegnanti, agenti penitenziari con le famiglie, volontari, educatori, amministrativi, provenienti da tutt’Italia tra cui una delegazione anche da Torino.

Un numero inatteso, come ha spiegato don Raffaele Grimaldi, Ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane che ha promosso il raduno in collaborazione con il ministero della Giustizia, tanto che l’udienza – fissata in un primo momento nella Sala Paolo VI che può contenere circa 6500 posti – è stata trasferita in piazza San Pietro.

«Un momento importante per tutti coloro che a vario titolo lavorano nelle carceri per adulti e per i minori e che condividono un pezzo di strada con i reclusi, che contribuiscono al loro riscatto perché non siano macchiati e scartati a causa del reato commesso».

Tre i pensieri che il Papa ha indirizzato ai convenuti. Innanzi tutto un grazie alla Polizia penitenziaria e al personale amministrativo.

«Grazie perché il vostro lavoro è nascosto, spesso difficile e poco appagante, ma essenziale…C’è un passo del Nuovo Testamento, nella Lettera agli Ebrei ‘ rivolto a tutti i cristiani, che credo vi si addica in modo particolare.‘Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere’ (Eb 13,3). Vi ringrazio dunque di non essere solo vigilanti, ma soprattutto custodi di persone che a voi sono affidate perché, nel prendere coscienza del male compiuto, accolgano prospettive di rinascita per il bene di tutti. Siete così chiamati a essere ponti tra il carcere e la società civile: col vostro servizio, esercitando una retta compassione, potete scavalcare le paure reciproche e il dramma dell’indifferenza».

Una seconda parola per i cappellani, le religiose, i religiosi e i volontari:

«Siete i portatori del Vangelo tra le mura delle carceri. Vorrei dirvi: ‘avanti’! Avanti quando, a contatto con le povertà che incontrate, vedete le vostre stesse povertà. È un bene, perché è essenziale riconoscersi prima di tutto bisognosi di perdono. Allora le proprie miserie diventano ricettacoli della misericordia di Dio; allora, da perdonati, si diventa testimoni credibili del perdono di Dio. Altrimenti si rischia di portare sé stessi e le proprie presunte autosufficienze. Avanti, perché con la vostra missione offrite consolazione. Ed è tanto importante non lasciare solo chi si sente solo».

Infine il Francesco si è rivolto ai detenuti, non presenti in piazza. Per loro la parola è:

«Coraggio. Gesù stesso la dice a voi: ‘Coraggio’. Questa parola deriva da cuore. Coraggio, perché siete nel cuore di Dio, siete preziosi ai suoi occhi e, anche se vi sentite smarriti e indegni, non perdetevi d’animo. Voi che siete detenuti siete importanti per Dio, che vuole compiere meraviglie in voi. Anche per voi una frase della Bibbia.La Prima Lettera di Giovanni dice: ‘Dio è più grande del nostro cuore’ (1 Gv 3,20). Non lasciatevi mai imprigionare nella cella buia di un cuore senza speranza, non cedete alla rassegnazione. Dio è più grande di ogni problema e vi attende per amarvi».

Il Papa ha invitato tutti a fare in modo che la pena non comprometta il diritto alla speranza,

«che siano garantite prospettive di riconciliazione e di reinserimento. Mentre si rimedia agli sbagli del passato, non si può cancellare la speranza nel futuro. L’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere. Perché se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società. Mai privare del diritto di ricominciare!».

Tra i torinesi presenti in piazza San Pietro, c’era don Domenico Ricca, cappellano del carcere minorile «Ferrante Aporti».

«Sono qui anche per restituire a nome dei miei ragazzi l’attenzione che papa Francesco ebbe per loro durante la sua visita apostolica a Torino nel 2015, quando volle con lui a pranzo in Arcivescovado con mons. Nosiglia un gruppo di minori reclusi. La giustizia minorile rischia di essere ‘figlia di un dio minore’ perché i detenuti minori, circa 380 in Italia, sono un numero esiguo rispetto agli adulti. Eppure il Papa mostrando attenzione ai ristretti più giovani ci invita a ricordare che la giustizia minorile, proprio perché rivolta a persone in formazione, deve in qualche modo essere più ‘dolce’, meno rigida e più educativa. È molto bello che all’udienza abbiano partecipato i famigliari degli agenti e di coloro che hanno un legame con il carcere e che sostengono moralmente chi ogni giorno varca i cancelli dei penitenziari affrontando situazioni spesso laceranti. Sarebbe stato bello ci fosse stata anche una delegazione di detenuti, ma mi rendo conto delle difficoltà organizzative. Cercheremo noi cappellani di riportare ai detenuti le parole del Papa».

Marina LOMUNNO

Intervista a don Pier Majnetti su La Voce e il Tempo: «I ragazzi di oggi? Fragili, ma curiosi e aperti al mondo»

Si riporta l’articolo pubblicato da La Voce e il Tempo, a cura di Marina Lomunno, in merito all’intervista effettuata a don Pier Majnetti, direttore dell’Istituto Salesiano di Valsalice.

Valsalice: “I ragazzi di oggi? Fragili, ma curiosi e aperti al mondo”

Intervista – Parla don Pier Majnetti, direttore dell’Istituto Valsalice di viale Thovez a Torino (858 iscritti di cui 600 al Liceo scientifico e 258 alle medie): il nostro faro è la scuola di don Bosco che sosteneva che non è il singolo che educa, ma tutto l’ambiente, dove respiri valori che non hanno bisogno di essere spiegati.

«Ciao carissima dove sei? All’ospedale? Cosa ti è successo? E quando ti operano? Stai tranquilla, preghiamo per te. Domani quando ti svegli dall’anestesia e ti sei ripresa fammi sapere come stai. Grazie per avermi avvisato». Don Pier Majnetti, direttore di Valsalice, ci accoglie così nella sua stanza al primo piano dello storico istituto di viale Thovez 37 a Torino. Ha appena ricevuto una telefonata da una sua allieva, una liceale ricoverata per l’asportazione dell’appendicite. Qui si usa così, il direttore conosce tutti gli allievi per nome, 858 iscritti per l’anno scolastico appena iniziato, di cui 600 al liceo classico e scientifico e 258 alle medie. Ed è «normale» che i ragazzi telefonino al direttore quando qualcosa non va.

Classe 1966, lombardo di Angera sul Lago Maggiore, ex allievo di Valsalice, maturità classica nel 1985 («ho mandato in pensione uno dei miei insegnanti»), salesiano dal 1986 e sacerdote dal 1994, dirige dal 2015 una delle scuole paritarie più antiche e conosciute della città: il liceo fu istituito nel 1879 da don Bosco, le cui spoglie mortali riposarono qui fino al 1929 quando furono trasferite nella Basilica di Maria Ausiliatrice. Abbiamo incontrato don Majnetti a una settimana dal suono della prima campanella per capire chi sono gli adolescenti del 2019.

Don Pier da quando è salesiano ha seguito diverse generazioni di giovani. Chi sono i suoi allievi oggi?

Proprio all’inizio dell’anno scolastico, con una ventina dei nostri professori e quattro ex allievi di 19-20 anni, abbiamo trascorso qualche giorno in montagna per cercare di capire chi sono gli adolescenti che entrano oggi a Valsalice. Questo l’identikit tracciato: sono giovani dalle grandissime potenzialità e possibilità rispetto alle generazioni passate. Non solo possibilità economiche, e qui mi permetta di sfatare il pregiudizio che Valsalice sia una scuola solo per «ricchi»: su 858 certamente la maggioranza dei ragazzi appartiene a famiglie del ceto medio e medio alto, ma poi ci sono ragazzi che provengono da famiglie normalissime, altri hanno genitori che fanno molta fatica a far quadrare il bilancio ma hanno deciso di investire in istruzione per i propri figli. Altre ancora in difficoltà che sosteniamo, come nella tradizione delle scuole salesiane, senza pretendere. E poi è bene ricordare che siamo una delle scuole paritarie di Torino con la retta più bassa: un liceale costa all’anno alle famiglie 3.590 euro e un allievo delle medie 3.240 euro. Con l’80% delle rette paghiamo gli stipendi agli insegnanti, 60 laici, il resto lo utilizziamo per mantenere il più possibile una struttura in ordine e adatta ai tempi. E non abbiamo crisi di iscrizioni: confidiamo nella possibilità di mantenere l’attuale flusso di richieste.

