Innovazione, a scuola nasce dalla tradizione. Un paradigma concreto al Don Bosco di Borgomanero, al di là dei facili slogan – TuttoScuola

Su TuttoScuola l’approfondimento del design della didattica della sezione digitale Secondaria di Primo Grado del Don Bosco di Borgomanero, basata su tre fondamenti: classe rovesciata, superamento della lezione frontale e uso del PC. L’ultimo punto è il meno importante ed è funzionale agli altri due.

Di seguito l’articolo a cura di Marco Merlin.

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Ormai il mantra si ripete regolarmente: mentre il mondo cambia, la scuola rimane identica a sé stessa. La lezione frontale è sempre la strategia dominante, il libro è ancora il contenitore del sapere, il docente resta il sacerdote che, con la sua predica, facilita l’accesso al testo. E gli alunni, inseriti nella catena di montaggio, ascoltano passivi il ronzio che si crea nella loro testa, sempre meno collegati alle parole del docente e sempre più fluttuanti sulle sollecitazioni dei social e del web.

Purtroppo, c’è molto di vero in questa descrizione sommaria, che però è anche un luogo comune sfocato rispetto a una realtà ben più variegata.

Non ci interessa qui rappresentare in modo più adeguato e sintetico il mondo della scuola, operazione utopica, ma prima di abbandonare il contesto e soffermarci su un esempio che sfugge radicalmente all’impressione generale da cui abbiamo preso le mosse, offriamo qualche ulteriore spunto, a dimostrazione della complessità del problema. Per esempio, le strategie didattiche tendono a irrigidirsi man mano che il curriculum scolastico progredisce. Nella scuola Primaria e nella Secondaria di Primo Grado le lezioni hanno un design più vario: c’è maggiore flessibilità e apertura alla sperimentazione. Nella scuola Superiore di Secondo Grado le discipline si specializzano a tal punto da risultare impermeabili rispetto alle sollecitazioni tematiche e strategiche che provengono dall’esterno. È ancora normale, nel nostro sistema scolastico, che in Storia a febbraio dell’ultimo anno si stia trattando la Prima Guerra mondiale, che all’esame di Italiano si debba discettare intorno a Pascoli o Verga o che all’orale si debba commentare il Coro dell’Adelchi (propongo esempi più prossimi ai miei interessi letterari, ma sostituiteli pure con altri provenienti da ambiti scientifici o tecnici). Figuriamoci se è il caso di discutere le forme con cui ogni disciplina somministra il proprio sapere agli alunni, se questi sono i contenuti. Si dovesse interagire con l’intelligenza artificiale o svolgere ricerche autonome, il docente dovrebbe uscire dai territori noti e parlare di Agamben o di Milo De Angelis, che nei manuali è già tanto se sono citati di passaggio. Avventure troppo avventate.

E tuttavia non è dannoso, talvolta anzi è persino auspicabile e sano, che a scuola si insista con pratiche di cui i giovani non farebbero esperienza altrove. Non si dia per scontato che uno studente sappia leggere e capire. Neanche se si è appena superata la soglia dell’università. Anche i rituali scolastici più vetusti hanno una loro portata di saggezza e di utilità: dettati, esercizi di calligrafia, lettura silenziosa in classe, dialogo socratico, dibattito filosofico fine a sé stesso: chi ha esperienza in aula sa quanto preziosi siano questi momenti.

Dunque, il rapporto tra tradizione e innovazione in ambito scolastico è ben complesso, ma l’esempio su cui vorremmo soffermarci vuole proprio dimostrare come i due aspetti possano e debbano valorizzarsi a vicenda.

