Il popolo nicaraguense non perde la speranza
Il Nicaragua sta vivendo momenti di altissima tensione. Le proteste, che da metà aprile scuotono il più grande paese del Centro America contro il presidente Daniel Ortega e sua moglie Rosaria Murillo, che ricopre la carica di vice-presidente, nelle ultime ore hanno subito una violenta repressione da parte delle forze governative.
«Il popolo nicaraguense non perde la speranza, però la situazione è molto tesa e bisogna che il mondo conosca questa triste realtà che sta vivendo in questo momento il nostro popolo».
(Padre José Bosco Alfaro Salazar,
direttore del collegio salesiano Don Bosco,
parla da uno degli epicentri della protesta popolare
di questi mesi in Nicaragua, la città di Masaya,
culla del folclore nicaraguense.)
Ecco il punto della situazione nicaraguense mediante una breve rassegna stampa, buona lettura!
Nicaragua, i paramilitari riconquistano Masaya. Don Gutiérrez: “Repressione violenta, ma la Chiesa sta con il popolo”
A raccontare come stanno andando le cose è, al telefono, un sacerdote salesiano, padre César Augusto Gutiérrez. Vive nel collegio San Giovanni Bosco e a lui è affidata la cura pastorale della chiesa più centrale di Masaya, quella di San Sebastiano: “La città è completamente militarizzata, le barricate non ci sono più, ma la polizia speciale va di casa in casa, in cerca soprattutto dei giovani che capeggiavano la resistenza. Pare che le vittime del 17 luglio siano quattro, tra cui un poliziotto. I feriti sono molti e così le persone che sono state portate via e incarcerate. Tanti sono fuggiti”
Quello successivo all’attacco dei paramilitari è forse il giorno più triste della storia di Masaya, città per natura gioiosa, una delle più belle del Nicaragua, culla del folclore e dell’artigianato locale dentro un paesaggio da favola, tra il lago e il vulcano; forse la più caratteristica meta turistica del Paese in tempi di pace. Ma anche una città fiera, epicentro 39 anni fa della rivolta contro il dittatore Anastasio Somoza. E avamposto della resistenza non violenta al regime di Daniel Ortega negli ultimi tre mesi, soprattutto nel quartiere di Monimbó. Un giorno triste, e la violenza non si ferma. Le strade sono vuote, regnano un silenzio surreale e il terrore imposto dalle forze speciali, che hanno smontato le barricate alzate in queste settimane dalla popolazione a Monimbó. Ma continuano la caccia all’uomo, di casa in casa, l’obiettivo è stanare i leader della resistenza.
È ancora caccia all’uomo. A raccontarci come stanno andando le cose è, al telefono, un sacerdote salesiano, padre César Augusto Gutiérrez. Vive nel collegio San Giovanni Bosco e a lui è affidata la cura pastorale della chiesa più centrale di Masaya, quella di San Sebastiano: “La città è completamente militarizzata, le barricate non ci sono più, ma la polizia speciale va di casa in casa, in cerca soprattutto dei giovani che capeggiavano la resistenza. Pare che le vittime del 17 luglio siano quattro, tra cui un poliziotto. I feriti sono molti e così le persone che sono state portate via e incarcerate. Tanti sono fuggiti”.
Con voce ancora emozionata, padre Augusto ricorda quanto è accaduto solo poche ore fa: “È stata una giornata di repressione molto violenta, portata avanti con armi pesanti”.