Torniamo all’identikit…

I nostri sono ragazzi che hanno la possibilità di viaggiare, di curare il proprio corpo e la propria immagine (rispetto ai noi degli anni ’80 che ci coprivamo con maglioni extralarge non ci sono paragoni), diventano grandi in fretta nell’organizzazione del tempo libero, addirittura nel gestire le vacanze. E poi sono giovani che hanno una grande possibilità di conoscere nuove culture, parlano inglese, hanno opportunità di scambi, viaggi studio: sono molto fortunati. Ma non è tutto qui. I nostri allievi sono disposti al dialogo: è difficile che reagiscano con violenza alle frustrazioni, come è raro vedere nei nostri cortili due che si pestano: magari litigano, arrivano al contrasto ma poi (purtroppo!) si scrivono sul telefonino ma non si aggrediscono. Sono ragazzi che ascoltano i professori e gli educatori. Ma, se per certi aspetti crescono in fretta, il rovescio della medaglia è una grande fragilità. Con fatica riescono a gestire la sconfitta, vanno in crisi per un 4 o un 3 e ti dicono: «Ho studiato ore per questo compito, mi sono impegnato tantissimo e non è valso a nulla». Hanno la lacrima facile, come talvolta i loro genitori…

In che senso?

Oggi il malessere del proprio figlio è quasi insopportabile e il nostro intervento sulle famiglie e sui ragazzi è cercare di far capire loro che non esiste nulla di prezioso che non costi. Per cui occorre avere la pazienza dei tempi lunghi: si semina e a volte la piantina non viene su come speravamo e bisogna riseminare. I genitori oggi vogliono pianificare tutto della vita dei figli, non ci devono essere intralci sulla crescita, non si deve cadere lungo la strada, non ci devono essere deviazioni. Ma senza salite, senza tratti in cui non ti arrampichi per raggiungere la cima, ne manca un pezzo, non si cresce. Cito sempre una telefonata urgente di una mamma: «Direttore, mia figlia è in bagno che piange, com’è possibile che l’esame di terza media sia finito con un 9 e non con un 10?». Le ho riposto: «Signora, ma di che cosa stiamo parlando? Piangiamo sui problemi veri della vita, sul referto di un cancro, su un posto di lavoro perso, su un amore che non abbiamo protetto ed è finito, sulla solitudine, sui bambini che muoiono sotto le bombe o per la fame. Un 9 anziché un 10 è un ‘dolorino’, il mondo non casca, la scuola non va a pallino, il futuro di sua figlia non è compromesso. Se qualcosa non è andato come pensavo io ci sarà un motivo, ma giriamo pagina e andiamo avanti se no quando arriveranno le vere tragedie della vita sua figlia non riuscirà più ad rialzarsi». Piuttosto, e lo dico spesso ai genitori e ai professori, cerchiamo di concentrarci ad orientare le grandi potenzialità che hanno i nostri figli a livello di comunicazione e di opportunità culturali: oggi hanno il mondo a portata ma a maggior ragione c’è un urgenza educativa perché occorre educarli all’uso delle nuove tecnologie se no c’è il rischio che vengano fagocitati…

Oggi la famiglia sembra vivere un momento di disorientamento, genitori ansiosi, che si separano, che fanno da «elicottero e spazzaneve» per le loro creature, come dice qualcuno. La scuola sembra l’ultimo baluardo educativo…

Non credo sia corretto definire la scuola come l’ultimo baluardo educativo, non voglio avere un ruolo così centrale, anche perché così alla scuola viene data troppa responsabilità e noi possiamo anche sbagliare. La scuola senza il dialogo con la famiglia non ce la fa, viceversa la famiglia che crede di non aver bisogno di nessuno per crescere i propri figli e che ritiene di poter fare a meno di istituzioni educative come la scuola, la Chiesa, la società civile non va da nessuna parte. Io ho un’idea positiva delle famiglie perché parto dal presupposto che una mamma e un papà desiderino davvero il bene dei loro figli: solo che questo tempo è molto difficile per tutti, c’è molta confusione, non si sa bene quali scelte fare e si naviga a vista. La nostra società è avvelenata e mette davvero in grande difficoltà i genitori che sentono la responsabilità educativa ma sono assorbiti da ritmi di lavoro pazzeschi, sono tentati per primi dai social per cui accade che tu genitore arrivi la sera a casa e stai incollato al tuo smartphone troppo tempo rispetto a quello che spendi per condividere con tua moglie o con i tuoi figli la tua giornata. Spesso sono genitori che hanno cura di se stessi e della propria salute, che vanno in palestra e che hanno paura di invecchiare. Di per sé non sono cose negative, però bisogna stare attenti nella gestione del tempo: i ragazzi sono esigenti, magari hanno bisogno di una tua parola quando non hai tempo di ascoltarlo e quel momento lo devi cogliere al volo perché non torna più… E poi ci sono le famiglie in cui è finito un amore e si ha il cuore ferito, hai bisogno di piangere ed è faticoso stare con i figli in questi momenti. Infine, ma voglio credere siano una minima parte, ci sono anche genitori che abdicano al loro ruolo: questa è la categoria madri e padri più pericolosa, perché i figli crescono soli e disorientati.

Come si educano oggi a Valsalice «buoni cristiani ed onesti cittadini», come raccomandava don Bosco ai suoi educatori?

Certamente il nostro faro è la scuola di don Bosco, che sosteneva che non è il singolo (e lui era un educatore affascinante) che educa, ma è tutto l’ambiente, la comunità educativa diremmo oggi, dove respiri dei valori che non hanno bisogno di essere spiegati e che si rifanno al Vangelo. Per fare un esempio: qui entri in una scuola dove sai che la volgarità è messa al bando, non ti viene di sporcare i muri perché l’ambiente è bello e curato ed è naturale difenderlo perché è anche tuo e nel bello stiamo bene tutti. Se i bagni sono puliti e ordinati non li vandalizzi. Qui l’ora di religione, cultura religiosa, è obbligatoria (io stesso insegno in 15 classi) . Così pure, anche se non sei praticante, agnostico o ateo, vieni invitato alla preghiera mattutina, il nostro «buon giorno» dove si affrontano temi di attualità, di cronaca, eventi straordinari oppure richieste che arrivano dai ragazzi più grandi. E poi ci sono altri momenti formativi, la confessione, gli esercizi spirituali. E i ragazzi partecipano perché trovano un messaggio accattivante per la loro vita e poi chissà….

Qual è la sua scuola ideale?

Una scuola in cui la cultura rimanga al centro. Alcuni programmi ministeriali recenti sulla Costituzione e la cittadinanza attiva li trovo preziosi tanto che stanno mettendo in discussione alcuni nostri interventi. E poi chiediamo a inostri insegnanti che siano anche educatori: è molto impegnativo, è una missione che deve essere valorizzata e sostenuta. Oggi è impensabile insegnare Foscolo e poi il resto ‘sono cavoli tuoi’… Puoi sapere tutto di Foscolo ma se sei una brutta persona che non ti accorgi delle sofferenze o delle ispirazioni dei tuoi allievi non funziona. Conosco tanti insegnanti-educatori appassionati dei ragazzi e del loro mestiere che ogni giorno vengono messi a dura prova sia nelle nostre scuole che in quelle statali. Certo, ci piacerebbe che lo Stato considerasse le scuole paritarie come una risorsa enorme da un punto di vista educativo e non un problema. Noi formiamo buoni cristiani e onesti cittadini, è la nostra scommessa. E di quanto la nostra società abbia bisogno di cittadini «alla don Bosco» è sotto gli occhi di tutti, a partire dalle piccole cose: giovani che non imbrattino le cose comuni, che non compiano atti vandalici o di bullismo, che alzino lo sguardo e si accorgano che c’è chi piange perché ha meno di te e così ti interroghi: «Io che posso fare per migliorare la sua condizione?». E poi politici, imprenditori, amministratori, professionisti e padri e madri di famiglia responsabili.