La scuola di don Bosco

La pedagogia salesiana ha una nobile e autorevole tradizione, ormai consolidata, e in tempi non sospetti è stata giudicata innovativa e lungimirante. Al mutare degli orizzonti storici, questa pedagogia ha accolto le nuove sfide perché al centro del suo sistema non vi è la disciplina, il sistema del sapere a sé stante, ma i giovani, sempre uguali e sempre diversi epoca dopo epoca. Per esempio, quando nel 2020 arrivò il Covid, che nessuno poteva prevedere, la scuola salesiana di Borgomanero scoprì quanto le scelte portate avanti decenni prima le permettessero di affrontare il problema nel migliore dei modi. Ogni studente (a partire dalla scuola Secondaria di Primo Grado) era già dotato di un account, abituato a gestire nel cloud i documenti predisposti per la didattica (di qualsiasi formato: non solo presentazioni, ma anche video, audio, mappe create con software open source, ecc.), pronto a sostenere verifiche di competenza e non di conoscenza (ah, i post-it appiccicati ai lati del monitor: che tenerezza!), persino esperto nel lavoro di gruppo, anche a distanza. Don Bosco intercettava i giovani nelle strade, nelle piazze, nei cortili, per radunarli nel suo oratorio. Oggi i giovani si riversano sul web. La nostra assenza dal mondo digitale (e si dice “nostra” in quanto adulti, sia nella veste di docenti sia in quella di genitori) è il prodromo di una catastrofe educativa a cui forse stiamo già assistendo.

Un paradigma possibile

Testata per bene la cornice, entriamo nel merito del design della didattica prevista da una specifica sezione della scuola Secondaria di Primo Grado dell’istituto salesiano di Borgomanero. La si illustra perché è un modello funzionale, sensato, già sperimentato con profitto. Come si vedrà, è un puzzle che si compone di buone pratiche ben consolidate. Non si inventa nulla, eppure si trova un equilibrio nuovo, certo perfettibile come perfettibile è ogni attività umana, ma anche in linea con alcune urgenze educative chiare a tutti.

Per comodità, in attesa di qualche idea più brillante e calzante, la sezione in cui si lavora nei termini che spiegheremo viene definita “digitale”. Per necessità di sintesi, diremo che i fondamenti della didattica in questo caso sono tre: classe rovesciata, superamento della lezione frontale e uso del PC. L’ultimo punto è il meno importante ed è funzionale agli altri due. Tali fondamenti seguono un principio semplice: smascherare l’ipocrisia di certi rituali per prendere consapevolezza della scena e agire in modo più efficace. Tutte questioni arcinote agli esperti.

Secondo la tradizione, il docente in classe spiega, il discente ascolta, idealmente interagisce, quindi a casa verifica autonomamente il proprio sapere anzitutto ripassando la teoria, quindi affronta serenamente i compiti. Catena di montaggio perfetta sulla carta, ma non è difficile aprire gli occhi sulla realtà: il planning per i ragazzi (sempre più fragili e ansiosi, oltretutto) è naturalmente complicato, figurarsi quanto più lo è a fronte di tante materie mal distribuite durante la settimana secondo logiche astratte e del tutto avulse dai loro bisogni specifici e da un generale buon senso; i compiti sono uno stress, specialmente se associati a molteplici altre attività, anche impegnative e non solo ricreative, che riempiono le loro giornate; i genitori, qualora pur volessero, hanno sempre meno tempo e competenze per accompagnare i figli nell’apprendimento, che del resto dovrebbe volgersi verso un’autonomia sostanziale; lo studio teorico viene rimandato finché l’imminente verifica non lo impone, ed è ormai troppo tardi. Le raccomandazioni molto sagge dei genitori e dei docenti restano flatus vocis, ma tanto basta per illudersi di aver compiuto il proprio dovere e affrontato, come si è sempre fatto, le sfide del tempo. Come supporre di abbattere droni e aerei supersonici con la fionda.

Ribaltare la logica comporta sicuramente alcuni benefici. Se dovessimo sbandierare slogan, diremmo che stiamo annunciando una scuola che funziona meglio perché non assegna compiti domestici. Ma è possibile? Non è un paradosso? Come promettere di imparare di più lavorando di meno? Non si tratta, in effetti, di lavorare di meno, ma di lavorare nei tempi giusti. Spieghiamoci.

Intanto, è esperienza comune quanto sia delicato il passaggio dalla teoria alla pratica. Si tratta forse dello scoglio che meglio contraddistingue il passaggio dalla scuola primaria, essenzialmente esecutiva e mnemonica, a quella secondaria, che stimola il pensiero critico e l’autonomia. È lo smarrimento dello studente che scopre che “su”, improvvisamente, non è detto che sia una preposizione, sebbene faccia parte di uno dei pochi repertori che non si perdono nel trasloco da “elementari” a “medie”: “di, a, da, in, con, su, per, tra, fra”. Una cantilena rassicurante, forse più sacra delle stesse tabelline.