Impossibile resistere, anche per la fiera popolazione di Masaya: “Sono persone pacifiche, non abituate a combattere, hanno lanciato pietre, qualche granata artigianale”. Un mese fa l’attacco delle forze speciali era stato fermato dai vescovi: dal cardinale Leopoldo Brenes, arcivescovo di Managua; dal suo ausiliare, mons. Silvio José Báez, nativo proprio di Masaya; dal nunzio apostolico, mons. Waldemar Stanislaw Sommertag. Appena avuta notizia dell’attacco si erano precipitati a Masaya, che dista circa 35 chilometri dalla capitale. Si erano fatti largo in processione, con il Santissimo, ed erano riusciti a bloccare le forze speciali. L’immagine aveva fatto il giro del mondo. Stavolta le forze governative hanno fatto le cose in grande: si sono presentati in mille, armati fino ai denti, alle sei del mattino. L’ordine era chiaro: Monimbó andava riconquistata prima del 19 luglio, giorno di festa nazionale, 39º anniversario della deposizione di Somoza. “Ma ora – fa notare padre Gutiérrez – stiamo vivendo una dittatura ancora peggiore”.
Bloccato l’assalto a una chiesa. Il sacerdote salesiano ricorda un’altra costante degli attacchi di questi giorni, che hanno sempre più spesso come obiettivo le chiese: “È accaduto anche il 17 luglio, hanno sparato contro alcune chiese, volevano entrare nella chiesa di San Juan Bautista, ma non ci sono riusciti per la reazione popolare”. E adesso? “La situazione è davvero critica – prosegue padre Gutiérrez – il Governo e la Polizia sono contro il popolo, che continua a reclamare giustizia e democrazia, in modo non violento. E la Chiesa sta con il popolo, noi siamo pastori. I nostri vescovi hanno mostrato coraggio. E se il Governo pensa che, attaccando la Chiesa, ci farà perdere la speranza e la voglia di lottare, si sbaglia. Ci hanno tolto le barricate, ma non il cuore della gente. Sappiamo che Dio è giusto e che arriveranno giorni di pace”.
Giovani, riserva morale. Una speranza, soprattutto, arriva dai giovani: “Hanno mostrato una grande volontà. Come dice mons. Báez, sono la riserva morale della nostra patria e sono stati decisivi per il risveglio del nostro popolo”. Un ultimo appello il sacerdote lo riserva alla comunità internazionale: “Servono maggiori pressioni per far cessare questa violenza. E chiedo a tutti gli italiani di pregare per noi, per il nostro popolo”.
Articolo a cura di Lucia Capuzzi
America Latina. Nicaragua, regime in festa per nascondere la rivolta
Scontri a Masaya, assaltata l’ennesima chiesa. Intanto il presidente Ortega ordina ai suoi di salvare le celebrazioni per commemorare la rivoluzione
Monimbó s’è svegliato di soprassalto, destato dal suono delle campane. I rintocchi hanno allertato gli abitanti del quartiere indigeno di Masaya dell’irruzione dei paramilitari, le “turbas”. Sono questi ultimi il braccio armato dell’“Operación limpieza” (Operazione pulizia) lanciata dal governo nelle ultime settimane per fermare la protesta, giunta oggi al terzo mese consecutivo. A Monimbó, roccaforte della resistenza, hanno agito con particolare zelo.
Le “turbas” hanno sparato sulla gente che cercava di difendere le barricate, la parrocchia di Santa Maria Maddalena s’è ritrovata sotto il fuoco per ore. Almeno un agente è morto, decine di persone sono state arrestate. A mezz’ora d’auto di distanza, nella Plaza de la Fé di Managua, invece, fervevano i preparativi della festa, vigilati dai Kalashnikov della polizia. Il presidente Daniel Ortega, chiuso nella casabunker della Colonia del Carmen, lo ha detto con irrevocabile chiarezza ai suoi fedelissimi: niente deve rovinare, domani, la celebrazione dell’anniversario della rivoluzione che, 39 anni fa, mise fine alla sanguinaria dinastia del clan Somoza.