Don Bosco San Salvario: il saluto di “Spazio anch’io” a don Mauro Mergola

Si riporta l’articolo pubblicato da La Voce e il Tempo a cura di Stefano Di Lullo in merito ai ringraziamenti e ai saluti che i ragazzi di “Spazio anch’io” hanno rivolto a don Mauro Mergola, il quale lascia l’incarico  a San Salvario come “parroco della movida” per trasferirsi dai Salesiani di Cuneo.

SPAZIO ANCH’IO – AFFETTUOSO IL SALUTO DEI RAGAZZI E DELLA COMUNITÀ AL «PARROCO DELLA MOVIDA» SAN SALVARIO
Grazie don Mergola: «Oratori senza porte spalancati a tutti»

Una bicicletta pieghevole è il dono che i ragazzi di «Spazio Anch’io», la postazione dei Salesiani al Parco del Valentino, hanno donato «al parroco della Movida», don Mauro Mergola, che lascia il suo servizio a San Salvario dopo dieci anni: dal 2009 è stato direttore dell’oratorio salesiano San Luigi, dal 2012 parroco di Ss. Pietro e Paolo e dal 2015 amministratore parrocchiale di Sacro Cuore di Maria. La prossima settimana don Mauro proseguirà il suo ministero presso l’Opera dei Salesiani a Cuneo. A guidare la comunità di San Salvario arriverà il sacerdote salesiano don Claudio Durando.

«Questa sarà sempre casa tua»

hanno detto i ragazzi al loro don,

«con questa bici pieghevole sarà più facile raggiungerci, potrai portarla in treno e venire a salutarci».

In più occasioni nell’ultimo mese la comunità ha salutato affettuosamente don Mergola. La festa più significativa si è svolta a «Spazio Anch’io», l’oratorio sulla strada aperto all’accoglienza di tutti, soprattutto dei ragazzi più fragili che si sono lasciati alle spalle storie drammatiche.

«I nostri oratori e la parrocchia non hanno porte»,

sottolinea don Mergola,

«altro che porti chiusi: in questi anni come comunità parrocchiale, grazie alla rete con i servizi sociali cittadini e diversi attori del territorio, abbiamo aperto le porte degli oratori portandoli sulla strada, le porte della chiesa parrocchiale Ss. Pietro e Paolo il sabato notte per stare accanto ai giovani della movida ed ora anche le porte della casa canonica dove lo scorso giugno è stata inaugurata San Salvario House».

Una “Casa” che accoglie 14 giovani maschi, italiani e stranieri, che hanno intrapreso un percorso formativo o professionale che non riescono a realizzare da soli in quanto privi di una rete familiare che possa sostenerli o senza una casa. Ed ecco che la comunità ha spalancato le proprie porte accompagnando i giovani a realizzare passo passo i propri sogni.

È imponente l’investimento sui giovani più fragili che l’Opera salesiana San Giovanni Evangelista e la parrocchia Ss. Pietro e Paolo da anni portano avanti a tutto campo in un quartiere multietnico segnato dall’emergenza sociale: due oratori, l’educativa di strada, la postazione di accoglienza al Parco del Valentino «Spazio Anch’io», i corsi di italiano e di orientamento al lavoro, il centro di accoglienza per minori stranieri non accompagnati che accoglie 14 ragazzi, i laboratori professionali per i ragazzi che hanno abbandonati i circuiti della formazione, la presenza degli educatori accanto “ai giovani della notte” che si ritrovano per la movida. C’è poi il progetto nazionale “M’interesso di te” con cui i Salesiani nell’ultimo anno hanno intercettato 114 ragazzi “invisibili” che vagavano per le strade della città attorno alla stazione di Porta Nuova senza alcuna protezione, per la maggior parte neo maggiorenni: alcuni hanno un lavoro, altri sono inseriti nei percorsi formativi e professionali, soprattutto sono lontani dal pericolo di cadere nei circuiti criminali e dello sfruttamento.

Intervista a don Domenico Ricca: la crescita della violenza tra gli adolescenti italiani

Si riporta l’intervista effettuata a don Domenico Ricca (Salesiano e cappellano del Carcere minorile torinese “Ferrante Aporti”) da La Voce e il Tempo ( Settimanale – Anno 74 – n. 31) a cura di Marina Lomunno.

INTERVISTA – DON DOMENICO RICCA, SALESIANO, CAPPELLANO DEL CARCERE MINORILE TORINESE «FERRANTE APORTI» RIFLETTE SULLA PREOCCUPANTE CRESCITA DEGLI EPISODI DI VIOLENZA DI CUI SONO PROTAGONISTI GLI ADOLESCENTI ITALIANI

BABY GANG – È allarme: Sempre più minori italiani

Cala il numero dei minori stranieri che incappano nelle maglia della giustizia.
L’ultimo episodio di violenza a Casale: nei giorni scorsi un gruppo di adolescenti italiani ha aggredito a sangue un negoziante: cosa possiamo fare per arginare il vuoto educativo che affligge il nostro Paese?

Don Domenico Ricca salesiano, da quasi 40 anni cappellano del carcere minorile torinese «Ferrante Aporti» – oltre che supervisore pedagogico della Comunità residenziale per minori dei Salesiani a Casale, un’esperienza ultraventennale nel Terzo Settore e, infine, da qualche anno, presidente dell’Associazione Amici di don Bosco per le adozioni internazionali – nella sua esperienza accanto ai giovani più fragili ha conosciuto tante stagioni di diverse «emergenze educative». L’abbiamo invitato a riflettere su chi sono gli adolescenti di oggi, quelli delle baby gang che terrorizzano le periferie delle nostre città, quelli dei video dei reati commessi postati sui social. E su cosa possiamo fare per arginare il vuoto educativo che affligge il nostro Paese.

Don Ricca, da mesi ormai i protagonisti dei fatti di cronaca nera anche nel nostro territorio sono sempre più spesso adolescenti italiani. Si abbassa l’età in cui si commettono reati di bullismo nei confronti di compagni, disabili, adulti nell’ambito famigliare o reati di vandalismo, rapine, risse. Dal suo osservatorio ormai quasi quarantennale sul disagio giovanile conferma questa tendenza?

I fatti di cronaca sono incontestabili, un ultimo caso nei giorni scorsi a Casale: due gemelli di 16 anni, un coetaneo e un diciassettenne infieriscono su un negoziante che li rimprovera. L’uomo ha riportato un trauma cranico e la frattura di alcune costole. Volevano festeggiare così il loro compleanno. Il motivo del pestaggio? La vittima, 41 anni, qualche minuto prima li aveva rimproverati perché facevano rumore fuori dal suo locale. Le procedure aperte dalla Procura per i Minorenni di Torino confermano quanto riferiscono le cronache estive che ho citato. L’esito, per molti di essi, è la custodia cautelare in carcere o una qualche misura cautelare alternativa (la comunità). E purtroppo stiamo registrando che la misura cautelare della comunità, adottata in sede di convalida, troppe volte fallisce, e quindi i ragazzi ritornano in carcere.

Quali sono i reati più frequenti ad opera di adolescenti?

Reati di bullismo, episodi di vera e propria violenza verso coetanei più deboli sorpresi in luoghi insicuri, isolati e poco protetti, e comunque sovente soli o in numero esiguo rispetto agli autori della violenza. Le cronache, anche di questi giorni, ci parlano di bande di giovanissimi che, in «branco», picchiano persone indifese, senza un senso, un preciso scopo, colpiscono immigrati, anziani, bagnini, altri adolescenti. Di diversa natura, anche se il comun denominatore è la violenza, l’aggressione fisica, verso i famigliari, genitori percossi perché «pretendono» di controllare le azioni dei loro figli adolescenti (con interventi forse tardivi). I motivi sono i più disparati: richieste di denaro, la voglia di autonomia…

Secondo lei cosa si può fare per fermare o almeno arginare questa violenza?