Quindi, sapere la teoria conta relativamente. Capire e applicare una regola secondo le infinite variabili della situazione concreta è altra faccenda. Insomma, è proprio durante l’esecuzione degli esercizi che servirebbe il docente! Copiarli dalla lavagna o svolgerli insieme in classe, le volte in cui ciò accade, è un po’ come annuire insieme agli altri in modo automatico quando il professore chiede: “È tutto chiaro?”. Con la classe rovesciata, invece, si studia a casa e si svolgono gli esercizi in aula e, come vedremo, i compiti non si svolgono “tutti insieme”. Peraltro, ai tempi dell’intelligenza artificiale a disposizione di chiunque, come assegnare compiti domestici a cuor leggero?

Il design delle strategie di apprendimento

La scansione più tipica delle lezioni (mai, comunque, rigida) nel nostro caso è la seguente: 1. Avvio del processo di apprendimento a scuola; 2. Studio personale pomeridiano; 3. Verifica della teoria al rientro in classe; 4. Attività di verifica, consolidamento o approfondimento; in alternativa, spiegazione cooperativa; 5. Ripetizione dei passaggi, con eventuali percorsi personalizzati e scelte libere, fino alla verifica finale. Vediamo nel dettaglio.

  1. Anzitutto, il docente innesca l’argomento, ovvero, a seconda delle occasioni, si concentra su uno o più dei seguenti obiettivi: attivare l’interesse, prendere coscienza di un bisogno, fornire elementi chiave essenziali o illustrare finalità e contesto di senso di quanto si andrà a fare. Si aggiunga, a piacere, tutto ciò che diventa utile per stimolare l’apprendimento. Esempi. Si sottopone agli studenti un compito di realtà che non sono in grado di risolvere integralmente, poi a casa studieranno (magari senza accorgersene fino al rientro in classe, con il successivo passaggio guidato dal docente) concetti astratti o formule che si riveleranno indispensabili. Oppure si discute e si lascia aperto un tema di comune interesse, magari una questione sollevata dall’attualità, quindi si ritroveranno, nei materiali da studiare, tracce e riflessi di quel problema, che poi a scuola verranno sviluppati congruamente. Ancora: si concretizza tutto in una storia, ci si immedesima in una situazione, per poi tuffarsi da soli nell’analisi di casi paradigmatici. E così via, dando massimo spazio alla creatività personale (o affidandosi ai suggerimenti dell’IA, nel caso dei docenti che, come gli studenti, mal digeriscono i compiti a casa…).
  2. Lo studio personale, non illudiamoci, nasconde altre insidie. Siamo certi che tutti gli alunni sappiano leggere e capire? O sappiano scegliere le informazioni più importanti e che siano in grado di memorizzarle? E se fossimo passati dalla padella alla brace? Anche studiare da soli, senza l’aiuto del docente, talvolta è difficile. Ma c’è il vantaggio di aver svolto il passaggio 1 e di dover studiare attraverso materiali preparati dal docente, in un’ottica inclusiva e varia: non solo un testo stampabile, ma anche mappe, schemi, slide, videolezioni, link utili e così via. Ecco che l’uso del PC comincia a mostrare la sua funzione. Si aggiunga, da subito, la possibilità di assegnare anche qualche esercizio autentico, come la registrazione e la condivisione di una lettura magari in altra lingua o la produzione di materiali relativi allo studio: schemi originali, sottolineature, mappe più o meno libere.
  3. La buona prassi tradizionale prevede la correzione dei compiti in classe (sebbene la pratica si trasformi in un processo di gruppo automatizzato, con i soliti studenti alienati che lavorano come tanti piccoli Charlie Chaplin sulla catena di montaggio dei loro quaderni). La prassi ribaltata richiede quindi il controllo dello studio. Se i compiti, almeno, si esibiscono immediatamente, il controllo dello studio personale risulta di primo acchito più aleatorio o difficoltoso. Si deve interrogare tutti, ogni volta? E l’ultimo avrà davvero studiato o avrà appreso nel frattempo dagli altri? A parte il fatto che, in quest’ultimo caso, avremmo comunque raggiunto l’obiettivo, nel controllo dello studio il docente rivela la sua destrezza nella gestione della classe, perché la varietà delle soluzioni è ampia. Si comincia sempre con la domanda di rito: “Avete compreso interamente l’argomento o è necessario spiegare qualcosa?”. La classe, resa opportunamente consapevole del metodo o già esperta, sa che, in caso di assenza di bisogni, il docente potrà, a sua discrezione, procedere con una verifica: attraverso le classiche domande random (con l’accortezza di non bersagliare solo i soliti sospetti), oppure interrogando qualcuno, o ancora con una verifica “a sorpresa” per tutti. In ogni caso, si tratterà sempre di valutazioni formative, che per la sezione diventano costanti e fondamentali (ci si lamenta spesso che gli studenti non studiano, ma alla fine qual è la spinta gentile per risolvere il problema? Solo calde raccomandazioni?). Il docente potrebbe anche decidere di procedere, fidandosi degli studenti, senza interrogare: la verifica degli apprendimenti avverrà automaticamente attraverso l’esecuzione dei compiti o lo svolgimento delle altre attività previste. I nodi verranno al pettine.
  4. Con il quarto punto, si entra nel vivo della situazione di apprendimento. Ed è tempo di chiamare in causa il secondo pilastro didattico: no alla lezione frontale, sì all’apprendimento cooperativo. Tutti devono essere attivi, il docente diventa co-protagonista se non, meglio ancora, solo regista della situazione di apprendimento. Che significa? Quali sono le circostanze più tipiche? Anzitutto, certi studenti potrebbero aver sollevato determinati bisogni (da quelli meno sensati, magari furbetti e un po’ ruffiani, a quelli che invece già di per sé dimostrano il reale impegno nello studio e magari persino acume). In tal caso, il docente non risponde, ma annota ogni questione. Semmai, osserva se la domanda posta da uno studente risuona anche in altri. Lasciando aperte le questioni emerse, avvia l’attività. Di norma, potrebbe trattarsi di esercizi, da svolgere in piccoli gruppi o individualmente. A questo punto, il docente sceglierà se rispondere personalmente alla domanda di ogni alunno oppure rilanciare la questione nella sua isola ristretta di lavoro, sollecitando e guidando la collaborazione (e verificando, contestualmente, lo studio e la comprensione degli altri, o le difficoltà espressive, o le lacune nell’autoconsapevolezza di ciascuno, ma in ogni caso rendendo gli studenti attivi rispetto alla materia trattata). Risolte le varie questioni, continuerà ad affiancare gli studenti per aiutarli negli esercizi in modo personalizzato. L’utilizzo del PC permetterà il ricorso rapido a batterie di nuovi esercizi, magari opportunamente differenziati a seconda dei livelli degli studenti, oppure il recupero di materiali di studio o la produzione di nuovi materiali dettati dalle domande e dai bisogni emersi dal confronto con gli studenti.