Il 19 luglio 1979, la colonna sud dell’esercito ribelle, il Fronte sandinista di liberazione nazionale, entrò trionfante a Managua. Daniel Ortega arrivò il giorno successivo, insieme al resto della giunta di governo. Retorica a parte, però, è difficile scorgere il comandante di allora nell’attuale presidente-dinosauro. Al potere da 11 anni e deciso a restarvi, dopo aver cambiato la Costituzione, creato gruppi paramilitari per reprimere il dissenso, assegnato ai familiari i principali incarichi istituzionali.
A cominciare dalla moglie, Rosario Murillo, vice e “eminenza grigia” dell’intero apparato. Non sorprende, dunque, che, agli occhi della gente, sia diventato via via più simile al deposto Anastasio Somoza che all’eroe nazionale César Augusto Sandino, alla cui lotta per la libertà dalla dominazione straniera e la giustizia si richiama il movimento sandinista. Eppure il governo di Ortega è parso, per oltre un decennio, inamovibile.
Grazie al sostegno del settore imprenditoriale, allettato da un mix insolito fatto di politiche neoliberali, opportunità di investimenti e silenzio imposto ai sindacati. «Un’alleanza corporativa» l’ha ribattezzata Carlos Fernando Chamorro, militante sandinista, figlio del più noto oppositore a Somoza, e ora direttore del giornale indipendente El Confidencial . A innescare un’inedita reazione a catena, il 18 aprile, è stata una riforma della previdenza, poi ritirata. L’intervento brutale delle “turbas” contro un corteo di pensionati, a León, ha suscitato l’indignazione generale, portando in piazza migliaia di persone. Ben presto, la richiesta dei dimostranti è diventata il ritiro del duo Ortega-Murillo.
Oltre trecentosettanta morti – di cui oltre 300 dal lato dei manifestanti –, 2.100 feriti, 261 desaparecidos dopo, secondo i dati dell’Asociación pro derechos humanos, la “Primavera nicaraguense” continua. «A lungo il Paese ha vissuto una crisi latente. Di triplice livello. Politico, innanzitutto: alle elezioni del 2016, che hanno visto l’ennesima riconferma di Ortega, l’astensione è stata intorno al 70 per cento. Un segno non colto di sfiducia – spiega Óscar René Vargas, sociologo ed economista –. Dalla fine di quell’anno, l’economia ha iniziato a rallentare a causa del venir meno degli aiuti vene- zuelani: 500 milioni di dollari l’anno».
Tale “gruzzolo” a propria disposizione discrezionale, era impiegato dal governo per blandire gli imprenditori e garantire sussidi in cambio di consenso. «Briciole che non hanno risolto i problemi strutturali del Paese, dove il 42 per cento della gente è povera e il 79 per cento lavora in nero», prosegue Vargas. La somma di questi tre fattori ha creato il magma della rivolta. Proprio come i vulcani che puntellano il suo paesaggio, il Nicaragua l’ha tenuto intrappolato nelle viscere. Con la repressione di aprile, la lava è arrivata in superficie.
Distruggendo l’equilibrio del sistema Ortega. In primis, il sodalizio con gli imprenditori, passati, con un tempismo sospetto, all’opposizione, insieme agli studenti e ai contadini. A provare a fare da ponte tra i due fronti, per trovare una via d’uscita non bellica, è la Chiesa nicaraguense. La Conferenza episcopale ha accettato la richiesta di fare da testimone e garante di un difficile dialogo nazionale. E non ha rinunciato, a dispetto delle aggressioni di cui sacerdoti e vescovi sono stati vittime. Perfino il cardinale Leopoldo Brenes e il nunzio Waldemar Stanislaw Sommertag sono stati malmenati, mentre gli assalti alle chiese sono quotidiani: ieri è stata incendiata la sede della Caritas di Sébaco, vicino a Matagalpa. Ortega è ostinato: rifiuta di anticipare le elezioni e aumenta la violenza per stroncare la rivolta, nonostante le condanne internazionali.