Difficile rispondere. Scrive Anna Nelli (www.cronache.it in Ristretti Orizzonti, 16 agosto 2019): «Gli adolescenti di oggi spesso non sanno perché compiono un reato. Vogliono tutto e subito ed hanno la morte dentro… Può solo il carcere essere la risposta che mette tranquillità e sicurezza rispetto alla devianza ed alla microcriminalità? Si pensa davvero che abbassare l’età imputabile sia la soluzione? Secondo il mio parere bisognerebbe, invece, sottrarre il minore ad un contesto familiare che lo spinge verso l’illegalità e farlo prima del reato». E ancora leggiamo dal racconto di due genitori adottivi del Reggiano (Margherita Grassi, Corriere della Sera, 11 agosto 2019) «Lo abbiamo fatto per salvarlo». Volevano che loro figlio fosse arrestato, che andasse in un carcere minorile, e ce l’hanno fatta. La storia di questa coppia di 60enni reggiani è fatta di anni di battaglie, terapie, percorsi psicologici. E da qualche mese di lucida esasperazione e razionale sicurezza: «Nostro figlio è pericoloso per sé e per gli altri: va fermato. Solo così, forse, per lui c’è speranza».

I dati degli ingressi in comunità e nelle carceri minorili sembrano confermare l’aumento dei reati ad opera di minori italiani. Fino a qualche anno fa non era così: erano i minori stranieri che incappavano più frequentemente nelle reti della giustizia. E se è così, cosa sta succedendo?

Se osserviamo attentamente il panorama dei minori ospiti al «Ferrante Aporti» in questi ultimi anni, dobbiamo evidenziare che la narrazione numerica presenta due nuovi elementi: l’aumento dei minori italiani e l’abbassamento dell’età. È un’inversione di marcia: se consideriamo l’ultimo decennio, cresce il numero dei ragazzi italiani per lo più molto giovani, nati dopo il 2000 o 2001. I dati ufficiali di ingressi nell’Istituto penale minorile di Torino di italiani e stranieri della fascia di età 14-15 anni nel primo semestre del 2019 parlano di un incremento totale (rispetto al precedente semestre) dell’800%, come pure, in generale, di una crescita del 50% dei ragazzi italiani in ingresso in Custodia cautelare. Ovviamente dipendenti anche da altre Procure, oltre che quella di Torino. Credo che a volte serva far parlare i numeri. Operazione oltremodo complessa è tentare interpretazioni, cercare causalità, azioni premature a fronte della volubilità della condizione adolescenziale. L’unica cosa di cui sono fermamente convinto è che è un errore proporre soluzioni semplici a situazioni complesse.

I giovani che a Manduria hanno pestato a morte un disabile, le baby gang che hanno terrorizzato i fedeli durante le Messe a Parma o quelle che tengono in ostaggio intere zone nel milanese. O a Napoli dove alcuni ragazzini hanno preso a sassate un immigrato e poi l’ultimo episodio che citava lei a Casale. Tutti, quando vengono messi di fronte ai reati commessi, dicono di non essersi resi conto della gravità dei loro gesti o di agire per noia. Che ragazzi sono questi, chi sono i nostri adolescenti?

La presunta non consapevolezza della gravità dei gesti che compiono questi giovani è confermata dagli incontri, anche molto informali, che ho con loro in carcere. Gradualmente devo constatare che, se non ci fosse stato quell’episodio, potrebbero anche essere ragazzi simpatici, che si fanno voler bene, che sanno scherzare in modo lieve. Ragazzi che insistono forse troppo su alcune richieste, incompatibili con un regolamento carcerario, ma che accettano comunque sereni i dinieghi sostenuti da motivazioni anche secche e precise. I nostri ragazzi non amano troppo le «prediche», ma sanno comprendere bene il sì e il no. Forse bisogna esplicitarlo. Sì, perché se è normale che gli adolescenti ti assillino con continue richieste, occorre che gli adulti calibrino i sì e i no nei momenti opportuni. Occorre educarli ai no sin da piccoli, non aspettare con la scusa che non capirebbero la nostra fermezza. Come riferiscono tanti operatori, c’è poca differenza tra i ragazzi del «Ferrante» o ospiti delle comunità e molti adolescenti che frequentano gli oratori di periferia.

Che cosa li accomuna?

C’è tanta voglia di apparire, di una vita comoda, la misera paghetta settimanale non basta più, si pretendono vestiti e accessori griffati, possedere beni non permessi a ragazzi normali, vivere costantemente sopra le righe. Allora per fare soldi tutto è permesso, «lo fanno in tanti perché non noi?», lo fanno gli adulti, anche loro fanno i selfie sulle loro prodezze… E così anche i ragazzi «postano» i video sui loro atti di bullismo. Da un po’ di tempo vado ripetendo (e me lo confermano gli educatori) che siamo di fronte a ragazzi dalla doppia vita. Una quotidianità condotta sul filo del rasoio della legalità e delle regole famigliari dove spesso si scopre che gestiscono soldi (troppi) di dubbia provenienza, piccolo spaccio, furti, rapine che nessuno denuncia, perché non vengono intercettate. Ragazzi che si presentano bene, con buoni risultati scolastici, che sanno farsi ben volere. Ma poi?

Un altro segnale preoccupante che ci viene dal mondo giovanile è l’abbassarsi drasticamente dell’età in cui indistintamente ragazzi e ragazze fanno uso di droghe anche pesanti e alcool. Violenza, uso di sostanze, noia: tempo fa si parlava di emergenza educativa forse siamo ormai oltre l’emergenza educativa: cosa non ha funzionato?

Un quotidiano nazionale nell’edizione cittadina ha parlato di «bande liquide» (Carlotta Rocci, La Repubblica, edizione di Torino, 20 agosto 2019). Il concetto di liquidità di Bauman ci sorregge nell’analisi. A noi adulti il compito di interpretare questi segnali che ci inviano le generazioni di adolescenti con le loro trasgressioni. Sono ragazzi che cercano identità forti, per questo più fragili e più esposti ai richiami di movimenti culturali e politici che offrono scorciatoie facili che annullano il pensiero, che non danno né spazio né tempo alla riflessione. Stanno dentro gruppi di pari in continua evoluzione e con adesioni saltuarie solo per soddisfare i bisogni del momento. Ma il compito di offrire appartenenze, identità non toccava forse alla famiglia, alla scuola, alla diverse reti sul territorio? Se il capitolo «famiglia» va approfondito, assumiamoci le nostre responsabilità anche come Chiesa. Alcuni oratori cittadini sono ancora pieni di ragazzi, i gruppi scout sono una presenza significativa, lo sport sembra funzionare. Ma non si intercettano i ragazzi di cui abbiamo parlato.

Quali interventi mettere in campo per loro?

Qui il gioco si fa duro: ci è richiesta più fantasia, più coraggio, una dose maggiore di pazzia educativa, di fantasia, di invenzione. Dobbiamo fare lo sforzo di incontrare anche quei ragazzi che, a tutta prima, ti snobbano, mettono a dura prova la tenuta dei tuoi nervi di educatore e di prete. Una pedagogia dell’accoglienza senza aspettarsi subito il risultato, ma anche chiarezza negli obiettivi e fermezza nella proposta graduale di impegno. Far assaporare il gusto dell’avventura, dell’impresa, della sfida positiva.

Il mondo degli adulti, le famiglie (laddove reggono) la scuola, le agenzie educative sono sempre più spiazzate e ammutolite, non riescono più a comunicare contenuti e modelli educativi alle nuove generazioni che sembrano avere come unico punto di riferimento educativo il proprio smarthphone. Tante volte i genitori le avranno posto la domanda «dove abbiamo sbagliato»: lei come risponde?