Quando risulterà opportuno, una volta risolte le difficoltà preliminarmente sollevate, il docente procederà con ulteriori spiegazioni, sempre evitando la lezione frontale. Consiglio questi due o tre modelli operativi, in tal caso.

A) Mentre le altre isole svolgono esercizi oppure cominciano a studiare un argomento nuovo (da soli o in gruppo, secondo le direttive ricevute), il docente spiega a un numero ristretto di studenti, con vantaggi che si scopriranno immediatamente: la relazione si rafforza, l’attenzione è stimolata, la partecipazione aumenta, il controllo dell’apprendimento è automatico. Spesso si finisce per offrire piccoli suggerimenti strategici: “Sottolinea questo, imposta lo schema così, annotati e impara la parola chiave, prova questa soluzione alternativa, io la vedrei in questa prospettiva”. Al docente sarà agevole mettere a fuoco ogni singolo studente con le relative problematiche: chi non sta capendo, chi non riesce a concentrarsi nemmeno per cinque minuti in un piccolo gruppo, chi ha già capito quasi tutto da solo, chi è interessato o demotivato, chi ha altro per la testa, chi non sa prendere nemmeno due appunti semplici. L’insegnante esperto, lo sappiamo, anche quando è in piedi e parla a più di venti alunni contemporaneamente saprebbe riconoscere la situazione di ciascuno, ma il punto è che non ha altre possibilità di azione che richiamare pubblicamente chi è distratto o disturba oppure lamentarsi genericamente della classe, oppure accettare l’ipocrisia della situazione e procedere. Lavorando con tre-quattro alunni alla volta, gli risulterà naturale intervenire in modo meno invasivo e più preciso. Vale più una buona parola detta al momento giusto alla persona giusta che una predica per un’intera platea, annoiata e distratta. Dopo aver lavorato con un gruppo, ripeterà l’esperienza con gli altri. Qualora il nuovo gruppo avesse già avviato lo studio autonomo dell’argomento, si comincerà con il controllo degli apprendimenti, sollecitando ognuno a condividere conoscenze o dubbi. Nel migliore dei casi, il docente sarà approdato in un’isola in cui gli studenti hanno già imparato in autonomia.