Anche il Segretario generale Onu Antonio Guterres e 13 Paesi latinoamericani hanno criticato la brutalità della repressione. Una violenza che la Chiesa, tra le poche istituzioni indipendenti, cerca di arginare. Sostenuti dalla vicinanza e dagli appelli di papa Francesco, i pastori nicaraguensi si frappongono fisicamente tra le turbas e la gente, e offrono asilo a chi scappa dalle violenze. Anche ieri, la denuncia via Twitter di monsignor Silvio Báez, vescovo ausiliare di Managua, ha contribuito a evitare un massacro a Monimbó. Come pure l’appello del nunzio, in nome del Papa.
Quella di domani per il governo più che una celebrazione, dunque, sarà una dimostrazione di forza. Almeno in apparenza. Ora come 39 anni fa, però, i manifestanti non sono disposti a farsi «rimettere in riga». «Che si arrenda tua madre!», gridano ad ogni corteo. Frase simbolica: la pronunciò, il 15 gennaio 1970, il poeta sandinista Leonel Rugama mentre la Guardia nazionale di Somoza gli intimava la resa. Quel giorno Rugama fu ucciso. Nove anni dopo la rivoluzione vinse.
Articolo a cura di Daniela Quintero Díaz
In Nicaragua anche la chiesa è sotto attacco
In Nicaragua la repressione non fa distinzioni, chiunque si ribelli al governo di Daniel Ortega è sotto attacco. E non si salva neanche la chiesa cattolica. Nel conflitto che è cominciato quattro mesi fa e ha già fatto 300 vittime, la Conferenza episcopale del Nicaragua (Cen) ha assunto un ruolo centrale, promuovendo e mediando i negoziati tra il governo e i suoi oppositori. Purtroppo, però, finora non è stato fatto nessun passo avanti e continua a subire attacchi e minacce.
Il ruolo degli ecclesiastici come intercessori del popolo del Nicaragua li ha portati a ricevere minacce di morte. Il 9 luglio un gruppo di vescovi della Cen era andato nella città di Diriamba per portare aiuto agli oppositori del regime che si erano rifugiati nella basilica di San Sebastián, dopo l’attacco delle forze di polizia e dei paramilitari. Nel tentativo di liberare le persone che erano nella chiesa, i vescovi sono stati aggrediti verbalmente e fisicamente dai seguaci di Ortega.
Domenica scorsa, i paramilitari hanno attaccato a colpi di arma da fuoco la macchina sulla quale viaggiava il vescovo Abelardo Mata che si dirigeva verso la città di Masaya assediata dalle forze governative. Anche il giorno precedente, una missione ecclesiastica era stata aggredita mentre cercava di aiutare alcune decine di studenti trincerati in una parrocchia di Managua. Il cardinale Leopoldo Brenes ha denunciato inoltre che uomini armati hanno attaccato alloggi parrocchiali in varie città del paese. Le gerarchie cattoliche ormai dicono chiaramente che questo è dovuto alla “mancanza di volontà politica del governo di dialogare con i suoi oppositori”.
Nel 2011, Ortega aveva dichiarato che la sua rivoluzione era “cristiana, socialista e solidale”
Secondo il quotidiano La Prensa, quello che sta succedendo in questi giorni ai sacerdoti ricorda le persecuzioni che subirono per aver criticato la rivoluzione sandinista guidata da Ortega dal 1979 al 1990. Qualche anno dopo, nel 1993, Giovanni Paolo II decise di fare visita al paese, visita che si concluse con il pontefice che chiedeva silenzio e la folla che cantava l’inno del Fronte sandinista di liberazione nazionale (Fsln). Questo peggiorò i rapporti tra il clero e la dinastia Ortega, che però qualche tempo dopo si rappacificarono.