Parlare di famiglia, di emergenza educativa, da parte di chi come me non è genitore può sembrare temerario o qualunquista. Se mi azzardo a qualche ragionamento è per non sottrarmi alle domande che tanti adulti mi rivolgono in ragione del mio ministero. Non voglio scansare la responsabilità di una condivisione doverosa, al senso di vicinanza e prossimità che ho con molti genitori. Non parlerei di emergenza educativa, quanto di crisi della responsabilità educativa. Si tratta, a volte, di sottrazione al compito di educare, che genera ansie non sostenibili, percorsi tortuosi dove, invece, sono necessarie coerenza e costanza. C’è oggi nella filigrana della vita quotidiana, una non dichiarata incapacità di accompagnare i cammini di crescita dei propri figli, che sembrano non avere mai fine, pieni di alti e bassi. Dove l’ansia, la paura di sbagliare sono sempre in agguato. E mi pare grave che la domanda «dove abbiamo sbagliato» spesso sia sostituita così: «sa, padre, bisogna capirli». Sì perché ci lascia sconcertati che troppi genitori, e lo leggiamo nelle cronache, tendano a minimizzare, giustificare. Perché ammettere le colpe dei figli è un po’ come ammettere le proprie inadeguatezze di adulti. Ma, ci dicono gli esperti, ammettere l’inadeguatezza, cercare di conoscerla è già imboccare un buon sentiero, quello giusto.

Il suo fondatore, don Bosco, pensava che in ognuno dei suoi giovani «discoli e pericolanti» ci fosse un punto su cui far leva per «salvarli». Secondo lei, oggi, qual è il punto sui cui far leva sui nostri adolescenti? Di che adulti hanno bisogno? Di che cosa hanno bisogno per diventare adulti?

Quante volte mi sono scervellato per trovare quel famoso «punto». Intanto bisogna aiutare a comprendere che quel «punto» esiste anche in loro, come in molti adolescenti e giovani. Aiutarli a dare un nome a quel tratto positivo che loro stessi fanno fatica a riconoscere. Insegnare loro le parole adeguate perché le loro narrazioni non siano solo negatività. È ovvio a tutti che è più facile vedersi nella parte sbagliata piuttosto che ammettere che anche in loro ci sono germi positivi di bene. È questo che faceva don Bosco. Ma lui ci credeva fermamente nei suoi ragazzi. In noi troppe volte abita la sfiducia, la stanchezza, la disillusione. E se approfondissimo di più la virtù teologale della speranza educativa?

La recente inchiesta di Reggio Emilia sugli affidi di minori sta facendo riflettere tutti coloro che operano nel campo della tutela dei minorenni. Secondo il suo osservatorio cosa si deve migliorare nelle comunità e nella rete dei servizi perché davvero si operi a favore dei minori più fragili?

C’è un’inchiesta giudiziaria in corso. Ma per dare una riposta «alla don Bosco», mi sentirei di dire che quando si tratta di ragazzi il bene supremo da tutelare è quello dei ragazzi. Noi adulti facciamo un passo indietro garantendo loro rispetto, sostegno educativo, formazione alla autentica libertà.

Novizi del Colle don Bosco – Animazione messa nella cappella più alta d’Europa

Si riporta la notizia proveniente da “La Voce e il Tempo” di domenica 28 luglio 2019 riguardo all’annuale appuntamento che dura oramai da 52 anni ogni primo sabato di agosto presso la Capanna Gnifetti (3.659 metri): la tradizionale Festa della Madonna dei Ghiacciai.

Nata da un gruppo di giovani del liceo Valsalice di Torino per ricordare il loro amico, educatore e guida spirituale, don Aristide Vesco, caduto al monte Ciampono (Gressoney) il 9 luglio 1966.  Novità di quest’anno l’animazione liturgica a cura di alcuni novizi salesiani di Colle don Bosco, che affideranno alla Madonna dei Ghiacciai il loro percorso di discernimento vocazionale.

Da 52 anni ogni primo sabato di agosto, preghiera, commozione e contemplazione di ghiacciai e montagne, si uniscono nella cappella più alta d’Europa. Ai 3.659 metri di Capanna Gnifetti, si celebra il prossimo 3 agosto alle 12 la tradizionale Festa della Madonna dei Ghiacciai: una «testimonianza di fede e di amicizia» nata da un gruppo di giovani del liceo Valsalice di Torino per ricordare il loro amico, educatore e guida spirituale, don Aristide Vesco, caduto al monte Ciampono (Gressoney) il 9 luglio 1966».

La prima festa fu il 5 agosto del 1967, quando dopo una lunga fase di progettazione, costruzione e o trasporto, la cappella fu benedetta e inaugurata nella celebrazione presieduta da mons. Luigi Bettazzi allora Vescovo di Ivrea, insieme al Superiore Regionale Salesiano don Amedeo Verdecchia, il parroco di Varallo Don Ercole Scolari, il parroco di Gressoney La Trinitè don Paolo Brunodet, il parroco di Alagna Don Luigi Ottone e molti amici di don Vesco.

Il mattino di quel 5 agosto veniva portata nella cappella la statuetta della Madonnina che era stata esposta nove giorni nella parrocchia di Alagna. La statuetta, che raffigura la celebre Madonnina che spicca sul Duomo di Milano, era stata donata nel 1960 dall’Arcivescovo mons. Giovanni Battista Montini, il futuro Papa Paolo VI°, alla spedizione Milanese Cento Donne sul Rosa.

Da allora ogni anno la Festa è occasione per ricordare don Vescco ma anche tutti gli alpinisti morti nell’anno sul Monte Rosa o legati a quelle cime. Così nella celebrazione che quest’anno sarà presieduta dal Vescovo di Pinerolo, mons. Derio Olivero, si farà memoria di Dario Montrosset, Giuseppe Oberto, Giovanni Menin, Gerard Branche, Maurizio Caldarola, Claudio Bagicalupo, Maurizio Fenaroli e due alpinisti non identificati. Nel 10 anniversario saranno ricordati anche Jacchini Erminio, Ferrario Ferruccio, Bruno Armando, Comotti Massimo, Petralla Rosario. Novità di quest’anno l’animazione liturgica a cura di alcuni novizi salesiani di Colle don Bosco, che affideranno alla Madonna dei Ghiacciai il loro percorso di discernimento vocazionale.

Federica Bello

 

Cile, lo scandalo degli abusi – Le parole di Mons. Lorenzelli

Riportiamo la notizia di giovedì 18 luglio proveniente da “La Voce e il Tempo”. Una intervista a cura di Marina Lomunno al salesiano Mons. Lorenzelli, inviato dal Papa a Santiago del Cile come Vescovo ausiliare dopo lo scandalo degli abusi e le dimissioni della Conferenza Episcopale cilena. A metà luglio Lorenzelli era a Torino e ha raccontato a «La Voce e Il Tempo» la sfida che lo attende: lenire le ferite del popolo cileno e riconciliarlo alla Chiesa.

Papa Francesco ha ordinato lo scorso 22 giugno nella Basilica di San Pietro come vescovo ausiliare di Santiago del Cile il salesiano don Alberto Ricardo Lorenzelli Rossi. Classe 1953, nato nella provincia di Buenos Aires da genitori italiani, già direttore della Comunità Salesiana in Vaticano e Cappellano della Direzione dei Servizi di Sicurezza e Protezione Civile dello Stato della Città del Vaticano, ha ricoperto numerosi incarichi nella sua congregazione, tra cui Ispettore della Provincia cilena e in Italia di è stato fra l’altro presidente del Cism (Conferenza italiana dei superiori maggiori).

Con mons. Lorenzelli è stato nominato vescovo ausiliare di Santiago, (diocesi governata da un amministratore apostolico) don Carlos Eugenio Irarrázaval Errázuriz, del clero diocesano di Santiago. Il mandato a mons. Lorenzelli giunge in un momento di grave difficoltà della Chiesa cilena la cui Conferenza episcopale, dopo la scoperta di abusi sui minori ad opera di alcuni prelati, ha rassegnato le dimissioni al Papa nel maggio 2018. Lo abbiamo incontrato venerdì 12 luglio scorso, al termine della Messa nella Basilica di Maria Ausiliatrice dove è venuto a pregare alla vigilia della partenza per il Cile.

Il Papa la invia in Cile dove la Chiesa sta vivendo una crisi profonda. Con che spirito si accosta a partire con un mandato di così grande responsabilità?