B) Il docente potrebbe decidere di non ripetere tre, quattro, cinque volte o più la stessa lezione per gruppi ristretti di studenti, ma di affidare ai membri del primo gruppo la spiegazione agli altri. L’accortezza, in questo caso, è di formare opportunamente gli studenti al ruolo previsto. Possono bastare semplici raccomandazioni (“Attenzione, controllate che i vostri compagni annotino bene la definizione; se riuscirete a far comprendere questo concetto ai vostri compagni otterrete un bonus”), ma non vanno escluse verifiche modellate sull’attività e gli obiettivi specifici al termine del processo di “redistribuzione interna del sapere”. Ovviamente, quando avrà inviato gli studenti alle diverse isole, il docente resterà attivo, girando fra i gruppi, osservando, intervenendo, rispondendo a domande, suggerendo modalità di spiegazione, correggendo difetti di ogni sorta, e così via.

C) Il docente potrebbe anche decidere di non spiegare, ma di controllare l’apprendimento autonomo degli alunni. Una delle tecniche assodate è nota. Ogni studente di un’isola si trova ad affrontare autonomamente una porzione di studio (per esempio, un paragrafo specifico). Il docente starà attento ad assegnare le parti secondo un’ottica inclusiva: chi è in difficoltà avrà la parte più semplice. In un primo momento, si lavora da soli e in silenzio. Il docente non interviene nemmeno (con le dovute eccezioni) di fronte alle richieste del singolo, alle prese con il suo paragrafo. Dopo il tempo previsto, si formano le isole degli esperti: tutti quelli impegnati nello studio dello stesso paragrafo si radunano e si confrontano, per risolvere eventuali problemi e per produrre semplici materiali di studio e supporti per il loro prossimo intervento. Eventualmente, fanno rapide prove di esposizione. In questo caso, ogni gruppo può chiedere l’intervento del docente per qualsiasi delucidazione o suggerimento. Terminata anche questa fase, si ricompongono le isole di partenza e, a turno, ciascuno giocherà la parte del docente ed esporrà i propri contenuti. Il docente mantiene il ruolo attivo di osservatore, pronto a intervenire se necessario.

A seconda delle unità di apprendimento o dell’articolazione dei moduli predisposti, il docente ripeterà e rimodellerà le fasi precedenti, prima di giungere alla verifica finale. Vale la pena tenere presente, in questa “coda”, altre accortezze. Anzitutto, suggerirei di aprire uno spazio di libera scelta da parte dello studente, al quale verranno offerte diverse opzioni. Si parlerà di approfondimenti differenziati, di ulteriori esercizi di rafforzamento, di un’attività mirata di recupero o di altro ancora. La libertà è stimolante e responsabilizzante. E sarebbe opportuno che anche la strategia didattica fosse scelta dall’alunno. Qualcuno, per esempio, potrebbe preferire il lavoro individuale o la preparazione di un particolare prodotto o di una specifica performance. Anche qui, spazio alla fantasia e ai talenti degli alunni, pur restando nell’alveo stabilito dalla progettazione didattica di inizio anno (o derogando alla stessa, nel caso).

E il PC?

Il terzo pilastro di questa metodologia didattica è l’utilizzo del PC. Da quanto si è fin qui annotato, si sarà intuito che si tratta di uno strumento efficace e nulla più. Il suo utilizzo è completamente guidato da una logica tradizionale, ma consapevole delle opportunità e delle sfide che offre il nuovo strumento di lavoro. Il passaggio dal libro al computer non è innocuo, non è un semplice cambio di supporto, ma comporta un’inedita riformulazione dei contenuti stessi. Il supporto cambia forma al messaggio, imprime nuovi sensi, impone nuove logiche e nuove esperienze.