La “conversione di Ortega” avvenne nel 2004, quando decise di avvicinarsi all’influente cardinale di Managua, Miguel Obando y Bravo, che lo aveva sempre aspramente criticato e al quale era stata attribuita la sconfitta di Ortega del 1996, per aver raccontato nella sua predica, nel giorno delle elezioni, la famosa leggenda della vipera. Obando y Bravo, che è morto lo scorso giugno, era stato nominato da Giovanni Paolo II nel 1985 e aveva finito per diventare il cardinale più vicino al regime di Ortega, tanto da celebrare la messa per il presidente e la sua compagna Rosario Murillo.
Obando aveva anche presieduto la Commissione per la pace e la riconciliazione del governo, incarico che Ortega gli aveva affidato dopo essere tornato al governo nel 2007 come riconoscimento per il suo impegno di mediazione nei numerosi conflitti della storia recente del Nicaragua. Nell’arco di tutta la sua vita di religioso, Obando aveva partecipato attivamente come mediatore in conflitti politici e armati, sia durante il regime dell’ex dittatore Anastasio Somoza sia durante la guerriglia con il Fronte sandinista negli anni settanta.
Nel 2011, Ortega ha dichiarato che la sua rivoluzione era “cristiana, socialista e solidale”, ma, secondo gli analisti, quello non è stato altro che “un espediente elettorale per ottenere i voti dei religiosi del paese”. Sempre a detta del quotidiano La Prensa, “il cambiamento di posizione del cardinale era dovuto ai benefici che otteneva da questo rapporto, come la criminalizzazione dell’aborto”.
La chiesa è la chiave del dialogo
La curia nicaraguense è divisa tra i sostenitori di Ortega e quelli che lo criticano. Di questo secondo gruppo fanno parte i sacerdoti e i cardinali che oggi sono bersaglio della furia del governo. Uno dei più attaccati è il vescovo ausiliare di Managua Silvio Báez, che l’anno scorso Ortega ha accusato di essere uno “spaccone” per non aver votato alle elezioni del 2017, diversamente dal cardinale Leopoldo Brenes, che aveva “dato la sua benedizione al processo elettorale”.
Oggi i due religiosi sono invece dalla stessa parte e criticano entrambi l’atteggiamento del governo. Anche il Vaticano si è pronunciato attraverso il suo segretario di stato, monsignor Pietro Parolin, che ha dichiarato ai mezzi d’informazione: “Speriamo che il dialogo, che al momento sta marcando il passo, possa essere ripreso e dare frutti. Anche se, in ogni dialogo, è necessario che ci sia da entrambe le parti la volontà di raggiungere un accordo”.
Dopo che il 22 aprile il presidente Ortega ha invitato la chiesa cattolica a fungere da mediatrice nel conflitto, la Cen ha confermato la sua partecipazione ai negoziati con una lettera al presidente nella quale avanzava delle richieste, tra cui quelle di permettere alla Commissione interamericana dei diritti umani di chiarire le circostanze della morte di tanti nicaraguensi, di abolire le organizzazioni paramilitari e le forze speciali che intimidiscono e aggrediscono i cittadini, e di mettere fine a ogni tipo di repressione nei confronti di gruppi di civili che protestano pacificamente.
In un’intervista all’emittente tedesca Deutsche Welle, lo storico nicaraguense Antonio Monte ha dichiarato: “In Nicaragua, paese a maggioranza cattolica, i pronunciamenti della chiesa cattolica hanno un grande valore simbolico e possono mobilitare molte persone e istituzioni. Per qualunque forza politica è più facile raggiungere un accordo per ristabilire l’ordine e la pace se ha il riconoscimento della chiesa”.
Per questo motivo, vedendo l’escalation del conflitto, che ha già fatto almeno 300 vittime, lo scorso 30 giugno il cardinale Brenes e il vescovo Rolando Álvarez sono andati a Roma per incontrare papa Francesco. In un’udienza privata con il pontefice, i due ecclesiastici hanno affrontato il tema della crisi che sta vivendo il Nicaragua e dell’intervento della chiesa cattolica nel conflitto tra il governo e i suoi oppositori.