La nomina a Vescovo ausiliare di Santiago è stata una sorpresa e ho manifestato subito a Papa Francesco il mio smarrimento e le mie perplessità. Il Papa mi confermato che certamente è un incarico delicato e ho percepito l’atto di grande fiducia verso la mia persona che ritengo, e non per falsa umiltà, eccessiva. Mi hanno molto commosso le sue parole: «Guarda che accettare questa nomina è da incoscienti, l’avessero proposto a me non so se l’avrei accettata: però ti chiedo di fare una scelta da incosciente. E non farlo come un piacere a me ma per il bene della Chiesa». E mi è sembrato che più che il Papa mi stesse parlando mio padre. E così i suoi gesti, le sue parole, hanno fatto cadere le mie resistenze. E mi sono detto con spirito di fede: ‘ciò che il Papa mi sta chiedendo lo voglio leggere come una richiesta del Signore’. E così mi sono inginocchiato e gli ho chiesto di benedirmi. Anche durante la celebrazione dell’ordinazione mi sono sentito come un figlio che riceve un mandato da suo padre. Quel giorno e poi in altre occasioni mi ha detto: ‘Ti ringrazio di avere accettato’.

Cosa le chiede Francesco?

Il Papa non mi ha dato indicazioni particolari: mi ha invitato ad andare e a mettermi a disposizione dell’amministratore apostolico al servizio della Chiesa cilena che in questo momento soffre, ha perso la fiducia del popolo di Dio. E mi riferisco alla Chiesa istituzionale mentre nella gente la religiosità e la fede sono ancora molto vive. È di qui che bisogna ripartire.

E come?

Bisogna prima di tutto costruire comunione con il popolo di Dio: io non vado a Santiago né con un’agenda, né con un programma, nulla. Il mio programma è l’omelia di papa Francesco, molto impegnativa, pronunciata durante la mia ordinazione: «Riflettiamo attentamente a quale alta responsabilità viene promosso questo nostro fratello. Il Signore nostro Gesù Cristo mandò a sua volta nel mondo i dodici apostoli, perché, pieni della potenza dello Spirito Santo annunziassero il Vangelo a tutti i popoli e riunendoli sotto un unico pastore, li santificassero e li guidassero alla salvezza». Ecco il mio mandato. Prima di tutto mi impegnerò a vedere, in secondo luogo ad ascoltare e infine a stare vicino ai sacerdoti. Credo che in questo momento di smarrimento e di solitudine del clero, come Vescovo devo offrire ai preti la mia disponibilità. E poi il dialogo e la vicinanza al popolo di Dio, in modo che tutti riprendiamo il nostro cammino di fede.

Quali risposte si aspettano i credenti e la società civile cilena per recuperare fiducia nella Chiesa?

Realizzare il mandato del Papa significa mettermi accanto alle persone che hanno più bisogno, ai più poveri, a quelli che hanno smarrito la strada, la fede. E poi, proprio perché sono un figlio di don Bosco, i primi che avvicinerò sono i giovani perché sono coloro che si sono allontanati di più da una Chiesa in cui non si sono sentiti rispettati ma feriti. È naturale che i giovani pensino, di fronte a fatti gravi come gli abusi, che non ci sia più nulla di credibile: spirito di fede, autenticità, radicalità del Vangelo e sappiamo come i giovani cerchino questa radicalità. E poi l’altro aspetto per me molto importante è la vicinanza alle vittime degli abusi che hanno lanciato un grido di dolore. Non dobbiamo considerarli come nemici ma come persone che davvero portano impressa nella loro carne una ferita: mentre si aprivano alla vita non si sono sentiti rispettati, non si sono create le relazioni giuste e sane che un sacerdote e un vescovo devono instaurare con chi gli è affidato. È fondamentale aprire con loro un dialogo, far capire che gli sono vicino e che riconosco il loro dolore. Ma non solo: dirò loro che «voglio impegnarmi a cercare di sanare le ferite profonde che vi abbiamo creato». Cercherò di incontrarli e guardarli con un occhio di attenzione, di misericordia, di affetto, riconoscendo gli errori. E, a nome della Chiesa, chiederò veramente e sinceramente perdono.

Papa Francesco nel 2015, nel bicentenario di don Bosco davanti alla Basilica di Maria Ausiliatrice, invitò i salesiani ad essere gente concreta come il loro fondatore, che cercava di risolvere i problemi dei giovani che gli venivano affidati. Cosa significano per lei essere «concreto» ora che si appresta a questo nuovo incarico?

La concretezza fa parte del nostro modo di lavorare, della nostra formazione, significa avere i piedi per terra. Per questo non parto per il Cile con un programma predisposto ma cercherò di capire cosa chiede il popolo di Dio alla Chiesa cilena. Il Papa apprezza i salesiani – per un periodo ha studiato nelle nostre scuole, la stessa che ho frequentato anche io – e ci invita a vivere a pieno il nostro carisma, che è una spiritualità dell’allegria, della speranza. Per questo ho scelto nel mio stemma episcopale un passo di san Paolo ai Filippesi (4,4) «Gioite nel Signora sempre»: non una gioia disincarnata ma quella gioia che parte dal cuore, dove ritroviamo i motivi di speranza e della ricostruzione anche quando viviamo situazioni difficili e che qualche volta ci portano alla disperazione. Essere concreti significa che, con l’aiuto di Dio, si possono trovare sempre delle soluzioni. Essere concreti in questo momento per la Chiesa cilena significa non ripetere più i danni che abbiamo commesso. Il nostro slogan dovrebbe essere «mai più», un impegno concreto che si traduce in una formazione del clero seria, un discernimento chiaro della vocazione di coloro che chiedono di entrare in seminario perché abbiamo bisogno di preti che veramente rispondano a quello che il Signore ci indica. Occorre dire no a situazioni che creano confusione, disorientamento, danni e addirittura atti criminali. Essere concreti significa non insabbiare la verità, non possiamo più nasconderci dietro ad un dito. Le indagini dicono che gli abusi sono realmente avvenuti e non si possono più coprire. Per recuperare credibilità dobbiamo dialogare anche con le istituzioni, bisogna rispondere anche alla giustizia in risposta alla dignità delle vittime.

Mons. Lorenzelli, lei è stato superiore dell’Ispettoria salesiana in Cile e Gran cancelliere dell’Università cattolica del Cile. Ora ritorna da Vescovo…

Già 7 anni fa prima di partire per il Cile io sono venuto a Valdocco per chiedere l’aiuto prima di tutto di Maria Ausiliatrice perché don Bosco aveva una fede illimitata nella Madonna: durante la celebrazione in Basilica ho chiesto che Lei «faccia là dove io non potrò fare e non riuscirò a fare». E poi ho invocato don Bosco perché è stato un profeta che ha aperto da Valdocco una finestra sul mondo mandando i missionari prima di tutto in America Latina…

Da argentino di origini italiane, anche per la sua storia personale, è molto vicino a Francesco. Come giudica gli attacchi ad un Papa che non fa altro che invitare al mondo di essere accoglienti e di mettere prima al centro l’uomo?

Io sono in completa sintonia con il Papa anche perché come lui sono nato a Buenos Aires, figlio di migranti italiani partiti per l’Argentina nel Dopoguerra: so cosa significa vivere lontano dal proprio Paese e dalla famiglia. Io vissuto lo sforzo che hanno dovuto fare i miei genitori, imparare una lingua nuova, introdursi in una cultura diversa, dedicare tanto tempo al lavoro, crescere ed educare i figli. Ora l’Argentina è cosmopolita ma allora era diverso: i miei genitori sono partiti lasciando il loro paese distrutto dalla guerra, le famiglie di mia mamma e mio papà erano numerose e così con tanti sacrifici mettevano da parte un po’ di soldi da mandare in Italia per aiutarle. Il problema dell’emigrazione non è solo italiano o europeo: non si sbarca solo a Lampedusa, succede nell’Asia dell’Est, negli Stati Uniti, in America latina. Il Cile stesso è terra di emigrazione, soprattutto dal Venezuela dove la situazione è drammatica. Oggi stiamo vivendo la stessa esperienza delle grandi emigrazioni del Primo Novecento e del Dopoguerra. I popoli si muovono per povertà, fame, guerra, conflitti tribali, persecuzioni. E allora credo che oggi alzare muri, chiudere dei porti o chiudere porte è antistorico. E gli attacchi nei confronti del Papa sono ingiusti perché spesso sono ideologici: Francesco non fa ideologia ma risponde a ciò che il Signore ci chiede nel Vangelo e cioè di essere aperti e accoglienti come lo è stato lui.