Personalmente, non esito a definirmi un amante dei libri, un uomo della tradizione. Vorrei potermi permettere anche la piccola vanità di confessarmi uno scrittore, un poeta addirittura. Come potrei non essere un docente che considera il testo con il massimo riguardo, addirittura con venerazione totale nel caso delle grandi opere? Ebbene, il passaggio al computer, anzitutto, non esclude il libro. Nella sezione digitale di cui vi sto raccontando è istituzionalizzato il quarto d’ora di lettura personale e silenziosa durante la mattinata. Quando spiego un’opera, il testo è il centro di riferimento di qualsiasi ragionamento, lo scrigno misterioso da aprire e di cui godere. In aula, all’occorrenza, si può sempre ricorrere a manuali e altri libri presenti negli scaffali. Ogni volta che il pc non è strettamente necessario, gli studenti ricorrono al quaderno degli appunti oppure al raccoglitore. Ma il PC permette di rimodellare molte pratiche scolastiche rendendole non solo più attrattive ma più efficaci. Mi limito anche qui a pochi altri esempi.

La vetusta e apparentemente desueta pratica della dettatura viene rinnovata, attraverso un audio digitale. Che stia svolgendo l’esercizio a casa o in classe, lo studente, attrezzato con gli opportuni auricolari, potrà concentrarsi individualmente, stoppare quando vuole, riascoltare. Si fa subito evidente quanto l’esperienza diventi più inclusiva e rispettosa dei ritmi di ciascuno. Ma pensiamo alla verifica degli apprendimenti: con un semplice modulo, magari con impostata l’autocorrezione, si controlla rapidamente lo studio personale. Ancora: mi piacerebbe aver tempo per illustrare le profonde differenze che intercorrono tra l’elaborazione di un tema a mano e con PC (entrambe le pratiche convivono nell’esperienza che vi racconto, alternate a discrezione del docente o, a volte, secondo le preferenze dell’allievo). Mi limito a osservare la fase conclusiva del processo. Di fronte a un tema a mano, lo studente guarda il voto e, per quanto stimolato a riflettere sugli errori, finirà per consegnare il suo testo, destinato all’archivio in segreteria, e dimenticarsene. Un’eventuale attività di correzione sarà vissuta come un castigo: correggere sul quaderno, al peggio riscrivere l’intero tema. Come biasimarli. L’elaborato restituito in digitale, invece, non conterrà le correzioni del docente, ma le indicazioni per una revisione attiva da parte dello studente. E magari il voto sarà poi pesato maggiormente sulla capacità di autocorrezione guidata, rispetto alla prima stesura… A questo punto il tema resterà nell’archivio digitale dello studente, accessibile facilmente anche ai familiari o altri tutor personali (insieme ad altre verifiche svolte in digitale). Ci si potrebbe agganciare adesso alle suggestioni del portfolio o dei capolavori suggerite varie volte dai pedagogisti e a chissà quanti altri utilizzi dei materiali didattici che documentano, negli anni, il percorso di uno studente. Altra riflessione: come sappiamo, i libri sono statici e datati. Che differenza aprire un libro di geografia di qualche anno fa e sorvolare un territorio in modo interattivo con una delle tante applicazioni disponibili, magari per affrontare un tema di strettissima attualità che il manuale scolastico non aveva previsto…

Non credo di dover procedere, nel 2025, a illustrare le potenzialità garantite dal digitale. Mi basta aver chiarito l’ottica consapevole e critica con cui lo si propone. Tant’è vero che non si ignorano le diverse problematiche implicate e, anzi, si ritiene che l’introduzione del digitale nella didattica della scuola Primaria andrebbe esplicitamente vietato, con poche ponderate e sporadiche eccezioni. La scuola Secondaria di Primo Grado, con i primi passi compiuti nello sviluppo del pensiero astratto, è invece il momento propizio e delicato per educare al suo utilizzo e sfruttarne le potenzialità didattiche, in particolare per lo studio personale. Prima o poi qualcuno che insegni agli studenti a utilizzare correttamente le risorse digitali è necessario. Sarebbe anzi un obiettivo esplicito dei programmi didattici. A quattordici anni i giovani si saranno già tuffati negli oceani del web, anche se nessuno avrà spiegato loro come nuotare e come sopravvivere ai pescicani.