Anche tra i credenti ci sono frange di insofferenza nei confronti del magistero del Papa…

Certo, accogliere chi è considerato scarto della società dove manca lavoro o si patisce per la crisi economica non è semplice e occorre che tutti i Paesi facciano la propria parte, ma ritengo che i credenti debbano essere fedeli al magistero del Papa perché sta rispondendo alle emergenze del momento. Non possiamo chiuderci o pensare di essere quelli che eravamo 30 anni fa, quel mondo non esiste più e nemmeno dobbiamo preoccuparci troppo per un futuro che non conosciamo: oggi dobbiamo rispondere a questo presente. Il Papa ci sta esortando a fare di questo presente parte della nostra vita. Per me, ora che sono Vescovo, questo significa non un’adesione al Papa così, solo perché è il Papa, ma perché il suo magistero sta rispondendo al Vangelo che il Signore ci ha annunciato. Francesco Papa dice: «annuncia il Vangelo» e questo è quello che sta facendo lui. Ed è quello che chiede anche a me.

 

 

Diocesi di Torino: nuove nomine

Riportiamo l’articolo proveniente da “La Voce e il Tempo” di giovedì 4 luglio 2019 riguardo alle nuove nomine pubblicate dalla Diocesi di Torino, tra i vari sacerdoti presenti anche molti salesiani.

Dal 2 settembre 2019 – Pubblichiamo l’elenco dei nuovi incarichi pastorali del clero nella Diocesi di Torino, diffuse da La Voce e il Tempo di domenica 7 luglio, introdotte da un ringraziamento dell’Arcivescovo mons. Cesare Nosiglia a sacerdoti e religiosi.

Pubblichiamo il ringraziamento dell’Arcivescovo mons. Nosiglia a sacerdoti e religiosi per la disponibilità ai vari incarichi, insieme all’augurio ai nuovi vicari parrocchiali.

Cari presbiteri, diaconi, religiosi e fedeli della Diocesi di Torino,

come ogni anno siamo giunti all’appuntamento stabilito delle nuove nomine dei presbiteri in diocesi. È questo un anno particolare, che vede una maggioranza di spostamenti di sacerdoti religiosi e diocesani provenienti da altre diocesi. Un particolare grazie va rivolto all’Ispettore salesiano e ai preti salesiani, che mantengono la loro preziosa presenza in diocesi a servizio di diverse parrocchie o come parroci, o come vicari parrocchiali e collaboratori.

Un vivo grazie anche agli Istituti religiosi che si sono resi disponibili a inviare alcuni loro sacerdoti sia per il ministero in una parrocchia, sia per svolgere il compito di vicari parrocchiali o collaboratori. Ringrazio in modo particolare i parroci di Ciriè, don Alessio Toniolo, per aver accettato di essere parroco anche della parrocchia di San Francesco al Campo, e di Gassino, don Carlo Fassino, per aver accettato di essere parroco anche della parrocchia di Rivalba.

Ai nuovi vicari parrocchiali rivolgo il più vivo saluto e augurio per il loro ministero nelle par-rocchie a cui sono stati designati. Infine, un grazie tutto speciale a due vescovi del Sud Italia, mons. Francesco Cacucci, Arcivescovo di Bari-Bitonto, e mons. Vito Angiuli, Vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, che hanno inviato a Torino alcuni sacerdoti del loro presbiterio.

Il Papa, nell’ultima assemblea della Cei, ha invitato i vescovi che hanno più clero ad offrire ad altre diocesi in difficoltà qualche loro sacerdote, secondo le disposizioni proprie dei Fidei donum. Tutto ciò ci fa comprendere e vivere la ricchezza multiforme della Chiesa universale, che usufruisce di ministri, oltre che locali, anche provenienti da Paesi, diocesi e realtà religiose differenti.

Preghiamo il Signore, perché susciti sante e nuove vocazioni al sacerdozio, ma sollecitiamo anche le famiglie e le nostre comunità a sentire come un proprio dovere quello di indirizzare sulla via del sacerdozio i giovani, senza porre ostacoli o rifiuti. E ai giovani di non temere nel compiere con coraggio e impegno questa scelta, qualora il Signore rivolga loro il suo invito: «Vieni e seguimi».

Torino, 3 luglio 2019

+ Cesare NOSIGLIA, Vescovo, padre e amico

LE NUOVE NOMINE
Rinunce di parroci

L’Arcivescovo ha accolto, con decorrenza 2 settembre 2019, le rinunce all’ufficio di parroco presentate dai seguenti sacerdoti:

don Domenico CAGLIO alla parrocchia S. Francesco d’Assisi in San Francesco al Campo;

don Domenico CATTI alla parrocchia S. Pietro in Vincoli in Rivalba;

don Pietro Antonio GAMBINO alla parrocchia S. Martino Vescovo in Alpignano;

don Renato VITALI alla parrocchia S. Tommaso Apostolo in Busano e alla parrocchia S. Lorenzo Martire in Pertusio.

Termine di ufficio

– di parroci

In data 2 settembre 2019 terminano l’ufficio di parroco i seguenti sacerdoti:

don Paolo AUDISIO DI SOMMA, S.D.B., della parrocchia S. Giovanni Battista in Moretta;

don Marco CENA, S.D.B., della parrocchia S. Domenico Savio in Torino;

don Claudio DURANDO, S.D.B., della parrocchia Maria Ausiliatrice in Torino;

don Mauro MERGOLA, S.D.B., della parrocchia Santi Pietro e Paolo Apostoli in Torino;

don Giovanni SERIONE, S.D.B., della parrocchia Immacolata Concezione di Maria Vergine in Lombriasco.

– di vicari parrocchiali

In data 2 settembre 2019 terminano l’ufficio di vicari parrocchiali i seguenti sacerdoti:

don Guido DUTTO, S.D.B., nella parrocchia Maria Ausiliatrice in Torino;

don Gilberto SARZOTTI, S.D.B., nelle parrocchie S. Giovanni Battista e Assunzione di Maria Vergine (Bandito) in Bra.

– di collaboratore parrocchiale

don Gianluca CAPELLO, P.I.M.E., nella parrocchia S. Dalmazzo Martire in Cuorgnè;

don Florin PISTIEAN, I.M.C., in data 2 settembre 2019 termina l’ufficio di collaboratore parrocchiale nelle parrocchie S. Maria Maddalena in Front, S. Maria Maddalena in Rivarossa, S. Carlo Borromeo in San Carlo Canavese e Santi Bernardo e Nicola in Vauda Canavese.

Trasferimenti

– di vicario parrocchiale

Con decorrenza dal 2 settembre 2019, don Gabriel SCRIPCARU è trasferito come vicario parrocchiale dalla parrocchia Santi Pietro e Paolo Apostoli in Leinì alla parrocchia Santi Giovanni Battista e Martino in Ciriè e alla parrocchia S. Francesco d’Assisi in San Francesco al Campo.

– di collaboratore parrocchiale

Con decorrenza dal 2 settembre 2019, don Bruno FONTANA, del clero di Bari-Bitonto, è trasferito come collaboratore parrocchiale dalla parrocchia S. Agnese Vergine e Martire in Torino alla parrocchia S. Massimo Vescovo di Torino in Torino.

Nomine

– di parroci

Vengono nominati parroci, con decorrenza 2 settembre 2019, i seguenti sacerdoti:

don Carlo FASSINO della parrocchia S. Pietro in Vincoli in Rivalba, mantenendo gli altri incarichi a lui affidati;

don Alessio TONIOLO della parrocchia S. Francesco d’Assisi in San Francesco al Campo, mantenendo gli altri incarichi a lui affidati;

don Gianluigi MARZO, del clero di Ugento-S. Maria di Leuca, della parrocchia S. Biagio Vescovo e Martire in Faule, della parrocchia S. Giovanni Battista in Moretta e della parrocchia S. Pietro in Vincoli in Polonghera;

don Giovanni BIANCO, S.D.B., della parrocchia Immacolata Concezione di Maria Vergine in Lombriasco;

don Claudio DURANDO, S.D.B., della parrocchia Santi Pietro e Paolo Apostoli in Torino;

don Guido DUTTO, S.D.B., della parrocchia Maria Ausiliatrice in Torino;

don Gilberto SARZOTTI, S.D.B., della parrocchia S. Domenico Savio in Torino.