Gli effetti della forma sul contenuto

Sarebbe necessario, a questo punto, entrare nel merito delle logiche interne di ogni disciplina e scoprire come gli strumenti e le pratiche adottate permettono la ristrutturazione anche dei contenuti di apprendimento. Il principio che ci ispira è magistralmente espresso da una frase di Edgar Morin, che riprende Montaigne (ancora la tradizione!):

La prima finalità dell’insegnamento è stata formulata da Montaigne: è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena. Cosa significa “una testa ben piena” è chiaro; è una testa nella quale il sapere è accumulato, ammucchiato, e non dispone di un principio di selezione e di organizzazione che gli dia senso”. Una testa ben “fatta” significa che invece di accumulare il sapere è molto più importante disporre allo stesso tempo di: un’attitudine generale a porre e a trattare i problemi; principi organizzatori che permettano di collegare i saperi e di dare loro senso. 

Quindi, diremo che in questa esperienza scolastica si predilige la visione d’insieme. Solo dopo aver intuito, se non compreso bene, il quadro generale si inseriranno i dati particolari. E non si ha mai fretta di fornire le risposte: più importante è esprimere bene le domande e scoprire le varie strategie attuabili per raggiungere la soluzione.

Per restare negli ambiti di mia pertinenza, racconterei come l’intero percorso di grammatica sia stato ripensato in modo originale. Fin dal primo anno della Scuola Secondaria, gli studenti svolgono contemporaneamente l’analisi grammaticale, logica e del periodo, in modo sintetico ma perfettamente integrato. Solitamente, i gruppi sono di tre persone, che si alternano, nelle diverse analisi, frase dopo frase, corresponsabili, dopo il momento di confronto, dell’eventuale risultato del loro lavoro. Con l’uso di un software gratuito (CmapTools, impiegato regolarmente per le mappe concettuali) si formalizza l’analisi, incentivando il pensiero astratto e rendendo intuitiva l’analisi logica e del periodo.

Non c’è però spazio, qui, per entrare nel dettaglio. Eventuali interessati potranno farsi un’idea visionando alcune videolezioni raggiungibili sul canale YouTube “@AndreaTemporelli” nella sezione “Corso di grammatica con metodo digitale (scuola secondaria)”. Piuttosto, rispondiamo subito alle prime questioni generali implicate dal metodo fin qui descritto.

Qual è la tipologia di ragazzi/e più adatta al metodo?

Un nuovo metodo didattico solletica la speranza di aver trovato finalmente la formula magica per risolvere ogni problema, specialmente per chi a scuola fatica a esprimere il proprio potenziale o dimostra specifiche difficoltà. Ovviamente non è così e, come sappiamo, ogni cervello è differente e ciascuno, in un contesto comunque organizzato, per quanto inclusivo, deve elaborare il proprio metodo personale.

Se in linea di principio chiunque può trovarsi bene con le pratiche descritte per la sezione “digitale”, è evidente che ci sono ragazzi che potrebbero riscontrare più disagi che benefici. Non è richiesta alcuna competenza digitale come prerequisito, perché i primi mesi di attività sono dedicati all’alfabetizzazione informatica di base. Ma chi è veramente poco autonomo e ha necessità di un costante accompagnamento a casa, può trovarsi disorientato di fronte a tante novità e ai diversi strumenti. Diario e libro danno, inizialmente, più certezze, e rassicurano. In generale, l’esperienza acquisita suggerisce la scelta delle diverse sezioni all’interno dell’offerta formativa del nostro istituto sulla base degli stili cognitivi. Chi ha uno stile di apprendimento intuitivo, globale e visivo è, in linea di principio, particolarmente adatto alla sezione. Resta il problema di identificare bene lo stile di uno studente. Se anche la scuola Primaria è stata vissuta secondo strategie didattiche molto tradizionali, il ragazzo sarà stato addestrato per anni con un impianto analitico e verbale, ma non è detto che tale stile corrisponda realmente alla sua forma mentis.

Per quanto riguarda eventuali bisogni educativi speciali o disturbi dell’apprendimento, è facile capire che per chi fosse disgrafico o disortografico il computer rappresenta una risorsa utilissima, mentre, all’opposto, disturbi dell’attenzione o iperattività potrebbero essere sollecitati non solo dal pc personale, ma dallo stesso design delle lezioni, che spesso comporta un ambiente vivace e ricco di stimoli. Anche chi lavora in modo spiccatamente individualista dovrà integrarsi in un sistema naturalmente cooperativo.

Non c’è bisogno di spiegare, immagino, che una sezione “digitale” va sconsigliata a chi pare già predisposto a dipendenze da videogiochi o tende a stare sovraesposto a device di varia natura.

Quali sono le criticità principali e come superarle?

Le difficoltà principali riguardano la formazione dei docenti di sezione e la personalità con cui gestiscono sia i contenuti di apprendimento (ci sono insegnanti che senza un manuale si sentono disorientati) sia la classe. La lezione frontale illude il docente rispetto al controllo della situazione. Avendo esposto lui, da buon professionista, i contenuti, ritiene che l’alunno zitto e, si spera, attento, capisca, o capisca di non aver capito e abbia la capacità di intervenire. Il docente poco carismatico, seduto fra gli alunni, mentre gli studenti stanno lavorando in gruppo e magari sono invitati a parlare e confrontarsi in modo opportuno, potrebbe non essere in grado di gestire completamente la scena o avere anche solo la fastidiosa sensazione di disordine e insubordinazione. Basterebbe un periodo di osservazione guidata delle circostanze di apprendimento tradizionale e digitale per smascherare certi pregiudizi. In particolare, il docente deve accettare di non poter avere il controllo completo su tutti, mai. Almeno, stando in mezzo a loro con una didattica cooperativa, avrà modo, nel giro di poche lezioni, di intervenire personalmente con ogni alunno e di sapere che nelle sue lezioni tutti avranno quantomeno interagito attivamente con gli altri. Forse concedendosi anche un po’ di svago, ma, vivaddio, qual è il problema in tal caso? Nella situazione più tradizionale, certi alunni si attivano e parlano solo nelle interrogazioni. Il resto del tempo si mimetizzano, apprezzati per non aver mai disturbato, abbandonati alla loro fragilità educata.

Altra eventuale problematica è rappresentata dal lavoro in gruppo. Un insegnante è naturalmente, lo voglia o no, anche un educatore, per cui sa di dover affrontare difficoltà non solo a livello didattico, ma anche relazionali. Non credo sia necessario sottolineare il valore delle soft skills. Ma organizzare isole di lavoro inclusive ed efficienti non è sempre agevole. Ma il meglio è nemico del bene, insegnava don Bosco. La perfetta esecuzione di un lavoro o l’esposizione di un contenuto, frutto di un processo che ha escluso i più fragili, dovrebbe aver meno valore di un risultato imperfetto e forse persino di qualche fallimento, mosso però da principi sani e ispirato a finalità nobili, che le tabelle con gli standard non sapranno mai esprimere con una colonna graduata.

Il vero rischio da parte dei ragazzi, invece, è l’uso inappropriato o smodato del computer. In classe spesso lo si lascia nello zaino, ma nel pomeriggio, privo di controlli, lo studente potrebbe approfittarne. Ed è un problema anche la scarsa vigilanza, per ignoranza o negligenza, da parte della famiglia. La soluzione è ovvia, e tocca un problema urgente per chiunque: la formazione generale delle famiglie sul piano educativo e, nello specifico, nei confronti degli ambienti digitali, a cui spesso espongono i figli senza la minima prevenzione.

A proposito di famiglie. Anche quelle che presumono di essere competenti possono interferire negativamente, specialmente qualora il problema che esse si pongono fosse il confronto con altre realtà in termini di contenuti svolti. In tal caso, occorrerà tornare a Montaigne e Morin…

Quali sono le migliori caratteristiche fisiche dall’ambiente di apprendimento in cui si agisce?

Come spiegato, il setting didattico è piuttosto variabile. Presuppone la disposizione a isole dei banchi e la loro rapida e agevole ricomposizione, secondo le necessità del momento. Dovendo utilizzare il pc, ogni isola deve disporre in sicurezza di una presa multipla sufficiente per gli studenti. Nel nostro caso, siamo dotati di banchi con una “antenna”, collegata con i cavi elettrici che scendono dal soffitto. Nell’isola ci si collega senza disporre cavi all’esterno, nelle zone di passaggio.

L’utilizzo del pc, come spiegato, è discreto e funzionale e a servizio dell’interazione umana, ma spesso si ricorre a libri, anche per riattivare abilità dimenticate, come cercare su un Atlante la cartina giusta e recuperare manualmente le coordinate di una località. Per questa ragione è necessaria la presenza di qualche scaffale con una piccola biblioteca di classe, ottima riserva anche per i quarti d’ora di lettura, quando lo studente non ha con sé il proprio libro.

Per il resto, valgono le buone norme condivise e promosse dall’architettura didattica.