– di amministratori parrocchiali e legali rappresentanti

Con decorrenza 2 settembre 2019 sono nominati amministratori parrocchiali e legali rappresentanti i seguenti sacerdoti:

don Valter BONETTO, C.O., nella parrocchia Nostra Signora del Sacro Cuore di Gesù in Torino, mantenendo gli altri incarichi a lui affidati;

don Claudio DURANDO, S.D.B., nella parrocchia Sacro Cuore di Maria in Torino;

don Riccardo GRASSI, S.D.B., nella parrocchia S. Martino Vescovo in Buttigliera d’Asti e nella parrocchia S. Giovanni Battista in Moriondo Torinese, mantenendo gli altri incarichi a lui affidati;

don Gianluca CAPELLO, P.I.M.E., nella parrocchia S. Tommaso Apostolo in Busano e nella parrocchia S. Lorenzo Martire in Pertusio;

don Dino MULASSANO, S.S.P., nella parrocchia S. Martino Vescovo in Alpignano, nella parrocchia S. Giorgio Martire in Caselette, nella parrocchia S. Donato Vescovo e Martire e nella parrocchia S. Maria della Spina (Brione) in Val Della Torre;

don Antonello SCANO, del clero di Paraiba (Brasile), nella parrocchia S. Giuliano Martire in Barbania, nella parrocchia S. Giacomo Apostolo in Levone e nella parrocchia Assunzione di Maria Vergine in Rocca Canavese;

– di vicari parrocchiali

Con decorrenza 2 settembre 2019, vengono nominati vicari parrocchiali i novelli sacerdoti:

don Stefano CARENA nella parrocchia S. Giovanni Battista in Orbassano;

don Marco FOGLIOTTI nella parrocchia Santi Pietro e Paolo Apostoli in Leinì e nella parrocchia Nostra Signora del Sacro Cuore di Gesù in Mappano;

don Alexandru RACHITEANU nella parrocchia S. Dalmazzo Martire in Cuorgnè, nella parrocchia S. Giovanni Battista in Salassa e nella parrocchia S. Giorgio Martire in Valperga;

don Simon PARADA, C.O., nella parrocchia Sacro Cuore di Gesù in Torino.

Con decorrenza 2 settembre 2019, vengono nominati vicari parrocchiali anche i seguenti sacerdoti;

don George KIBEU WAKUNGU, I.M.C., è nominato vicario parrocchiale nella parrocchia S. Giorgio Martire in Caselette, nella parrocchia S. Donato Vescovo e Martire e nella parrocchia S. Maria della Spina (Brione) in Val Della Torre, mantenendo gli altri incarichi a lui affidati;

don Silvio CARLIN, S.D.B., e don Marco CENA, S.D.B., nella parrocchia S. Andrea Apostolo in Castelnuovo Don Bosco, nella parrocchia S. Martino Vescovo in Buttigliera d’Asti e nella parrocchia S. Giovanni Battista in Moriondo Torinese;

don Giovanni SERIONE, S.D.B., nella parrocchia Maria Ausiliatrice in Torino.

– di collaboratori parrocchiali

I seguenti sacerdoti, con decorrenza 2 settembre 2019, vengono nominati collaboratori parrocchiali:

don Pietro Antonio GAMBINO nella parrocchia S. Maria Maggiore in Poirino;

don Filippo RAIMONDI nella parrocchia S. Vincenzo Ferreri in Moncalieri;

don Ester ROLANDO, nella parrocchia S. Francesco d’Assisi in San Francesco al Campo, mantenendo gli altri incarichi a lui affidati;

don Sergio MELIAN ORTEGA, del clero di San Cristobal de La Laguna – Tenerife, nella parrocchia S. Giulia Vergine e Martire in Torino;

don Jean Népomuscène HARELIMANA, del clero di Byumba (Rwanda), nella parrocchia Immacolata Concezione e S. Donato in Torino.

Altre nomine

Don Guido ERRICO, S.D.B., con decorrenza dal 2 settembre 2019 è nominato rettore del Santuario di Maria Ausiliatrice in Torino. Sostituisce il suo predecessore, don Cristian BESSO, S.D.B., trasferito ad altri incarichi.

La nostra vita è come un viaggio: una strada ora in salita, ora in discesa

Pubblichiamo la testimonianza di Fatima, giovane studente del CnosFap di Valdocco, presente su La Voce e il Tempo – a cura di Rosarina Spolettini, insegnante – riguardo la strada che l’ha condotta a Torino. Buona lettura!

«La nostra vita è come un viaggio, una strada ora in salita, ora in discesa, tortuosa o dritta».

È il titolo di un tema assegnato a Fatima S. durante questo anno scolastico e non poteva essere più calzante, perché la sua vita è un viaggio e non certo turistico…

Ho incontrato Fatima presso una biblioteca civica torinese, dove svolgo servizio di volontariato per insegnare l’italiano agli stranieri e mentre le davo una mano nello studio ho conosciuto la sua tormentata storia di figlia di migranti.

Il primo viaggio l’ha portata a Torino dal Marocco, suo paese di origine, dove ha frequentato per due anni la scuola elementare. Poi nuovamente in Marocco, dove è rimasta per sette anni con il rammarico di lasciare Torino, la scuola, i compagni e le maestre con cui si trovava bene, cosa facile quando si è bambini .

Nel 2017 un terzo viaggio, ancora per motivi di lavoro del padre, l’ha riportata a Torino: tutto più è stato difficile, una strada in salita e piena di sassi. Si iscrive presso un istituto tecnico solo con una connazionale sua vicina di casa (se casa si può definire una stanza a piano terra, ex bottega, senza riscaldamento e con i servizi nel cortile, dove Fatima viveva con la sua numerosa famiglia).

Presto si è resa conto che quella scuola scelta era troppo difficile a partire dalla lingua e anche farsi degli amici era diventato difficile. Era isolata, alcuni compagni le dicevano di tornarsene al suo paese: si sentiva morire dentro, senza più fiducia in se stessa, perdente. Poi l’incontro in biblioteca dove ho capito che il problema non era solo la lingua ma la ricostruzione di un sé smarrito ed insieme abbiamo iniziato un percorso di conoscenza.

La solidarietà e l’empatia ci aiutano ad allargare i nostri orizzonti; confrontarci con lingue e culture nuove, ci cambia interiormente ed è proprio quello che mi è capitato con Fatima. Ho iniziato ad ascoltarla e lei si è sentita accolta, è riuscita a dire ciò che provava e parlare delle sue paure. Insieme abbiamo deciso di scegliere una scuola più adatta a lei ed Fatima si è iscritta ad una corso di formazione professionale salesiana presso il Cnos-Fap di Valdocco di Torino. E a Fatima si è aperto un mondo.

Lo stile educativo di don Bosco è stato per lei, ragazza musulmana, terapeutico sotto tutti i punti di vista. Ha iniziato il primo anno con speranze e paure, poi le speranze sono diventate certezze e la paura è scomparsa. Ha conosciuto professori che hanno saputo accoglierla, guardando oltre le sue reali difficoltà e dandole fiducia. Questa pratica educativa ricorda la ricerca-azione, il cui scopo non è solo quello di dare conoscenze, ma introdurre cambiamenti migliorativi, attraverso la complessità, come attenzione a tutto l’essere umano e l’ascolto sensibile, basato sull’empatia per ottenere il cambiamento.

Fatima si è impegnata molto nel cercare di migliorarsi ed ha raggiunto nei giorni scorsi il traguardo della qualifica. Ora la sua strada è più facile, ci sono meno salite ed ha imparato a guardare al futuro con fiducia ed anch’io sono cresciuta con lei.

Rosarina Spolettini, insegnante